giovedì 26 settembre 2013

Cultura. La modernità di Boccasile artista che mise la sua vita nel vortice della storia


da barbadillo.it
Tragico settembre  1943.   L’Italia brucia.   Un’ artista,  una famosa firma,  decide di aderire alla Repubblica Sociale Italiana.   E’  una scelta  gravosa.  Ma sembra la sua:  la scelta  che  dice che  la patria  non cambia  il  nome,   che la patria  ha  sempre  lo stesso volto,  il volto dell’onore  e della difesa dei valori dei padri.
Lui è Gino Boccasile, il grande interprete della comunicazione  novecentesca di massa.   L’inventore di  immagini moderne popolari.  Un pittore, che si  fa tenente  di una divisione granatieri delle SS italiane,  senza essere un persecutore, senza  essere condannato nel 1945.   Un artista che,  sotto una luce elettrica nervosa,  in caserma, continua     a disegnare  quei soldati con  gli occhi  gonfi  e  fieri,  mentre la  guerra  è  perduta  in ogni caso.
 G. B.  è lontano da noi.  Ma resta  vicino con l’ esempio.  Egli   mette la sua  vita nel vortice della storia.  Senza  nascondersi dopo  tutto il  successo  raccolto per il  suo ingegno.
Per i suoi notevoli meriti artistici. Per la sua  parabola da italiano. Oggi,  più che mai,  meriterebbe  una grande retrospettiva nazionale. Ed è  questo il  periodo giusto  per costruire un  evento  utile al  ricordo di  un  italiano   e   alla valorizzazione  della sua opera. Con dei costi  accessibili,  i suoi quadri sono in vendita nel web,  ma meriterebbero il museo!  E  meriterebbero l’attenzione delle istituzioni culturali.
I suoi lavori  nella comunicazione pubblicitaria ci parlano.  Ecco  Le signorine grandi firme  degli anni trenta. Ecco le collaborazioni con i più importanti editori italiani. Ecco  il  suo impegno, a favore delle grandi industrie nel dopoguerra, per il rilancio dell’economia  nazionale.
Ma,  da anni, la ricerca storica tace.  Tace su questo creatore di miti moderni. Perché? Forse a causa dell’idea critica, tutta superata,  per cui il disegno e la grafica sono  espressioni artistiche secondarie? O ci sono altre ragioni? Forse pesano ancora le  scelte di Boccasile  che  lo spingono a realizzare  i  manifesti  infiammati della Rsi,  dal 1943  al 1945?
Le memorie pittoriche  italiane  non devono essere  trascinate nel  dimenticatoio della storia.  Ci  fu un tempo  in cui gli artisti  innocenti  furono processati  dai vincitori. Un  tempo in cui,  nei libri  e nelle scuole d’arte,  si tacevano i nomi  di artisti come  di  Sironi,  Funi,   Maccari ,  Boccasile… E  le giovani  generazioni non  devono  pagare per la  lunga  stagione dell’oblio,  l’ oblio forzato.
E’  facile  processare  un  intellettuale,  un disegnatore, un artista. Oggi,  tuttavia,  sono  comuni   gli infinti dimenticare e sprecare:  dimenticare e sprecare la memoria storica a causa di un   presente liquido  di un  uragano televisivo interminabile   che  non sa ripercorre  i passi  degli  italiani.
Per riflettere sull’ arte di Gino Boccasile,  un’arte   che mirava ad accrescere  l’idea di benessere sociale,  qui,  a voce alta,  chiediamo  una  Mostra  nazionale su  Gino Boccasile.   Una mostra sulla  sua  arte  novecentesca  e  italiana.
Le istituzioni culturali  rispondano…  Per  favore,  rispondano!

Alto Adige: l’Italia va contro se stessa


di Giampaolo Rossi
Se Graziano Delrio, ministro degli Affari Regionali, avesse letto Johann Gottfried Herder, avrebbe evitato di far arrabbiare i “montanari” del Cai (lo storico Club Alpino Italiano fondato da Quintino Sella). Ma cosa c’entra un ministro del governo Letta, con un filosofo tedesco del ‘700 e con gli appassionati della montagna? Ora provo a spiegarlo.
Johann Herder è stato uno dei massimi teorici della nazione nel tempo in cui le nazioni dovevano prendere forma compiuta. Personaggio eclettico e allievo di Kant, era convinto che lo spirito di un popolo e la sua identità fossero intimamente legati alla lingua. Per Herder, la lingua non era solo un mezzo per comunicare ma “il legame delle genti” e l’impronta di un preciso carattere nazionale; “la lingua è ciò che individua una Nazione”, scriveva nel 1764.
Graziano Del Rio, al contrario, è convinto che la lingua di un popolo sia una sorta d’incidente di percorso, una specie di merce di scambio per accordi politici improvvisati e concessioni d’interesse. E così, agli inizi d’Agosto, ha pensato bene di stipulare un accordo con l’altoatesino Luis Durnwalder, Presidente della Provincia autonoma di Bolzano, che prevede la cancellazione di 135 toponimi italiani dalla cartellonistica dei sentieri di montagna, che rimarranno solamente in lingua tedesca. In pratica da oggi, le montagne italiane dell’Alto Adige non saranno più italiane, ma tedesche.
Questo ha fatto arrabbiare le guide alpine del Cai, gente tosta, che della “conoscenza delle montagne” fa la base della sua attività, della sua passione ed anche dell’amore per il nostro paese; già in passato si erano impegnate in prima linea nella difesa del bilinguismo, trovando accordi con la comunità di lingua tedesca, meglio di quanto ha saputo fare Delrio.
Il ministro si è affrettato a spiegare che “questa intesa va nella direzione di una conquista della convivenza e del bilinguismo”. Ora, come possa il bilinguismo essere “conquistato” eliminando una delle due lingue (e guarda caso proprio quella della nazione a cui la provincia di Bolzano, fino a prova contraria, appartiene) questo Del Rio non ce lo spiega.
Il problema  è ovviamente complesso e attiene a questioni storiche e giuridiche. Proviamo a semplificarle.
Finita la seconda guerra mondiale il destino dell’Alto Adige,  che apparteneva all’Italia pur avendo una popolazione a maggioranza tedesca, fu risolto a margine della Conferenza di Parigi; la stretta di mano tra Alcide De Gasperi e il ministro degli esteri austriaco, Karl Gruber, sancì, almeno apparentemente, la fine del contenzioso su questa regione: l’Alto Adige rimaneva all’Italia, ma l’Italia s’impegnava a tutelare la popolazione di lingua tedesca introducendo il bilinguismo, consentendo l’insegnamento del tedesco nelle scuole e autorizzando il rientro degli Optanten, quei tedeschi che durante il nazismo avevano rinunciato (optato) alla cittadinanza italiana trasferendosi in Germania. Ma la questione altoatesina continuò negli anni successivi a fronte del sorgere del terrorismo dei gruppi oltranzisti sudtirolesi e delle accuse austriache di non rispettare l’accordo di Parigi; accuse che arrivarono persino a scomodare l’Onu che all’inizio degli anni ’60 dovette emanare due risoluzioni (la 1497 e la 1661) per dire sostanzialmente ad Italia ed Austria: “vedetevela da soli e non disturbate troppo”.
La questione sembrò trovare una sua definiva mediazione nel 1972, quando è stato promulgato lo Statuto speciale di autonomia per il Trentino Alto Adige (divenuto Legge Costituzionale nel 2001) che ha sancito “l’obbligo della bilinguità nel territorio della provincia di Bolzano”e ha specificato che “nella regione la lingua tedesca è parificata a quella italiana che è la lingua ufficiale dello Stato”.
E’ possibile che il ministro Delrio e coloro che lo hanno consigliato a firmare l’accordo, non fossero a conoscenza di tutto questo?
La cancellazione di 135 nomi italiani è un atto di gravità assoluta che genera un precedente pericoloso nei rapporti con la comunità tedesca. Attraverso di esso il governo Letta riconosce un diritto di monolinguismo (tedesco) in Alto Adige. Paradossalmente, il governo italiano ha violato i patti di Parigi contro se stesso. Ora potrebbero essere i cittadini di lingua italiana a rivolgersi all’Onu affinché l’Italia rispetti il loro diritto al bilinguismo. Una follia che rasenta il comico, nella tragicità di un atto anti-costituzionale che non rispetta la nostra identità nazionale.
L’endocrinologo di Reggio Emilia diventato Ministro degli Affari Regionali, così come l’oculista del Congo che vuole lo “ius soli” (ma paragona il burqa islamico al velo delle suore cattoliche), sono due facce di una stessa medaglia: quella di una classe politica che sembra incapace di comprendere la differenza tra interessi nazionali e  battaglie ideologiche.
Il paradosso è che mentre il governo Letta rinuncia all’italiano in Alto Adige, l’Europa riconosce la nostra lingua a livello continentale accogliendo il ricorso italiano contro l’uso esclusivo di inglese, francese e tedesco, nei bandi pubblici Ue; uno smacco per un governo che fa dell’obbedienza cieca all’Europa, la sua ragione d’esistere. Il Tribunale del Lussemburgo ha imposto in futuro che l’italiano e le altre lingue comunitarie siano inserite nei bandi dei concorsi, per evitare “una disparità di trattamento sulla base della lingua” vietata dalla Corte dei Diritti fondamentali. Disparità di trattamento che, invece, Delrio e il governo Letta hanno imposto agli italiani in Alto Adige.

venerdì 13 settembre 2013

#Atreju. Marine Le Pen attacca l’Europa “governata da un’oligarchia di tecnocrati”

da barbadillo.it
“L’Europa è governata da un’oligarchia, un’elite di stipendiati della Goldman Sachs”. Marine Le Pen, nella parte della testimone di accusa nel processo simbolico contro l’Europa andato in scena nella giornata di apertura di Atreju, ha ben chiaro chi sono i nemici dei popoli europei.
La videointervista che ha rilasciato in occasione della inaugurazione delle giornate organizzate da Giorgia Meloni e dal suo gruppo di  giovani volontari è stata accolta con applausi poco timidi, soprattutto nei punti in cui la leader del Fronte Nazionale si è scagliata aspramente contro i tecnocrati di Bruxelles che “oltre a rendere l’Europa una giungla nella quale vige la legge del più forte, alimentando la crisi finanziari con la propria azione economica, cercano di imporre dei valori che sono in contraddizione con quei valori che sono invece fondativi della cultura dei nostri popoli”. Alla domanda se avendone il potere, abolirebbe la Commissione Europea, Marine si è limitata a constatare che tale istituzione (come la stessa moneta unica) crollerà da sola. La Le Pen ha concluso sperando in “un rapporto sempre più stretto con l’Italia, i cui popoli sono più saggi delle élite che oggi le governano”.
Il video intervento ad Atreju
Il video intervento ad Atreju
La leader francese è stata ospite di Atreju in una giornata particolare. E’ di oggi infatti il risultato (poco) sconvolgente di un sondaggio (del Groupe Ifopdella rivista Valeurs actuelles che giunge da Oltralpe un francese su tre condivide le idee di Marine Le Pen. Se la vera ribellione, come si suol dire, è donna, la Francia ne incarna la vera essenza: chi può negare a Marine Le Pen lo scettro di fenomeno più intrigante dell’ultimo anno? Dinasticamente reggente del Front National, rappresenta un progetto di quella futurdestra che pare destinata a crescere nei consensi grazie a un maggior consonanza con le tematiche chiavi del presente. Critiche al mercato liberista, all’Europa, condanna dell’euro e riaffermazione della sovranità nazionale. Il paradigma utilizzato è quello tradizionale e tradizionalista, contro un presente che viene accusato di aver cullato un progressismo che si è rivelato un assediante e asfissiante compromesso al ribasso. Lì si scagliano fiere le asserzioni di Marine, che si batte con una tattica ben precisa, la vera rivoluzione linguistica oltre che culturale: chiamare le cose con il proprio nome, a costo di apparire troppo vigorosa e di prestarsi a facili strumentalizzazioni. Il segreto dell’avanzamento inarrestabile del Front National è forse la capacità di misurarsi con la crisi evitando di sublimare le necessarie prese di posizione in teorie e architetture linguistiche evanescenti. Nella crisi ha ritenuto utile indicare una via, una mappa, ergo punti fissi da cui prendere spunto per tracciare un percorso chiaramente. Marine ha scelto di impegnarsi a comunicare chiaramente dove vuole andare. Non è il caso di chiedersi in questo ragionamento se ciò che ha utilizzato siano argomenti condivisibili o meno, ma non si può non concordare sul fatto che votare il FN è per gli elettori francesi una garanzia perlomeno su ciò che si aspettano dai loro eletti e su ciò che gli stessi andranno a difendere in Parlamento.La dediabolisation del partito ormai è giunta nella fase culminante. L’operazione mediatica e culturale di legittimazione ha addirittura lasciato il passo a una fase costruttiva che spinge verso il rilancio del FN. Non è più tempo di spendersi per il riconoscimento come forza repubblicana, nel momento in cui le idee da sempre propugnate da Marine Le Pen pare trovino corrispondenze nella quotidianità che esige del Fronte Nazionale l’accentuarsi della propria particolarità antisistema. La capacità di Marine Le Pen è quella di non aver timore nel porsi come garante di una sensibilità popolare che lo snobismo gauchiste e il moderatismo francese non riescono e preferiscono non interpretare. Già Jean Baudrillard, sociologo attento alle dinamiche dell’immaginario, notava come il vecchio leone Le Pen padre fosse l’unico a fare politica facendo i conti con il senso della storia. Non rifugiandosi nelle ideologie miglioriste e ottimiste di un progresso lineare della società.
Il Front National con Marine compie un salto ulteriore e si spende con ancor più lungimiranza nel difficile e incauto mestiere: immergersi nella quotidianità del vissuto, nel sentire comune. Certamente un realismo viziato da alcuni eccessi linguistici e programmatici. Ma le rivendicazioni che toccano le problematiche delle fasce meno abbienti e periferiche della nazione, spiegano un elettorato che è perlopiù costituito da operai e giovani.

giovedì 12 settembre 2013

L’intervista. Meloni: “Atreju tra lotta allo strapotere della finanza e sintonia con Tosi"

da barbadillo.it
Oggi inizia Atreju la festa giovanile più longeva della destra italiana. Abbiamo chiesto a Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e anima dell’appuntamento romano, di soffermarsi con noi sul significato politico dell’evento e sui temi di maggiore attualità di questo settembre politico: dallo strapotere della finanza alla querelle-giustizia fino alla spinosa questione Siria.
Onorevole Meloni, partiamo da “La grande finanza contro i popoli”. Perché questo titolo per Atreju?
Abbiamo scelto questo titolo perché vogliamo provare a dare una lettura diversa e nuova al rapporto tra economia mondiale e sovranità nazionale. Atreju vuole raccontare e descrivere il terzo conflitto globale che secondo noi si sta combattendo sul terreno della finanza. Una guerra subdola che vede in campo non più divise militari ma divise monetarie. Non più eserciti ma centri finanziari e agenzie di rating si stanno contendendo il mondo. Quello a cui stiamo assistendo è uno scontro aperto tra la sovranità, i popoli e le Nazioni e le grandi centrali dei poteri forti e della speculazione internazionale. E a pagarne le spese rischiano di essere i popoli e il concetto stesso di sovranità e democrazia. È uno scenario che ci chiama ad una brusca rivisitazione delle priorità e ad una netta inversione di marcia culturale, sociale e politica. Atreju è uno spazio libero, pieno di spunti anticonformisti, riferimenti imprevisti e occasioni di incontro tra punti di vista diametralmente opposti tra loro. Atreju è l’unico appuntamento popolare e tradizionale nell’alveo del centrodestra italiano che è rimasto in piedi nonostante tutto e che ha attraversato indenne sigle, partiti, stagioni e difficoltà.
Dal versus al processo: cosa cambia nella formula della manifestazione?
I processi sono la novità più interessante e significativa di questa edizione di Atreju. Sono dibattiti caratterizzati da una formula rigorosa e avvincente allo stesso tempo: un rappresentante dell’accusa ed uno della difesa, testimonianze a sostegno delle tesi a confronto ed il pubblico nella parte della giuria destinata ad esprimersi a favore dell’uno o dell’altro. Saranno scontri ad alta tensione sui temi decisivi per l’agenda politica italiana: Europa, giustizia, famiglia e finanza.
Tremonti e la sintonia Tosi: si rinsalda il dialogo costruttivo tra forze all’opposizione del governo Letta? 
Giulio Tremonti è un amico che stimo, che ha già partecipato ad Atreju e che è molto apprezzato dai nostri ragazzi. Una persona con cui c’è un confronto e un dialogo aperto. Con Flavio Tosi credo di avere una compatibilità ideale prima che generazionale e insieme a lui, ma non solo, vorrei provare a disegnare l’Italia e il centrodestra che vorremmo. A partire proprio dalla sfida delle primarie a tutti i livelli, della partecipazione popolare, del confronto e della sintesi tra tesi diverse, che sono la benzina della buona politica.
La giustizia da processare: un segnale all’Italia oltre la vertenza magistrati-Berlusconi?
Ad Atreju vedremo confrontarsi per la prima volta in pubblico Filippo Facci contro Marco Travaglio. Sarà un appuntamento importante per parlare di un tema che sta paralizzando l’Italia e che neanche il governo Letta sembra in grado di affrontare: la riforma della giustizia. Noi crediamo che sia necessario un patto di responsabilità collettiva tra politica e magistratura: la magistratura accetti il principio della responsabilità civile, la separazione delle carriere, il giusto processo e la buona parte della politica si comporti di conseguenza, dandosi regole certe e severissime. Solo così possiamo immaginare di dare all’Italia una giustizia giusta, seria, trasparente, veloce e garantista. Una giustizia vicina, che sappia stare al suo posto e dare risposte ai problemi concreti degli italiani.
Evitare gli errori dell’Iraq e delle primavere arabe in Siria: il ruolo dell’Italia?
Siamo rimasti stupiti dalla decisione del governo Letta di bocciare la mozione di Fratelli d’Italia che impegnava a perseguire ogni strada possibile per evitare il conflitto in Siria al quale in ogni caso l’Italia non deve partecipare in alcun modo e a sostenere la proposta russa, che rappresenta l’unica in campo capace di impedire l’utilizzo delle armi chimiche da parte del regime siriano e di scongiurare lo scoppio di una guerra. Governo e maggioranza hanno preferito, invece, mantenere la solita ambiguità sul piano internazionale lasciando aperto lo spiraglio per un intervento armato. L’esecutivo Letta ha tenuto finora una posizione talmente incomprensibile e contraddittoria tra i suoi membri tale da far inserire l’Italia in occasione del G20 sia nella lista delle Nazioni contrarie che in quelle favorevoli all’intervento armato. Una figura peggiore di quella rimediata dalla Ue, che ha dimostrato la tua totale incapacità di determinare una posizione autonoma e di avere una qualsiasi utilità a livello internazionale.
L’Europa in politica estera “zoppica”?
L’Ue si è ritrovata scavalcata persino dalla Russia nell’esercizio di una prerogativa, ovvero la capacità di trovare mediazioni utili a scongiurare conflitti apparentemente inevitabili, che Bruxelles rivendica sistematicamente come propria senza però averne mai dato alcuna prova concreta. E oggi ci ritroviamo in una situazione nella quale non esiste nessuna proposta europea sul tavolo e l’unica possibile soluzione in campo è quella russa. L’Italia ha già pagato il sostegno ai suoi alleati quando è stato necessario e giusto farlo, come nei conflitti in Iraq e in Afghanistan, esattamente come già contribuiamo attivamente a numerose missioni Onu, come in Libano e in Kosovo. Ma quella in Siria è una guerra che non ha alcun senso, che non ha alcuna giustificazione sotto il profilo dell’interesse nazionale e che stentiamo a credere sia mossa da ragioni umanitarie.
Atreju è politica ma anche divertimento e goliardia. Cosa bolle in pentola è domanda bandita, ma quale è stato lo scherzo all’ospite più divertente nel passato?
Lo scherzo che è passato alla storia è la ‘kazirata’ a Gianfranco Fini, quando i ragazzi di Atreju chiesero all’allora ministro degli Esteri di sostenere la causa dell’inesistente e oppresso popolo kaziro. Molto divertenti anche gli scherzi a Silvio Berlusconi, a cui fu chiesto di condannare l’operato di un immaginario dittatore comunista, oppure a Ignazio La Russa al quale venne domandato di spiegare la presenza, ovviamente inventata, di militari italiani a Paros. Tutti gli ospiti hanno colto lo spirito goliardico della manifestazione e hanno riso insieme a noi. Un po’ meno l’ex sindaco Veltroni, che ci rimase un po’ male sulla borgata Pinarelli. È anche questo il bello di Atreju e l’edizione di quest’anno, vi assicuro, riserverà molte sorprese.

martedì 3 settembre 2013

Da Parigi. In piazza con i cinquemila veilleurs: la controrivoluzione “silenziosa”


a cura di Federico Campoli
Dopo alcune difficoltà con la lingua, riusciamo finalmente ad incontrare Jean e Claire, due degli organizzatori della Grande Marcia dei Veilleurs. Ci ritroviamo sotto l’Arch de la Defense e, da dove siamo noi, si vede perfettamente l’Arc de Triomphe. Quello è il nostro percorso. Anzi, a dire il vero, dobbiamo andare ancora oltre, fino a Place de la Concorde, dove è prevista la Grande Veglia di fine marcia. Dobbiamo camminare per oltre sette chilometri. Jean ci dice che la Prefettura ha interdetto la manifestazione. Nonostante ciò, nessuno tra iveilleurs ha intenzione di tornarsene a casa. In ogni caso, spiega che non si tratta di una novità.
I “veglianti” non chiedono mai autorizzazioni, per il semplice motivo che non organizzano delle vere e proprie manifestazioni. Sedersi in un giardino o ai margini della strada, leggendo passi di libri e intonando canzoni può effettivamente essere considerata una “manifestazione”? Se la risposta è “sì”, allora la prossima volta che farete un pic-nic con i vostri amici chiamate prima la Questura per avvertirla.
In ogni caso, la Prefettura, anche qualora giunga la richiesta per manifestare, non darebbe comunque il via libera ad alcuna iniziativa. Jean dice che la polizia proverà a bloccare la nostra avanzata e che le cose potrebbero non finire bene. Per questo ci consiglia di scriverci sul braccio il numero del nostro avvocato e dell’Ambasciata italiana. Si tratta di una pratica comune, ormai, per i manifestanti che si oppongono alla legge Taubira del governo Hollande. La polizia, infatti, priva i fermati di telefoni cellulari e qualunque altro oggetto possiedano al momento del fermo. Jean spiega anche che, visti i presupposti poco rassicuranti, la marcia fino a Place de la Concorde si svolgerà principalmente in piccoli gruppi, così da rendere più difficile la cattura. Inizia così, in piccoli raggruppamenti di sei o otto persone  alla volta che camminano silenziosamente verso la meta. Dopo poco bisogna attraversare il ponte sulla Senna. Da lì in poi, tutte e 5mila le persone che stavano tentando di non dare nell’occhio si ritrovano in fila, attaccati l’uno all’altro.
polizia
In pochi minuti, una decina di camionette della polizia cominciano a sfrecciare avanti e indietro sull’Avenue Charles de Gaulle. Addirittura, una barchetta delle forze dell’ordine ci sorveglia dal fiume parigino. Terminato il ponte, il corteo si divide. Alcuni continuano sulla strada principale, il nostro gruppo e altri, invece, prendiamo una parallela. Presto la polizia blocca entrambe le strade. C’è tensione nell’aria. Lo spirito notoriamente pacifico e silenzioso dei veilleurs viene messo a dura prova. Dopo qualche secondo, la polizia decide di indietreggiare, lasciando spazio alle sentinelle. A questo punto, come già era ovvio, non c’è più motivo di rimanere nascosti. Usciamo tutti allo scoperto, nuovamente sull’Avenue Charles De Gaulle. Nel frattempo, cominciamo a fare qualche domanda qua e là. Chiediamo come mai la polizia si dia tanto da fare per bloccare una manifestazione pacifica. La risposta è semplice e disarmante. “Il nostro ministro dell’Interno (Manuel Valls n.d.r.) ci odia. Non ci vuole” rispondono Jean e Claire. In realtà, spiegano i nostri interlocutori, una gran parte dei poliziotti sostiene e appoggia la lotta dei manifestanti. Purtroppo, però, devono seguire degli ordini imposti dall’alto. Ci spiegano poi che le caratteristiche fondamentali dei veilleurs sono “silenzio e discrezione”.

Riusciamo a parlare anche con alcune persone che semplicemente partecipano alla marcia. Questi chiedono come vanno le cose in Italia e si dimostrano tutti entusiasti della nostra presenza in Francia per l’evento. Poi raccontano di come la lotta francese sia tutt’altro che finita. Anzi, forse è proprio ora che iniziano i tempi più duri. Dopo qualche minuto, arriviamo a Place de la Port Maillot. Lì veniamo nuovamente ostacolati dagli agenti. Un grande cordone di poliziotti e camionette bloccano la strada. Così decidiamo ancora una volta di prendere una via parallela. Da quel momento in poi, ci avventuriamo per le vie interne di Parigi, lontani dalle grandi strade. Entro poco tempo, il corteo si divide nuovamente. Ci ritroviamo praticamente soli con Jean, Claire e altri due veilleurs. Arriviamo sull’Avenue de Ternes e arriviamo fino all’Avenue de Wagram. Da lì, prendiamo stradine sempre più lontane dal traffico e dalla polizia. Nel frattempo, troviamo la tranquillità necessaria per fare due chiacchere con le nostre “guide”. Ci spiegano tutto. Claire dice cosa sta succedendo in Francia. Racconta di come le nuove generazioni si stiano ribellando ai diktat del maggio del ’68 e che, adesso, è in atto una vera e propria controrivoluzione. Un termine che ormai non si sentiva più dai tempi della Vandea. Ma questa volta, non è semplicemente una guerra tra cattolici e giacobini. Per rispondere alla domanda su quali siano le formazioni da battaglia, bisogna citare le parole di un vegliante ai giornalisti: “Non so quanti veilleurs ci siano oggi, qui ci sono solo uomini liberi”. Continuiamo ad addentrarci tra le varie vie parigine. Chiedo a Jean se sia mai stato fermato dalla polizia. Mi risponde di sì, e mi racconta delle sue 23 ore di “garde a vue” (stato di fermo), per aver semplicemente partecipato ad una veglia.
veille
Per sciogliere un po’ la tensione cominciamo a parlare del più e del meno. Uno di noi nota il rosario che una ragazza del gruppo porta legato alla cintura, e che accuratamente finisce nella sua tasca. Anche qualcuno tra noi italiani ne ha uno. Entrambi mostrano il proprio e si scambiano i vari convenevoli sul dove lo aveva preso o se appartenesse a qualche associazione cattolica. Jean, però, dopo aver osservato il rosario, ci consiglia di rimetterlo in tasca o sotto la maglietta. Scherzando, gli chiediamo se la polizia possa creare qualche problema anche sul simbolo religioso. Risponde una smorfia, per farci capire che sarebbe meglio così. Non si sa mai. Mentre camminiamo, gran parte della manifestazione arriva a Place de la Concorde. Lì, ad attenderli, c’è un importante dispiegamento delle forze dell’ordine. Jean e Claire vengono continuamente aggiornati telefonicamente. Ci dicono che la polizia ha chiuso la piazza e che, adesso, ci sono ben sessantaquattro camionette a presidio della zona. Gli agenti hanno sgomberato l’area sotto gli occhi dei turisti. I veilleurs non possono entrare. Tramite Twitter, riusciamo ad apprendere che un’intera compagnia di poliziotti è stata mobilitata per noi. Ma ancora, non è volata una sola parola storta da parte dei manifestanti. Nessun incidente. Nessuno slogan. Silenziosi e pacifici. Ma determinati.

I nostri accompagnatori chiamano la Prefettura chiedendogli di liberare la piazza per far entrare i veilleurs. Avviano un negoziato. Alla fine le forze dell’ordine liberano l’ingresso. Alle 22:00, dopo ben quattro ore e mezza di cammino (per un percorso che ne richiede al massimo due), riusciamo anche noi ad arrivare in piazza. La veglia è cominciata da pochi minuti. Appena mettiamo piede a Place de la Concorde vediamo le camionette della polizia, con lampeggianti e sirene accese, circondare l’area. I mezzi sono anche di più di quanti ci avevano detto. In piazza c’è sia la polizia, che la Gendarmeria (che in Francia sono un po’ come i nostri carabinieri). Nonostante tutto, prendiamo parte alla veglia. Quasi 3000 persone sono sedute per terra, al freddo e circondati da agenti in tenuta anti-sommossa. Davanti a ciascuno di loro una candela. A turno, gli organizzatori, in piedi davanti alla piazza, declamano passi di un libro, o raccontano la propria testimonianza. “Questa è una rivoluzione che parte dalla cultura” ci spiega Gaultier Bés, uno dei ragazzi che hanno dato vita ai Veilleurs. Gli chiediamo se, prima di dare vita a questa organizzazione, si aspettava un simile successo. “Assolutamente no, – dice Bés – noi non combattiamo per ottenere un risultato. Combattiamo perché dobbiamo”.
La veglia rimane in piazza ad oltranza. L’obiettivo è di trovare un accordo con la polizia e lasciare la postazione solo nel momento in cui siano gli agenti stessi a sgomberarla. Una vera e propria resistenza pacifica. Alla fine la veglia si conclude senza incidenti. Ma dopo tutto, mentre da un lato ci sono giovani che, sempre più numerosi, agognano a nient’altro che ai valori dei propri padri, viene sempre più da chiedersi cosa in questa Europa sia andato (e continui ad andare) storto.

lunedì 2 settembre 2013

Cultura. I quarant’anni dalla morte di Tolkien genio creatore del mondo hobbit

da barbadillo.it
Quarant’anni fa il creatore dell’epopea del Signore degli Anelli ci lasciava. Usando la terminologia del suo mondo fantastico, abbandonava la Terra di Mezzo partendo dai Rifugi Oscuri diretto, forse, a Valinor, il Reame Beato. Dove avrà potuto ricongiungersi con i suoi amici Frodo, Bilbo e Gandalf.
John Ronald Reuel Tolkien si spense il 2 settembre del 1973 a Bournemouth, sulla costa meridionale dell’Inghilterra, alla veneranda età di ottantun’anni. La sua fortuna letteraria e l’incredibile avventura che coinvolgerà i suoi milioni di fan in tutto il mondo era invece cominciata trentasei anni prima, sempre nello stesso mese: era esattamente il 21 settembre del 1937 quando venne dato alle stampe Lo hobbit, il romanzo di Tolkien che nel corso del tempo avrebbe rivoluzionato la letteratura d’evasione (come si definiva a suo tempo) e creato il genere fantasy, liberandolo dagli angusti confini della narrativa per ragazzi. E che iniziava con il celebre incipit: «In un buco del terreno viveva uno hobbit».
Come spesso accade, la prima opera di Tolkien venne concepita un po’ per caso, alla fine degli Anni Venti: l’autore racconterà di aver trovato il foglio bianco di un alunno e di averlo riempito, quasi per scherzo, con la frase che diventerà poi l’incipit della più famosa “saga” moderna. Poco a poco la storia venne fuori da sé, anche grazie alla fantasia sviluppata dalle favole che il professore di Oxford inventava per i suoi figli.
Lo hobbit non era propriamente un racconto per l’infanzia, ma è curioso il ruolo giocato dai bambini nella sua creazione e diffusione:  a convincere la Allen & Unwin a pubblicare il libro fu infatti la “recensione” del figlio di uno degli editori, Rayner Unwin, che aveva appena dieci anni: il padre gli faceva spesso leggere i manoscritti dei romanzi per l’infanzia, in modo da tastare il polso dei piccoli lettori, ricompensandolo poi con uno scellino. E il giudizio su Tolkien fu estremamente positivo. La prima edizione fu stampata in 1500 copie, illustrata da disegni in bianco e nero dello stesso autore, ma già a dicembre era andata esaurita. L’anno successivo venne pubblicata un’edizione di The Hobbit negli Stati Uniti, con illustrazioni a colori, ma lo stato di crisi pre-bellico e la scarsità della carta in quegli anni ne rallentarono la diffusione. Fu solo nei primi Anni Cinquanta che il romanzo di Tolkien conobbe un robusto successo di pubblico nei Paesi anglosassoni, amplificato e moltiplicato dall’uscita della trilogia Il Signore degli Anelli.
Per leggere la versione integrale in italiano bisognerà invece aspettare il 1970, quando il direttore editoriale della Rusconi, Alfredo Cattabiani, decise di pubblicarlo su consiglio di Elémire Zolla e affidò la cura del volume a Quirino Principe: tre nomi che in quegli anni iper-politicizzati erano considerati “reazionari” dall’intellighenzia di sinistra. Basterà ciò per metterlo all’indice. Il fatto poi che si trattasse di un romanzo “fantastico” e non sociale o realistico o intimistico, e che fosse ambientato in uno pseudo-medioevo, come si disse, fornì altri spunti per condannarlo.
Tant’è vero che da noi a contribuire al grande successo di Tolkien furono i giovani di destra, che ne fecero una sorta di bandiera culturale e ideologica da contrapporre ai tanti miti rivoluzionari sfornati dai coetanei di sinistra.  Come dimenticare i “Campi Hobbit”, organizzati a fine Anni Settanta dai giovani dell’ala rautiana dell’Msi? Oppure i gruppi musicali alternativi che si richiamavano al mondo tolkieniano (La Compagnia dell’Anello, La Contea, Hobbit)? Ad affascinare i ragazzi neofascisti non era solo lo straordinario mondo alternativo creato dallo scrittore inglese, ma anche gli ideali forti che restano sullo sfondo dell’opera: eroismo, sacrificio, dedizione, cameratismo, patriottismo. Curiosamente, invece, negli Stati Uniti l’epopea tolkieniana ha conquistato soprattutto gli hippy, che ne hanno sottolineato il carattere libertario, il tema del viaggio, la lotta contro il potere.
Ma torniamo indietro di oltre settant’anni. Nel 1937 John Ronald Reuel Tolkien, nato in Sudafrica nel 1892 ma di nazionalità britannica, era solo un tranquillo docente universitario di filologia inglese ad Oxford, dove gli era stata affidata la cattedra di lingua inglese e letteratura medievale. In realtà Tolkien aveva avuto la sua parentesi d’azione: scoppiata la Prima Guerra mondiale, nel 1916, subito dopo aver sposato l’amata Edith, si era arruolato volontario nei Lancashire Fusiliers. Venne mandato in sul fronte occidentale  e partecipò anche alla Battaglia della Somme, dove alcuni fra i suoi migliori amici persero la vita; in seguito si ammalò e gli fu concesso il ritorno in patria. Da allora la sua vita fu contrassegnata da una serena routine: casa, università, libri, famiglia e passeggiate nella campagna inglese.
Nella sua testa, però, fin dai primi Anni Venti, comincia a manifestarsi e a crescere un mondo fantastico fatto di gnomi e fate, elfi e guerrieri, orchi e creature fiabesche. Quasi inconsciamente Tolkien dà vita ad una vera cosmogonia, immaginandosi un universo parallelo, simile ma al tempo stesso diverso dal nostro, dai suoi albori fino a una specie di medioevo. Il suo desiderio, spiegherà in seguito, era da un lato di dare all’Inghilterra una vera e propria mitologia, simile a quella del mondo greco-romano o dei popoli nordici; dall’altro sviluppare una letteratura epica e fiabesca da attribuire ai popoli che parlavano le sue lingue inventate.
Non pura e semplice  letteratura d’intrattenimento, quindi. E tanto meno fiabe per bambini. Il mondo de Lo hobbit e de Il Signore degli Anelli è prima di tutto un meta-racconto, in cui il variopinto e composito universo tolkieniano è contrassegnato da una mitologia simbolica che offre al lettore qualcosa che va al di là dell’avventura di un gruppo di personaggi inventati.
«Tolkien si può legittimamente definire e considerare un autore tradizionale – ha scritto Gianfranco De Turris, uno dei più importanti critici di letteratura fantasy e fantascientifica – Ma di quale tradizione? (…) Senza ombra di dubbio la sua formazione è cattolica, ma – lo disse in modo chiaro – scrivendo Il Signore degli Anelli non volle farne esplicitamente un’opera religiosa: non si parla mai di riti, di divinità, di espressioni evidenti di spiritualità, tanto meno di quelli cristiano-cattolici. Tutto è invece implicito nella sostanza dell’opera, tutto sta nel retroterra, nel sottofondo. E questo retroterra, questo sottofondo è un amalgama inestricabile di tutta la sua formazione interiore: di cattolicesimo e di paganesimo, di Vangelo e di Edda, così come di romanzi arturiani e di saghe islandesi, di mitologia germanica e di riferimenti celtico-irlandesi. (…) Per questo Il Signore degli Anelli, e gli altri testi che gli fanno da contorno, è importante: proprio per l’originale amalgama di tradizioni diverse portate a dignità di romanzo adatto ai moderni in pieno Ventesimo secolo».
Al di là delle interpretazioni politiche che hanno dato critici e lettori, Tolkien non prese mai una posizione ideologica chiara. Era un moderato conservatore, antimoderno e amante della natura: nella sua descrizione di Mordor taluni hanno voluto vedere la Germania nazista, altri l’Unione Sovietica; ma potrebbero esserci ancora altre interpretazioni. Lui stesso ha più volte stigmatizzato gli eccessi del capitalismo moderno e dell’industrializzazione, nonché il ruolo degli Stati Uniti quale guida del mondo. In una delle sue lettere agli amici, poi pubblicate, dichiarava di appartenere «alla parte dei sempre sconfitti, mai sottomessi».