sabato 28 febbraio 2015

Quarant’anni fa l’omicidio di Mantakas, ennesima vittima dell’intolleranza comunista


da secoloditalia.it
28 febbraio 2015. 
I gravissimi scontri che l’estrema sinistra sta scatenando in queste ore a Roma, per impedire la libertà di parola, ci riportano alla mente gli anni Settanta, esattamente il 1975, quando in questo giorno teppisti criminali dei collettivi comunisti tentavano nello stesso modo di ostacolare la libertà di parola e di espressione ai giovani missini. 
Quel giorno uccisero un giovane greco, Mikis Mantakas, venuto da Atene per studiare Medicina. 
Era andato inizialmente all’ateneo di Bologna, ma aveva subito un’aggressione dai gruppettari di sinistra per le sue simpatie missine ed era stato quaranta giorni in ospedale. Venuto a Roma, aveva iniziato a frequentare la sede del Fuan di via Siena, l’organizzazione universitaria missina. E qui aveva stretto amicizia con molti giovani che la pensavano come lui. 
Quel giorno aveva deciso di andare al tribunale di piazzale Clodio per seguire il processo a Lollo, Clavo e Grillo, militanti di Potere Operaio che avevano bruciato vivi i fratelli Mattei a Primavalle per odio politico. 
Le notizie seguenti sono state tratte nel volume di inchiesta “Da Primavalle a via Ottaviano”, realizzato dai giornalisti del Secolo d’Italia Gianni Amati e Roberto Rosseti. Il 24 inizia al tribunale penale di Roma a piazzale Clodio il processo Primavalle. 
Solo Achille Lollo è in carcere, mentre Marino Clavo e Manlio Grillo sono latitanti.
Da due anni sinistra, giornali e tv scatenano la piazza contro il processo e contro il Msi. Si distingue il collettivo di via del Volsci, ossia i Comitati autonomi operai, organismo inserito nello schieramento formato dai collettivi del Policlinico, quello dell’Enel, dal collettivo di Fisica, da Potere Operaio e da Avanguardia Comunista, nella quale erano confluiti i gruppi Lotta Comunista e Viva il Comunismo. 
Sin dalle prime ore della mattina del 24 febbraio gli extraparlamentari tentano di venire a contatto con i giovani di destra che sono fuori dal tribunale. Alle 10,30 il Collettivo di Fisica guida il primo corteo che lancia sassi e sei molotov contro la Celere, che carica e lo disperde. Alle 14 finisce l’udienza. Il bilancio è tre poliziotti, un giovane di destra e due passanti feriti. In mattinata muore per infarto il dirigente della polizia Pietro Scrofana, vittima dimenticata del dovere e dei comunisti.

Le sinistre mobilitate da tutta Italia per il processo Primavalle

Il 25 Prosegue la mobilitazione delle sinistre da tutta Italia. 
Alle 8,30 i comunisti cercano di vietare l’ingresso ai fascisti in tribunale e si accende uno scontro, subito sedato dalla polizia. Dentro l’aula tafferugli e grida “Lollo libero”, ma il tumulto viene sedato con una certa energia dall’allora maggiore dei carabinieri Antonio Varisco, che qualche anno dopo sarà assassinato dalle Brigate Rosse.
Fuori dal tribunale proseguono gli scontri tra gruppettari e celerini. Il giorno successivo, il 26, Lotta continua e i collettivi invitano tutti ad andare venerdì 28 a piazzale Clodio. Il 27 Lotta Continua e il Quotidiano dei Lavoratori (di Avanguardia Operaia) pubblicano le foto dei missini davanti a piazzale Clodio e invitano ad andare il giorno dopo davanti al tribunale. 
E siamo arrivati al 28 febbraio. 
Già dalle sei di mattina arrivano davanti al tribunale tutti i collettivi di Roma e anche da fuori Roma equipaggiati per la guerriglia urbana. A quell’ora ancora non ci sono le forze dell’ordine, solo una jeep della Celere. Alle 6,30 quattro ragazzi del Fronte parcheggiano la macchina e si avviano verso il tribunale, ma vengono affrontati da un gruppo di autonomi armati che controllavano tutti gli accessi a piazzale Clodio. Riconosciuto il capo attivisti del FdG, uno degli aggressori gli spara tre colpi calibro 7,65, ma senza colpirlo. 
I missini concordano sul fatto che gli aggressori fossero toscani. Poi si saprà che i compagni erano venuti da tutta Italia per difendere Lollo, che aveva bruciato un bambino e un giovane di 22 anni. Alle 6,45, i giovani di destra si incolonnano nelle transenne per entrare in tribunale, ma improvvisamente, da tre parti diverse, arrivano un centinaio di gruppettari che iniziano a bastonare i giovani anticomunisti, uno dei quali riporta la rottura di un braccio col quale cercava di ripararsi. Un altro missino viene colpito da un colpo di pistola alla gamba e altri vengono feriti. I missini riescono a entrare in tribunale e a chiudere le porte. I compagni allora iniziano una sassaiola che manda in frantumi i vetri dei primi due piani del tribunale. 
Prima delle sette del mattino gli extraparlamentari hanno già sparato due volte. Nell’antisala del tribunale c’è uno scontro tra un giovane del Fronte e un extraparlamentare, che risulterà essere Alvaro Lojacono. In suo favore interviene il parlamentare comunista Umberto Terracini, che fa parte del collegio di difesa degli imputati per Primavalle. Verso le 11,30 si accendono incidenti in tutto il quartiere, e in particolare alcune centinaia di attivisti comunisti ingaggiano scontri con la polizia. 
Contestualmente un’altra ottantina di attivisti si disperde nelle strade laterali dirigendosi verso piazza Risorgimento dove c’è la sezione del Msi, clamorosamente non sorvegliata. Nel frattempo viene assaltata con bombe molotov la Rai di via Teulada, invece ben vigilata dalle forze dell’ordine. Seguono due ore di guerriglia urbana in tutta la zona. 
Alle 12,45 i militanti di via del Volsci individuano e assaltano un’auto civetta della polizia: la macchina è colpita con spranghe, una molotov la incendia e i tre occupanti vengono massacrati dai comunisti. Arriva un altro poliziotto, di nome Gigante, su un’altra vettura. Scende con la pistola in pugno per salvare i suoi colleghi. I compagni gli puntano addosso sei o sette pistole e riescono ad allontanarsi. Successivamente questo gruppo di fuoco da via Campanella, dove è successo il fatto, va a via Ottaviano e alle 13,15 arriva nei pressi della sede del Msi in piazza Risorgimento
Sono un centinaio, armati, mentre i missini poco più di una ventina, disarmati. Le forze dell’ordine sono assenti, i missini sono in sede, e nessuno si avvede dell’avvicinamento. Partono le bottiglie incendiarie che alzano un muro di fiamme tra l’ingresso della sezione e il portone dello stabile.

Centinaia di colpi di pistola contro i giovani missini

Nel trambusto vengono poi sparate revolverate contro i missini, una decina dei quali va verso l’angolo tra via Ottaviano e piazza Risorgimento: ma i gruppettari, tra cui Lojacono, li aspettavano e cinque pistole aprono il fuoco contro di loro. Le fonti ufficiali non hanno mai rivelato quanti colpi furono esplosi, ma testimoni affermano che furono centinaia e sparati da almeno cinque persone nella posizione del tiratore scelto, con una mano dietro la schiena e le gambe leggermente piegate. 
Per proteggersi la fuga lanciano altre bottiglie molotov. 
A quel punto i missini si accorgono che uno di loro è ferito, e gravemente, lo soccorrono, lo trascinano dentro il portone, ma avviene il secondo assalto dei collettivi. I missini si difendono con un martello, un manico di piccone e una lanciarazzi, che fa sospettare ai compagni una trappola e che li induce a ritirarsi. I pochi missini comunque riescono a respingerli, sparando con la lanciarazzi, e a chiudere il portone, nascondendo Mantakas, che nel frattempo era stato lambito dal fuoco di una molotov e ormai privo di conoscenza, dentro un box privato nel cortile dello stabile. 
Con lui, a vegliarlo, il giovane coraggioso Stefano Sabatini, della sezione Prati, che chiude dall’interno la porta del box, e Paolo Signorelli, aggredito insieme con il figlio appena qualche giorno prima in corso Trieste. 
Frattanto gli aggressori, servendosi anche di un segnale stradale divelto, sfondano il portone: i giovani missini si rinchiudono nella sezione. I collettivi arrivano nel cortiletto, sentono il rumore della porta del box che si chiude e sparano contro il box accanto a quello dove era Mantakas, pensando che i missini fossero lì, poiché era il più vicino al portone. 
Nel frattempo arrivano altri cinque o sei missini che vengono fatti segno da colpi di pistola: il 17enne Fabio Rolli è ferito al fianco e i comunisti ne approfittano per fuggire, non senza aver ferito un passante in moto che viene colpito al polmone. Sono trascorsi 15 minuti dall’inizio dell’attacco armato alla sede e né polizia né carabinieri si sono fatti vedere. Due del commando, armati, presso piazza Risorgimento sparano contro il poliziotto Di Iorio, del commissariato Borgo, che aveva tentato di fermarli, ma non lo colpiscono. 
Fuggono e si dividono, e Di Iorio ne segue uno che si infila in un portone, per uscirne qualche minuto dopo disarmato e senza soprabito. Il poliziotto lo ferma, e viene bersagliato da colpi da parte dell’altro fuggitivo, che poi si allontana rapidamente. La polizia trova nell’androne il soprabito con una pistola ancora calda: è Fabrizio Panzieri, 26 anni, ex Potere Operaio ora Avanguardia Comunista, vicino ai collettivi di Fisica e a via del Volsci. 
A piazza Risorgimento arrivano i soccorsi, dieci minuti dopo la fine dell’assalto. Un’ambulanza dei Vigili del fuoco carica Mantakas e lo porta al Santo Spirito da dove sarà trasferito al San Camillo e sottoposto a una difficilissima operazione. 
Ma dopo l’intervento, alle 18,30, il giovane cessa di vivere. 
Altri cinque minuti dopo, dalla fine dell’assalto è passato oltre un quarto d’ora, arrivano le prime volanti e altre ambulanze. Inizia allora uno spettacolare e inutile carosello delle Alfa Romeo delle forze dell’ordine in piazza Risorgimento, che aumenta la confusione generale senza approdare a nulla. Inspiegabilmente il ministero degli Interni tenta di minimizzare la situazione, smentito però più volte dalle notizie dell’Ansa. Il giorno dopo, 1° marzo, tardivamente, si inviano a piazzale Clodio per la terza udienza mille tutori dell’ordine, mentre le indiscrezioni sugli arresti si moltiplicano. 
Si apprende il nome di Lojacono come secondo indagato, dopo Panzieri. 
Il 2 si apprende che Mantakas, Rolli e il passante sono stati colpiti da tre calibri diversi. 
Dai fori nelle vetrine e nelle auto poi si capisce che almeno cinque pistole diverse hanno sparato a piazza Risorgimento. Gli inquirenti affermano che le persone coinvolte nell’inchiesta sono tre, ma del terzo poi non si sentirà mai più parlare. Anche dei cinque arrestati per aggressione alle forze dell’ordine e lancio di bottiglie incendiarie, non si parlerà più. 
Tra l’altro, diverse testimonianze concordano sul fatto che l’aggressione degli extraparlamentari è stata tutta ripresa da uno di loro con una cinepresa, sparatoria compresa. Lo stesso accadde in un assalto alla sezione Monte Mario del Msi. 
Chi sa dove sono oggi quei filmini?

Disordini anche durante i funerali

Il 3 marzo si registrano gravi violenze a largo Argentina durante la cerimonia funebre per Mantakas. 
A Santa Maria sopra Minerva dove c’è la cerimonia in memoria dello studente greco, confluiscono migliaia di missini, e nelle zone circostanti extraparlamentari di sinistra girano in cerca dello scontro fisico. 
Dopo le 16, l’auto con a bordo Teodoro Buontempo, un altro dirigente del Fronte e una ragazza, viene individuata da esponenti del Pdup-Manifesto che la assaltano a colpi di spranga e martello infrangendone i vetri. 
Tornano sull’auto e cercano di fuggire sotto una pioggia di sassi, ma il traffico non lo consente. 
L’autista è colpito da una sprangata alla testa: le urla della gente e i clacson delle macchine inducono gli aggressori e indietreggiare verso via Monterone, sede del Pdup, sparando però 5 o 6 colpi di pistola contro i missini. 
Alle 22 perquisizione a via del Volsci, dove viene arrestato un extraparlamentare armato. 
Il mandato di perquisizione era già pronto dal 28 febbraio, ma venne eseguito solo dopo tre giorni. 
Davanti al liceo Plinio verso piazza della Croce Rossa compare la scritta “10, 100, 1000 Mantakas”. 
Emessi due mandati di cattura per Panzieri e Lojacono per concorso in omicidio e tentativo di omicidio. 
Almeno tre calibri diversi nella sparatoria, ma solo due indagati. Del terzo, che si era detto appartenente a via del Volsci, nessuna notizia. Nei giorni successivi via dei Volsci fa uscire volantini dal tono violento nei confronti sia dei missini sia delle forze dell’ordine, incitando alla giustizia proletaria “distruggendo le carogne nere”. 
La stampa dell’allora regime, guidata dal solito Messaggero, cerca imbastire una pista nera anche per Mantakas, ma il tentativo si infrange miseramente. 
Paese sera manda persino un volenteroso inviato in Grecia, che ovviamente non riesce a scoprire nulla. 
Oggi il bar Penny di via Pavia è chiuso da anni, il Fuan non c’è più, Mantakas è morto da quarant’anni. 
Ma l’odio politico della sinistra estrema resiste ancora: ne abbiamo la prova proprio in queste ore.

giovedì 26 febbraio 2015

Meloni a La Repubblica: «Sarò con Matteo per costruire una destra giovane»




giorgiameloni.com


In piazza con Salvini, sabato a Roma, il 7 marzo a Venezia, dove porterà quest’intesa con la Lega, onorevole Giorgia Meloni? 
 «Siamo in piazza insieme per dire no a questo governo dei poteri forti, delle grandi lobby, dei potentati economici, dell’Europa dei banchieri, dell’immigrazione senza controllo, della “troika” tutta italiana: Monti-Letta-Renzi. Puntiamo a costruire un’alternativa credibile a tutto questo, partendo da una destra moderna, giovane, all’altezza delle sfide. Sabato partecipiamo noi, con una delegazione, alla manifestazione promossa dalla Lega a Roma. Sarà nostra invece la piazza organizzata a Venezia il 7 marzo con lo slogan “Difendiamoci”: dalle tasse, dalla criminalità dilagante, dai clandestini, dall’Isis alle porte».

Salvini è stato contestato a Roma, al Campidoglio lo hanno accusato di razzismo. Temete incidenti? 
 «Non faccio l’avvocato di Salvini. Ma di razzismo sonostata accusata anche io, solo perché dico no a questa forma di finta solidarietà che si vuole far passare attraverso l’apertura dei confini a tutti gli immigrati, per poi farli vivere come bestie. Qui rischiamo una deriva in stile banlieue. Incidenti sabato non ne temo. Le minacce arrivano dai soliti noti in cerca di visibilità, quattro fanatici del facciamo casino».

Con la Lega presenterete liste comuni? Magari alle regionali al Sud? 
«Non credo proprio. Ognuno presenterà le proprie. Ma il centrodestra per come lo abbiamo conosciuto in Italia è morto, va costruito qualcosa di completamente nuovo. E bisogna ricostruirlo partendo dalle primarie, per fare sintesi e unità».

Berlusconi non ne vuol sapere. «Pazienza, sene farà una ragione e ce la faremo noi del suo dissenso. È finita la politica dell’uomo solo al comando, dei cerchi magici, dei diktat, è il momento di voltare pagina».

Gianfranco Fini nell’intervista a Repubblica l’ha definita “mascotte di Salvini”, “una delusione”, il vostro un “lepenismo d’accatto”.  
«Fini mi ha ferito solo quando ha ucciso la destra italiana. Oggi, quando lui mi accusa, mi critica, acquisisco la consapevolezza di andare nella direzione giusta. Io non sono la mascotte di nessuno. Altri forse lo sono dei poteri forti, della massoneria, delle grandi lobby. Penso che l’esperienza Monti sia quanto di più lontano si potesse immaginare dalla storia della destra italiana».

Ma il legame con Marine Le Pen c’è, la porterete in Italia? 
«Ci siamo incontrate a cena poche settimane fa. Portarla in Italia per una manifestazione è nelle nostre intenzioni. Ma non ci sogniamo di dar vita a un clone italiano del partito lepenista, l’Italia non è la Francia, le condizioni politiche non sono sovrapponibili, noi vogliamo costruire un modello tutto italiano».

martedì 24 febbraio 2015

Contro l’anglofonia, l’Italia alza la Testa. Con la maiuscola.



da destra.it

Ora lo dice anche l’Accademia della Crusca: basta con l’anglofonia. Basta con le “mission”, i “rating”, le “vision” e i “break even point”. Basta. Il Paese di Dante, Petrarca e Boccaccio non ne ha bisogno. 

E basta lo dice anche Annamaria Testa, che ha lanciato una raccolta firme via internet (sul sito change.org) proprio a tal proposito. 
Bene, bravi, bis.
Se a Firenze è nata la lingua italiana è forse un segno del destino che da Firenze parta la sua riscossa. Ma come la mettono gli accademici della crusca con quel loro illustre concittadino che di nome fa Matteo e di cognome Renzi?

Già perché il premier è il primo a dare il cattivo esempio. Uno che chiama le leggi in inglese (“jobs act”), uno che riempie la sua comunicazione di neologismi anglofoni o pseudotali. L’uomo che cita nei discorsi pubblici gli “smartphone” e i “tweet”. Che poi, a dirla tutta, fosse un tipo cosmopolita e a suo agio con l’inglese sarebbe anche comprensibile. Ma dato che così non è (i video dei suoi discorsi nella lingua di Sua Maestà parlano da soli, ndr), questo suo modo di esprimersi desta una certa tristezza.

Tristezza perché questo modo di fare è l’emblema di un’Italia che non cambia verso per nulla. Che continua a stare agganciata al suo ruolo di piccola colonia balneare del grande impero americano e occidentale. Un’Italia che sogna New York dal cortile di un paesello in Valdarno. Un atteggiamento questo che va oltre la lingua. Le assurde sanzioni alla Russia, per fare un esempio, ne sono la riprova. Ma anche i brutti grattacieli di stile apolide che compaiono ormai ovunque: da Milano a Roma.

Eppure questo Paese non ha nulla da invidiare a nessuno. Ne agli americani, ne ai famosi Paesi “civili” del nord Europa. I cui abitanti però, come ci insegnano i tifosi del Feyenord, dopo qualche birra tanto civili non sono più. Noi italiani, insomma, non abbiamo bisogno di guardare oltre confine. E non è di certo necessario spiegare il perché. È il nostro passato, sono le nostre radici che dobbiamo riscoprire se vogliamo avere un futuro. E quindi ben vengano queste prese di coscienza. Nella lingua ma non solo.

Anche in politica. Perché, per quanto ispirino comprensibilmente approvazione, non possiamo continuare a dire che “ci vorrebbe un Putin o una Le Pen”. No, noi siamo italiani e dobbiamo farcela da soli. Come abbiamo sempre fatto. 

Senza bisogno di copiare nessuno. Semmai prendendo ispirazione, ma per poi creare qualcosa di unico e di meraviglioso. 

Come solo noi sappiamo fare. 
Perché noi siamo italiani. 

E non prendiamo lezioni. 
Da nessuno.

venerdì 20 febbraio 2015

Fiaccolata di Fratelli d'Italia al Pantheon




Poche ore alla fiaccolata di Fratelli d’Italia nel cuore della Capitale, al Pantheon,  per dire no agli sbarchi e al business degli scafisti. «L’intelligence britannica conferma quanto sosteniamo da giorni: l’Isis usa i barconi dei profughi per infiltrare terroristi. Stop sbarchi», scrive su Twitter  Giorgia Meloni lanciando la mobilitazione di piazza che da questo fine settimana terrà impegnati i militanti sul territorio nazionale.

Al Pantheon le luci di Fratelli d'Italia.

“Fermiamoli: luci contro il terrorismo” è lo slogan delle fiaccolate previste in tutta Italia per chiedere al governo Renzi lo stop immediato agli sbarchi finché l’Isis non sarà sconfitto e di porre immediatamente in discussione in sede Onu e Nato la necessità di un intervento per pacificare la Libia. Le fiaccole già corrono sul web con un tam tam virale che sotto gli hashtag #Fermiamoilterrorismo, #DifendiamolItalia, #BastasBarchi hanno raccolto centinaia di adesioni. «Non possiamo consentire a dei terroristi di fare la selezione  all’ingresso delle nostre coste: stop totale dell’accoglienza dei profughi». Tra gli appuntamenti (che verranno pubblicati sul sito ufficiale di Fratelli d’Italia)  anche quello in Lombardia di domenica 7 marzo a piazza San Babila a Milano.

Guerra agli scafisti.

Razzismo e intolleranza non c’entrano. Quella di Fratelli d’Italia, ha spiegato Fabio Rampelli capogruppo a Montecitorio, «è una dichiarazione di guerra agli scafisti,  perché è l’unico modo per salvare vite umane e contemporaneamente aumentare la sicurezza dei cittadini  togliendo un ulteriore strumento di morte al terrorismo islamico». Con la cooperazione europea (che finora è mancata) è possibile, spiega, «fermare i barconi della morte prima che salpino» a condizione di avere un governo forte capace di essere ascoltato e non deriso al tavolo di Bruxelles.

giovedì 19 febbraio 2015

Difendi la tua Nazione

 

Non possiamo consentire a dei terroristi 
di fare la selezione naturale all’ingresso delle nostre coste: 
stop totale agli sbarchi dei profughi 
fino a quando non avremmo sconfitto l’Isis in Libia.
 

 Venerdì 20 • ore 18:30
 Piazza del Pantheon

lunedì 16 febbraio 2015

Gli italiani stanno scomparendo. Nell’indifferenza della sinistra


secoloditalia.it

I dati sono noti, passati quasi inosservati a sinistra, lasciati galleggiare, messi in un limbo. 
Eppure sono dati gravissimi: in Italia i bambini italiani sono sempre di meno, risucchiati dalla crisi economica, cancellati dalla paura dei genitori di non farcela, una bocca in più da sfamare, una vita da portare avanti tra mille difficoltà. 
Il calo delle nascite dura da qualche anno ma adesso si è raggiunto il record negativo, cinquemila neonati in meno nel 2014 rispetto all’anno precedente ma non solo. Diminuiscono anche i cittadini italiani nel loro complesso, anche in questo caso con cifre da allarme rosso: come certifica l’Istat, sono 125mila in meno rispetto all’anno scorso.

Italiani si nasce? sempre meno

«Il calo delle nascite record registrato dall’Istat è una notizia grave quanto quella della crisi economica» ha detto Fabio Rampelli, capogruppo di Fratelli d’Italia. «Due aspetti strettamente legati e che desta massima preoccupazione. Ma mentre sulle politiche economiche possiamo senz’altro affermare che Renzi sta sbagliando tutto, sulle politiche demografiche è anche peggio: non sta facendo niente. È indispensabile un cambio di rotta: altro che bonus bebé. Occorre procedere sulla strada dell’introduzione del quoziente familiare, della detassazione per i genitori che mettono al mondo il terzo figlio fino al compimento di 18 anni, dei tempi di conciliazione lavoro-casa, della costruzione di asili nido, e del bonus per l’acquisto della prima casa».

domenica 15 febbraio 2015

La lettera. Il giorno del Ricordo e il ritorno di Trieste all’Italia nel 1954



 da barbadillo.it

Caro direttore,
nella Giornata del Ricordo sono andato sul sito di Barbadillo come faccio da quasi un anno e mi sono trovato a leggere quanto ha scritto Roberta Di Casimiro esattamente un anno fa.

La storia della mia famiglia

Io sono nato a Fiume d’Italia, come volle ribattezzarla il Comandante, il 26-9- 1945. Mio padre il mese successivo venne arrestato e condannato al carcere “duro”(lavori forzati con regime di sottoalimentazione) perché considerato “nemico del popolo” (di professione faceva il barbiere…). Scontò la pena nel campo di concentramento presso la città di Maribor (Slovenia); ne uscì nel 1948 per intervento della Croce Rossa Internazionale. Aveva 35 anni,pesava 40 Kg e aveva perso per l’inedia quasi tutti i denti.Quando ci furono le opzioni se divenire cittadini jugoslavi o scegliere l’esilio non ebbe esitazioni e partimmo per Trieste. Ovviamente anche se possedevi qualche piccolo risparmio, ti veniva sequestrato al passaggio della frontiera. Iniziò così il periodo più oscuro del nostro esodo. 

Senza casa, beni, lavoro in una Trieste occupata militarmente dagli anglo-americani e con gli slavi locali alleati del PCI che speravano che Trieste (Zona A) facesse la fine della Zona B (la parte dell’Istria occupata militarmente da Tito. Furono anni di miseria (l’Opera Postbellica passava ai profughi adulti 17lire al giorno pro-capite e per i bambini 10 lire; noi eravamo una famiglia di 2 adulti e due bambini, quindi il sussidio quotidiano era di ben 54 lire: il pane venduto a prezzo politico era di 88 lire al Kg… tutto ciò non per fare del vittimismo ma per fare un paragone con quanto spende negli ultimi anni il Governo italiano assistendo i “migranti” ma ci sorreggeva la speranza che Trieste fosse restituita all’Italia.

Trieste all’Italia
Ciò avvenne il 26-10-1954; era una giornata di Bora scura, le raffiche violente ci bersagliavano, la pioggia sferzava i nostri volti sui quali,però,era difficile discernerla dalle lacrime di gioia. Ero in Piazza dell’Unità insieme con la mia famiglia ma, quando la prima nave della Marina Militare Italiana attraccò sul Molo Audace la folla ondeggiò (c’erano oltre centomila persone) ed io ragazzino di nove anni mi trovai catapultato sull’orlo del molo. Non ebbi paura di finire in mare perché oggi, a distanza di 60 anni, posso dire che si stava vivendo un momento estatico. Ma ciò che non posso dimenticare di quel momento di misteriosa euforia collettiva fu che la folla salutò le Navi d’Italia cantando non l’Inno di Mameli ma l’Inno a Roma: era la Tergeste augustea della Decima Regio che ritrovava la Patria.

Quanto durò quell’entusiasmo? Non molto perché i governi democristiani servi dell’imperialismo USA fecero di tutto per diluire il nostro patriottismo iniziando la cosiddetta “politica delle porte aperte” verso la Jugoslavia dell’infoibatore Tito per arrivare, poi, al vile tradimento di Osimo.
E noi Esuli? In ringraziamento della nostra lealtà ci stampigliarono su tutti i documenti o atti pubblici il famigerato ”nato in Jugoslavia” che solo la Legge 15-2-1989 N.ro 54 ha abrogato! 

Voglio solo ricordare che nel censimento del 1941 la sola città di Fiume (la provincia era più estesa) contava 58.000 abitanti, nel 1950 ne erano esodati 48.000. Quale altra città d’Italia ha dato così concretamente testimonianza di amor di Patria?

In questa Giornata del Ricordo voglio così onorare un mio zio infoibato e il mio nonno materno morto di emorragia interna per le sevizie dell’OZNA la polizia politica titina.

mercoledì 11 febbraio 2015

Foibe, vile atto ai danni della "Casa del Ricordo"



Saponaro - Todde (Gioventù Nazionale Roma):
 FOIBE, VILE ATTO AI DANNI DELLA CASA DEL RICORDO.

"Questa notte i soliti vili hanno imbrattato con squallide scritte la Casa del Ricordo, inaugurata pochi giorni fa in onore della memoria di tutte quelle persone uccise per la sola colpa di essere italiani.
Questo gesto idiota dimostra ancora una volta come nel nostro Paese ci siano ricorrenze di serie A e di serie B, e che è presente ancora oggi una cultura, figlia della peggior ideologia estremista di sinistra, che nega l'eccidio delle Foibe.
Apprezziamo il buon senso del Comune di Roma che ha provveduto immediatamente a rimuovere queste scritte"

lunedì 9 febbraio 2015

Buon compleanno soldato Paolo.



di Fabio Rampelli

(il 9 febbraio di tanto tempo fa)

Notte fonda. Squilla il telefono di casa, abito ancora con i miei genitori, rispondo io, a quest'ora capitano solo chiamate d'aiuto. Chi finisce in un commissariato, chi in questura, chi in ospedale, chi in prigione. Generazione bella e perseguitata, perennemente in trincea senza che ci sia più una guerra. Stavolta la notizia è un tuono, la voce fioca mi dice di andare subito al Policlinico Umberto I, Paolo è in coma. Mi si gela il sangue.

Non ricordo cosa stessi facendo, se stessi dormendo o fossi sul tavolo da disegno a preparare un esame, non ricordo nulla. Dalla memoria rattrappita non ho mai cavato granché su quelle ore d'ansia, rammento di essere uscito di corsa e di soppiatto e di aver schiantato la mia Simca Horizon contro un’auto in borghese della polizia, alla stazione. Farnetico qualcosa, estraggo la patente, l'aria si condensa nel freddo di quella notte ributtante. Giungo al Pronto soccorso, qualcuno strizza le spalle. Non riusciamo a vedere Paolo, ma lo sorvegliamo per sette giorni e sette notti per proteggerlo, rincuorarlo, resuscitarlo con la veglia e la preghiera. Seduti a terra in un corridoio squallido consumiamo stecche di sigarette, viveri, caffè, mentre la folla s'ingigantisce, la processione s'allunga. Quell'ospedale diventa il nostro quartier generale, è da lì che partono manifesti, volantini, murales, cortei nel cuore dell'Africano, il quartiere proibito che Paolo ha osato "violare" affiggendo manifesti, chiedendo l'esproprio di Villa Chigi e la sua restituzione ai cittadini.
 
Tutto sembra improvvisamente ridicolo, ma quella dolorosa agonia pare voler dare ancora un senso a ciò che un senso non ha.
Osservo i volti e penso che niente ci potrà più separare, niente potrà mai corromperci ora che altro sangue cementa le nostre vite.

Il coma persiste, gli animi ribollono, la proposta della vendetta riecheggia con la sua logica dell'occhio per occhio, la follia che ha guidato gli anni '70, come un vampiro, ha sete di altro sangue. Paolo non è un simpatizzante, ma un militante, un soldato. Lo ricordo a Colle Oppio arrivare con la sua moto dopo che una bomba aveva distrutto la sede, prendere i detriti con le mani e poi impugnare la scopa d'ordinanza e spazzare via quintali di polvere. Il silenzio era il suo idioma.
 
Mi viene in mente Campo de' Fiori, dove un innocente volantinaggio era diventato la solita "provocazione fascista". Le forze dell'ordine impaurite davanti a una schiera di ultracomunisti ci piantano lì. Noi in venti, con nessuna voglia di scappare e gli altri in corteo ad agitare mazze "democratiche". C'è voluta molta fantasia per tornare a casa sani e mentre tutti andavano via dopo averla scampata io e Paolo proteggevamo uno di noi cui non partiva la moto. Spingere, guardarsi indietro, cercare di prevedere se ce l'avremmo mai fatta. Roba da farsi raggelare il plasma. E poi le lotte studentesche, le prime emittenti televisive private, le ‘avveniristiche’ autogestioni di destra che fecero tanto rumore, la voglia di scuotere le coscienze dei giovani, appassionandoli ai valori. I primi vagiti di una 'comunità' che avrebbe voluto affermarsi superando le ideologie e rifiutando la guerra tra fazioni. Stop al disegno dei grandi burattinai al potere.

Lavora silenzioso nello sgabuzzino dove scrive manifesti a mano, capelli lunghi e arruffati, va in vacanza in tenda, è contro la pena di morte e, per questo, viene sbattuto fuori dalla sezione missina di viale Somalia, destino riservato a molti di noi. Quelli che la volevano, che erano anche razzisti e neofascisti, diventeranno statisti e ministri. Scherzi della democrazia.

La richiesta di vendetta prende corpo, alcuni si avvicinano, propongono, fanno finta di essere sicuri dell'identità degli assassini, solito schema, solita filastrocca. No, la risposta è che non si risponde, ci diano pure dei "vigliacchi", il "favore" non sarà restituito. La differenza rispetto al passato, è che stavolta vogliamo dare tutto e non prenderci rivincite, sferrare il colpo di grazia all'ipocrisia di un mondo costretto alle divise, ai saluti e alla difesa disperata del proprio spazio vitale, mettere sulle idee la nostra vita e non il contrario. Meritiamo più di un capriccio, di un gesto isterico, di una giustizia casareccia. Non ci aspettiamo che lo Stato consegni gli assassini alla galera, ancora una volta non accadrà, ma vogliamo fare del soldato Paolo l'ultima vittima di un conflitto fratricida che avrebbe ancora una volta reso più stabile un sistema corrotto nell'anima. 
Mai più altro sangue innocente, ma profumo di vittoria. Poche ore dopo lo avremmo giurato sul suo corpo esangue su cui un'infermiera aveva apposto un giglio bianco nel giorno del suo ventesimo compleanno, coincidenza incredibile... Auguri, Paolo, fino alla vittoria. Intenzione velleitaria per l'epoca eppure premonitrice di quanto in una manciata di anni sarebbe accaduto nella società. Sortilegio o presagio. 
I partiti tradizionali saltano per aria, i vecchi schemi caracollano sotto le pietre del muro di Berlino, la storia si rimette in moto e noi le stiamo sul collo. No, non è successo tutto perché alla richiesta di colpire presunti assassini abbiamo risposto 'picche', ne sono consapevole, ma è stata la cosa giusta da fare per essere sopra quella gigantesca onda rivoluzionaria successiva a tangentopoli.

In terapia intensiva improvvisamente il tempo inizia a correre, sembrano gli ultimi respiri... il cuore, la testa, la debilitazione. Prima dell'ultima crisi ci riversiamo ancora in strada, tutti insieme, per bagnare di lacrime l'asfalto ed esorcizzare la disperazione, in pugno le nostre bandiere. 
Quanti bambini riempivano quei veicoli. E mentre l'ospedale rimane deserto accade il miracolo. 
Sandro Pertini, presidente partigiano della Repubblica italiana, fa visita a Paolo, mette fine con un gesto imprevisto a decenni di orride esecuzioni. Sembrava quasi che Paolo lo stesse aspettando, qualche ora dopo muore e ci lascia per sempre alle nostre miserie quotidiane. L'indomani Giuliano Ferrara, allora di osservanza socialcomunista, scrive su un editoriale di Repubblica che "uccidere un fascista era reato", che anche se la vita politica di Di Nella era "deprecabile", occorreva dare la dignità al morto. Parole che oggi giudicheremmo offensive perché qualunque scelta ideale ha una dignità innanzitutto in vita e non solo quando viene sepolta sotto terra, ma un altro tassello al superamento delle contrapposizioni veniva posto dal quotidiano diretto da Eugenio Scalfari.

E' stato Paolo, sono stati la sua vita, la sua morte, la 'generazione invisibile' di cui era alfiere a proiettare la destra nel futuro, né Berlusconi, né Fini...
Ecco il testamento spirituale di Paolo Di Nella, gesti e parole destinati a segnare la fine di un incubo. 

La cappa di una guerra civile strisciante s'alza con il soffio che spira da questo sacrificio, nuovi fili d'erba si fanno strada in un prato ingiallito. Forse è il segnale che si può andare a scuola e all'università senza patemi, che si possono professare le proprie opinioni, presentare le liste studentesche senza essere linciati, parlare nelle assemblee senza subire spintonamenti o trovarsi con un bel cartello al collo a passeggiare per i corridoi, leggere liberamente i propri giornali preferiti, non vedersi irrompere dentro casa all'improvviso e senza motivo agenti di polizia mitra in pugno per paradossali perquisizioni, parlarsi al di là della destra e della sinistra... da persone a persone. Si schiudono le porte di un'altra era.

Il dolore è un fazzoletto di piombo che t'incappuccia il cuore, ti pesa dentro, le notti non sono più le stesse da allora, inizia la sfida esistenziale per ricostruire una normalità, difendere il diritto all'allegria, per non far vincere i seminatori di miseria e trasformare il ricordo in un sorriso. Turbine di pensieri, emozioni, eventi, decisioni tanto più grandi di quei ragazzi semplici sovraccarichi di responsabilità. Generazione invisibile che ha rovesciato gli schemi proprio il giorno in cui sarebbe stata perdonata, se avesse sbagliato ancora. Ecco perché la morte di Paolo è un pezzo speciale della nostra storia, un tassello della storia d'Italia, una sinfonia che irrompe all'improvviso con suoni grassi, violando la sua inclinazione al silenzio, come l'avesse preparata in vita per sentirla suonare nell'eternità.

Paolo è morto, camminiamo a testa bassa nei viali del Policlinico, alla ricerca della camera mortuaria, piove. Entriamo in un padiglione, c'intrufoliamo e troviamo il letto, c'è il lenzuolo da scoprire... Candido, rasato e col volto così simile a quel giglio bianco, il suo corpo magro s'incastona tra le pieghe.

Giuro, giuro che la porteremo sulla tua tomba, sarà guarnita come per le grandi occasioni, ma essenziale, perché la vittoria, quando la conquisti, non ha bisogno di commenti, né di labari, saluti, fronzoli. Lei è così, all'improvviso ti cade in braccio, quando meno te l'aspetti, quasi non ti viene voglia di festeggiare tanto ti appaga... No, non l'abbiamo ancora spuntata, si guadagnano e si perdono metri in questa sfida per riscattare l'Italia, una giostra infinita di luci e ombre che ci fanno compagnia. Qualcuno dei nostri amici ha perso il senso dell'orientamento, altri sono stati trasformati in spettri dalle forze del male, molti sono in sonno: guardano a distanza, fanno il tifo, strizzano l'occhiolino mentre allevano piccole creature, aspettano il segnale per riprendere il loro posto nella vallata.
 
Si cerca una nuova mappa, si costruisce un nuovo piano di volo, si plasmano altre sentinelle. Non ti muovere da lì, ti verremo a chiamare.

Buon compleanno, soldato Paolo.

domenica 8 febbraio 2015

Aperta a Roma la Casa del Ricordo


da romait.it

Era il 7 febbraio 2013 quando, nell’Aula Giulio Cesare del Campidoglio, venne firmato il primo protocollo d’intesa tra Roma Capitale, l’ANGVD (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) e la Società di Studi Fiumani (nata nel 1923 e ricostituita a Roma nel 1960, proprietaria dell’Archivio Museo Storico di Fiume), per la nascita della “Casa del Ricordo”.

L'intesa, sottoscritta dall’allora sindaco Gianni Alemanno, dalla presidente del Comitato provinciale dell'ANGVD, Donatella Schürzel, e dal presidente della Società di Studi Fiumani, Amleto Ballarini, nelle intenzioni dei firmatari, avrebbe dovuto suggellare  una stretta collaborazione con l’Amministrazione di Roma Capitale e, soprattutto, portare alla realizzazione della “Casa del Ricordo”. 

 “Cari soci e amici, – aveva scritto in una nota di allora il Comitato provinciale dell’ANVGD di Roma – l’evento di oggi pomeriggio alle 17,00 con la consegna delle chiavi della Casa del Ricordo, sita in via di S. Teodoro a Roma, al nostro Comitato Provinciale romano unitamente alla Società di Studi Fiumani, è un grande successo e un risultato che sino ad ora solamente noi siamo riusciti ad ottenere, grazie alla collaborazione attiva e all’impegno, condotto sino in fondo dal Consiglio comunale e dal sindaco Alemanno che ha mantenuto le sue promesse. Naturalmente, seguirà a tempo debito un’inaugurazione ufficiale di questo prestigioso sito, posto nel cuore di Roma, centralissimo e raggiungibile da parte di chiunque, che rappresenterà nel tempo un luogo dove poter ospitare quanti siano esuli, discendenti e soprattutto cittadini, provenienti da qualunque luogo e desiderosi di conoscere una parte di storia d’Italia molto importante, guardando al futuro”.

L’auspicata inaugurazione, che in seguito al cambio di Amministrazione ha subito un notevole slittamento, arriva a due anni di distanza dalla consegna simbolica delle chiavi della struttura, mettendo la parola fine ad una lunga e discussa gestazione. 

Dopo che nel 2014 la scure della spending review si era inesorabilmente abbattuta sul budget destinato ai “Viaggi del Ricordo” verso il confine orientale italiano (attualmente ripristinati per 150 studenti romani) - determinandone la cancellazione in nome del contrasto agli sperchi e del contenimento della spesa pubblica - il clima politico si era arroventato. Eliminati i fondi per i viaggi in Istria e Dalmazia (e dimezzati quelli per Auschwitz), con il risultato di aver tolto a centinaia di giovani l’anno la possibilità di incontrare gli esuli e visitare le foibe, si era temuto che nuovi colpi di spugna potessero portare al naufragio della “Casa del Ricordo”. 

Eventualità che, con l’appuntamento di domani, è definitivamente scongiurata.

venerdì 6 febbraio 2015

La negazione dell'identità italiana


L'infanzia non è un accessorio!


Omniroma-SCUOLA, FDI-AN: "È UN CAOS, INFANZIA NON È UN ACCESSORIO"
(OMNIROMA)

Roma, 06 FEB - "Si è svolta questa mattina la conferenza stampa dal titolo ‘La scuola boccia So’Marino, l’infanzia non è un accessorio’ organizzata da Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale per denunciare il caos sul comparto scuola. All’evento hanno partecipato gli esponenti di Fdi-An Fabrizio Ghera, capogruppo in Campidoglio, Laura Marsilio dirigente nazionale, Daniele Rinaldi capogruppo nel Municipio V e Monica Picca responsabile Scuola Roma". Così una nota di FdI-An.
 
"Un sindaco ‘famigliofobico’ che invece di pensare al futuro dei nostri figli si preoccupa delle unioni civili, aveva infatti promesso una ‘città a misura di bambino’ e dopo due anni il settore scolastico è completamente in tilt. A fronte di una campagna mediatica sulle unioni civili, per una delibera fuffa e inutile, Marino ha dimenticato la scuola, i nostri figli, le famiglie e il personale insegnante. Il nuovo modello organizzativo previsto dalla giunta danneggia le lavoratrici, è impensabile solo immaginare che le maestre possano essere utilizzate anche come supplenti in altre classi, quindi sottoposte a un orario di servizio così pesante. Il personale fa sacrifici sugli orari ma chi ci rimette sono le famiglie. Il nuovo provvedimento è solo l’ultima follia in ordine di tempo targata sinistra, l’eliminazione dei menù regionali, che la precedente amministrazione aveva invece inserito, per far spazio ai menù europei è un’altra pessima scelta, i nostri figli anziché mangiare pietanze sane mangeranno cibi che poco hanno a che vedere con le corrette abitudini alimentari. 

Presenteremo un Ordine del giorno per chiedere all’Amministrazione di sospendere l’atto unilaterale che riguarda il personale scolastico educativo e ripristinare la dieta mediterranea così come raccomandato dal Ministero della Salute nelle linee guida del 2010", dichiara Ghera. "Oggi abbiamo raccolto il grido di allarme delle famiglie romane preoccupate del caos che imperversa da mesi nelle scuole e nei nidi romani e che mina la sicurezza e la qualità dell’educazione dei propri figli” - dichiara Laura Marsilio, dirigente nazionale ed ex assessore capitolino alla Scuola. 

"La delibera predisposta da Marino è semplicemente da ritirare e i rinvii ad altra data lasciano nell’incertezza famiglie e lavoratori della comunità scolastica. Ecco perché partirà una campagna territoriale romana, ‘La scuola boccia So’Marino, l’infanzia non è un accessorio’, di denuncia in tutti i municipi e nei quartieri romani con un documento da far votare ai consigli municipali ed una petizione per le famiglie", dichiarano congiuntamente Andrea De Priamo portavoce romano, Daniele Rinaldi, capogruppo V municipio e Monica Picca dirigente romano. 

"Inoltre – aggiungono i coordinatori romani della campagna richiederemo il ripristino della dieta mediterranea ed il ritiro dei menu europei già bocciati dai genitori e dai bambini, sul quale anche Fabio Rampelli, capogruppo Fdi-An, ha presentato una interrogazione al Ministro della salute perché contravvengono le linee guida nazionali sulla ristorazione scolastica".

Bloody Sunday, riaperta l’inchiesta sull’eccidio di Derry




Ricordando il Bloody Sunday.

da barbadillo.it


Bloody Sunday, riaperta l’indagine giudiziaria sull’eccidio che il 30 gennaio 1972 costò la vita a quattordici persone che manifestavano per i diritti civili a Derry.

Al lavoro sul caso ci sarà una squadra composta da dodici investigatori della Psni (Police service of Northern Ireland).

Già a novembre scorso, le famiglie delle vittime avevano depositato un ricorso giudiziario per scongiurare ogni derubricazione dei capi d’imputazione. Si vocifera, ormai dall’ottobre 2013, che sarebbero una ventina i militari britannici a rischio processo: le accuse sono di omicidio, tentato omicidio e lesioni gravi. Dal 12 gennaio, ripartirà l’inchiesta giudiziaria che potrebbe presto portare alla formalizzazione di accuse e imputati e, quindi, all’incardinamento di un processo sui fatti che insanguinarono l’Irlanda del Nord quarantatré anni fa.

L’esigenza di ottenere, finalmente, un processo che faccia luce sulla Domenica di Sangue è diventata ancora più pressante da quando, nel 2010, la commissione d’inchiesta presieduta da Lord Saville di Newdigate e insediatasi nel 1998, accertò che i militari britannici persero completamente il controllo della situazione e che nessuna delle vittime aveva manifestato atteggiamenti violenti nei confronti del primo battaglione di paracadutisti intervenuti a “garantire” l’ordine pubblico durante la marcia di Derry. 

E, per di più, l’inchiesta ha appurato scenari raccapriccianti. Su tutti la circostanza, messa nero su bianco nelle sessanta pagine prodotte dalla commissione Saville, relativa al fatto che alcune delle vittime fossero rimaste uccise perchè colpite alla schiena da colpi di arma da fuoco. 

Il premier David Cameron, all’indomani della pubblicazione del rapporto, dovette presentare le scuse del Regno Unito ai familiari delle vittime della Bloody Sunday. Ma, ora, le famiglie vogliono giustizia e si affidano all’inchiesta che verrà riaperta proprio in queste ore, per appurare responsabilità personali e penali.

Intanto lo Sinn Féin esulta. L’ex hunger striker Raymond McCartney, in una nota ufficiale, spiega: “Siamo felici del fatto che l’inchiesta verrà riaperta. Facciamo appello alla polizia nordirlandese affinché onori la promessa fatta nel 2012 alle famiglie delle vittime del Bloody Sunday, quella di un’inchiesta accurata e seria”.