da maurizio lupini
“Entrammo nella vita dalla porta sbagliata”, queste parole di Massimo
Morsello, cantautore e militante della destra, sono in una delle sue
canzoni che più amo, dedicata a quella generazione militante che aveva
vissuto gli anni di piombo. Sulla sua stessa pelle.
Una generazione di ragazzi, una generazione che sognava di poter
cambiare il mondo, di fare “la rivoluzione” per renderlo più giusto e
migliore. Erano tempi in cui fare militanza a destra era difficile e
decidere di appartenere a quell’ambiente era come fare un patto con il
destino avverso. Era il sette gennaio 1978, un sabato, era una fredda
giornata invernale nuvolosa e cupa, quasi a presagire un qualcosa di
negativo nell’aria. Già dalla prima mattina, durante l’affissione in via
Appia, per la manifestazione – concerto degli Amici del Vento, che si
sarebbe dovuta tenere il giorno successivo, vi furono le prime
avvisaglie: fummo attaccati da appartenenti della estrema sinistra, in
particolare ad Autonomia Operaia.
Eppure non era che una delle tante scaramucce quotidiane, che mai e
poi mai avrebbe, comunque, fatto paventare quello che, solo poche ore
dopo sarebbe avvenuto.
Erano circa le 16,00, come al solito si trascorreva il tempo insieme, e si discuteva, in sezione,
quando ci pervenne la notizia di un volantinaggio in Prati, e gran
parte dei militanti presenti nella sede di Acca Larentia, sempre molto
affollata, si mosse da lì per andarvi a partecipare, mentre noi
rimanemmo, in quattro. Eravamo Franco, Francesco, Enzo ed io. Era una
serata come tante. Sembrava una serata come tante. Ma avrebbe cambiato
tutto.
Verso le 17,00 arrivò Pino e decidemmo tutti insieme di andare in
Prati per raggiungere gli altri. Uscendo per ultimo, spensi la luce, e
mi avviai verso la porta, al seguito degli altri quattro, che erano
ormai fuori… L’ultimo di loro, aveva lasciato sulla porta un messaggio,
per un amico che sarebbe dovuto passare, con scritto “ci vediamo
domani”, firmato “DONFRA”…Quel ragazzo aveva 19 anni, si chiamava Franco
Ciavatta, era buono come il pane, e solido come una roccia, ed era
soprannominato “DONFRA”…
Nessuno avrebbe potuto mai credere che, di lì a pochi istanti, non
avrebbe più avuto un domani... Spensi la luce raggiunsi all’entrata gli
altri e, poco prima che alle nostre spalle si richiudesse la porta,
fummo investiti da un’intensa raffica di colpi. Agli aggressori la porta
era parsa ormai chiusa, e credettero di inchiodarci tutti sul posto,
con il fuoco incrociato, poi rivelatosi quello di varie armi, fra le
quali la famigerata mitraglietta skorpion che già tanti delitti aveva
compiuto, mossa da mani assassine. Fummo, appunto, investiti da quella
raffica di colpi, e venni letteralmente scaraventato all’interno, tanto
che mi ritrovai sul pavimento, e dopo un attimo di panico,
miracolosamente riuscii a sbattere la porta blindata, mentre all’esterno
voci imprecavano per non essere riusciti pienamente nel vile intento
di ammazzarci tutti.
D’altronde erano giorni difficili, l’ho già accennato, giorni in cui
la parte avversa restava solitamente impunita, e urlava tronfia lo
slogan che all’epoca imperava: “uccidere un fascista non è reato”.
All’interno della sede, ci eravamo, come per istinto, sdraiati in
terra, al buio, ma non eravamo tutti illesi…Enzo sanguinava
copiosamente… e qualcuno di noi mancava all’appello: avevo negli occhi
Franco, sbalzato in aria dalla potenza d’urto dei proiettili che lo
avevano colpito.
Era caduto e non l’avevo visto rialzarsi. Riaccesi la luce, e
percepimmo l’enormità di quello che stava accadendo. La mostruosità di
quanto era accaduto. Si vedevano scivolare verso l’interno, rivoli di
sangue, che entravano da sotto la porta, eppure, mai e poi mai, con la
incoscienza dei miei, dei nostri venti anni, avemmo ad immaginare, in
quei pochi attimi che furono necessari perché riaprissimo la porta, quel
che ci saremmo trovati davanti.
Rimanemmo attoniti, quando, usciti in fretta, dovemmo bloccarci
all’unisono, vedendo il corpo esanime di Franco Bigonzetti, riverso,
inerme, crivellato di colpi, disarmato, come tutti noi, davanti
all’agguato di vigliacchi ancora senza nome. A 38 anni di distanza.
In quel momento non potevamo esserne ancora pienamente consapevoli,
ma stavamo muovendo i primi passi in un mondo che non sarebbe mai più
tornato ad essere quello che era, o sembrava, “prima”. Eravamo come
sospesi in un tempo senza tempo, come assistessimo dall’esterno a scene
in cui vedevamo noi stessi muoverci, e qualcuno di noi non muoversi
più, restare esanime, al suolo. Sembrava un incubo, una situazione
irreale, era come non riuscissimo a renderci conto che, quello che era
avvenuto, era avvenuto veramente, non era un film, ma una terribile
realtà. Sentimmo chiamarci dal primo piano del palazzo soprastante la
sede, da una voce concitata ed atterrita: una signora ci disse che un
altro ragazzo era a terra, dall’altra parte della rampa di scale, verso
via delle cave.
Mi mossi più veloce che potei, con un nodo in gola ed un buco nello
stomaco, saltai i gradini a grandi balzi, e mi ritrovai sul marciapiede…
Franco Ciavatta era lì, steso, sofferente, il mio inseparabile amico e
camerata aveva bisogno di me: “aiutami Maurì me brucio tutto dentro”,
così mi disse, con una voce flebile, risoltasi in un sussurrìo. Gli
avevano sparato, e sparato ancora, non paghi di averlo ferito, vollero
ucciderlo. Lo presi fra le braccia, chiamammo un’ambulanza … finchè
l’ambulanza non arrivò, continuai a parlargli, tentando di celare il mio
smarrimento, tenendolo stretto in un abbraccio fraterno, sul mio cuore.
E non si è mai mosso, infatti, dal mio cuore. Né lui, né gli altri
Nostri Caduti, di quegli anni, molti dei Quali Amici miei.
Morirà in ospedale, Franco, al San Giovanni, poco dopo il ricovero,
per una “emorragia causata da arma da fuoco”. E’ quel che scrissero, ma
non rende l’idea della sua sofferenza, della sua morte e della nostra
Perdita.Né di quel che sarebbe seguito. La reazione fu veemente e
militanti accorsero in via Acca Larentia, dove lo sbigottimento seguiva
l’angoscia con cui si arrivava, ed a questo, si sostituiva man mano
l’indignazione, incanalandosi, fino a quel momento, in una presenza
militante che andava a dare il via ad una manifestazione spontanea, ed
un corteo cominciava a muoversi, ma il fato avverso non era ancora
sazio.
Qualcuno degli operatori del mondo dei mass media gettò una cicca di
sigaretta nel sangue versato, che neanche si era rappreso, era ancora
fresco. E, comprensibilmente, l’indignazione crebbe, cominciò a
rumoreggiare … Evidentemente non tutti coloro preposti al controllo
della situazione avevano il controllo di se stessi e delle proprie
azioni, oppure erano stati impartiti ordini precisi, da eseguire. Non
posso saperlo, ancora adesso mi domando quando potrò, potremo, accedere
alla verità, ma sta di fatto che un colpo sparato dalla pistola che, fu
detto, aveva in mano il Capitano dei Carabinieri, Sivori, attinse in
piena fronte Stefano Recchioni, 19 anni, militante di un’altra storica
sezione del M.S.I e chitarrista del gruppo di musica alternativa
“Janus”. Sarebbe dovuto partire all’indomani, per vestire la divisa dei
“parà”, morirà, invece, dopo due giorni di agonia. Ed
all’indignazione seguì la rabbia.
Ero completamente ricoperto del sangue di Francesco Bigonzetti,
quando rientrai a casa solo per lavarmi e cambiarmi, poi, contro il
parere dei miei, tornai ad Acca Larentia, ancora camminando come in una
situazione fuori della realtà, dove, però, cominciai lentamente,
inesorabilmente, a calarmi, assumendo piena e compiuta consapevolezza di
quel che era accaduto, e del nel dolore immenso che mi si propagava
dentro.
Una ferita mi si era aperta, una ferita che non si sarebbe potuta
richiudersi mai più. Una ferita per una intera comunità militante, un
trauma scolpito maledettamente nella mia, anzi nella nostra psiche di
ragazzi ventenni. Affiggemmo uno striscione fuori la sede, con una
scritta che è rimasta impressa nella mia mente: “LA LIBERTA’ NON PUO’
MORIRE A VENTANNI! Grazie, D.C.!”….
Sono passati tanti anni, troppi anni …trentotto anni. E non ho mai
smesso di lottare, lottare per quei valori per quegli ideali che vorrei
trasmettere alle nuove generazioni per mantener vivo il ricordo, e la
speranza. Ho dedicato ogni giorno della mia vita, da allora fino a che
Dio vorrà, per Loro, che quel giorno passarono sulla riva di un altro
mare.
Anche quest’anno, la nostra comunità, doverosamente fuori da ogni
ipocrisia ed ogni retorica, rinnoverà ed onorerà la Memoria di FRANCO,
FRANCESCO e STEFANO con un Rito religioso, in Roma, questa sera, presso
la Cripta dei Sette SS. Martiri Fondatori di Piazza Salerno, alle ore
18,00. Sarà anche un’occasione per ritrovarsi e sentire che, come
sappiamo, sono al nostro fianco.