domenica 16 febbraio 2014

Rampelli: «Il Giorno del ricordo è un risultato portato a casa, ma sulla memoria condivisa resta molto da fare»


da secoloditalia.it

Ormai un quindicennio fa, Fabio Rampelli, oggi deputato di Fratelli d’Italia e allora capogruppo di An alla Regione Lazio, propose una commissione di esperti sui manuali di storia. L’iniziativa fu accolta dalle «anime belle dell’intellighenzia rossa», per dirla con le parole di Rampelli, come un tentativo di controllo politico sui libri scolastici. Era, in realtà, una richiesta di pluralismo, che si inseriva nella battaglia per consentire a famiglie e studenti la scelta dei libri su cui studiare, prevedendo la fine del testo obbligatorio. C’era, all’orizzonte, un altro obiettivo alto: il recupero alla memoria collettiva delle “pagine strappate” della nostra storia nazionale. Pagine che comprendevano anche la vicenda delle foibe e dell’esodo.
In occasione del Giorno del Ricordo del 2011 lei presentò alla Camera una mozione contro il libro di resto obbligatorio. Siamo ancora al punto zero?
No, non siamo al punto zero. Qualche manuale di storia ha finalmente rivisto la definizione di foibe su cui, ricordo, se ne sono lette di tutti i colori, dalla semplice definizione geologica di “dolina carsica” fino ad assurdità come l’attribuzione degli infoibamenti degli italiani ad un’azione dei nazisti. Si trattava di mistificazioni che adesso sono state corrette. Ma molto resta da fare.
Sulla divulgazione della storia delle foibe e dell’esodo o sui libri di testo?
Su entrambi, ma il punto è un altro, è il problema complessivo della memoria condivisa. L’istituzione del 10 febbraio è una conquista, la legge l’abbiamo portata a casa, ma non ci possiamo dire soddisfatti. Sui libri di testo, come scrivevo in quella famosa mozione, resta il problema della lettura critica della storia. Non bisogna avere paura della verità. La questione delle pagine della nostra storia distorte o completamente omesse non riguarda solo le foibe. Nessun libro parla del triangolo rosso e degli eccidi dei partigiani comunisti, nella stragrande maggior parte dei casi non viene fatta alcuna menzione delle decine di migliaia di soldati morti nella steppa sovietica, ad El Alamein, in Gracia, in Albania, Etiopia. È scandaloso che queste persone – che servirono la propria patria non da fascisti, ma da italiani, in un esercito regolare – siano state cancellate. Noi siamo in debito con loro, dovremmo celebrarli ogni anno e ricordarne l’eroismo. Non si può dimenticare qualcuno caduto per il proprio Paese solo perché in quegli anni c’era un regime e quindi automaticamente tutti quelli che hanno vestito una divisa vengono collocati ideologicamente a servizio di quel regime. Non funziona così e chi ha fatto funzionare così le cose ha commesso un errore gravissimo, perché ha contribuito a demolire l’amor di patria, il senso di appartenenza a una comunità nazionale.
Ci sono stati anni in cui sembrava che questo sentimento fosse stato riscoperto. Penso agli anni di Ciampi, alla reazione corale alla strage di Nassiriya. Secondo lei, c’è stato un arretramento?
Non credo ci sia stato un arretramento, credo che si facciano spot propagandistici a seconda della stagione. Il punto è sempre che continua a mancare – da parte dell’elite intellettuale, degli uomini di cultura, della politica, delle istituzioni – la volontà di trovare quel famoso filo rosso della memoria condivisa intorno al quale unire partigiani e repubblichini, volontari partiti in guerra e “traditori” che hanno seguito Badoglio. L’epoca delle contrapposizioni a un certo punto deve cessare e deve restare l’atto estremo di generosità di chiunque abbia combattuto per l’Italia. Se questo fosse stato chiaro, non avremmo celebrato solo per un anno il 17 marzo e avremmo anche noi un giorno della rimembranza per ricordare tutti i caduti che hanno combattuto per amore della patria, come c’è in Inghilterra. Se questo fosse stato chiaro, non avremmo assistito a episodi mortificanti in occasione di questo 10 febbraio e parlo prima di tutto di episodi di carattere istituzionale.
Lei ha scritto al presidente della Vigilanza Rai sulla messa in onda di Magazzino 18, lo spettacolo di Simone Cristicchi, in seconda serata…
Sì, e ho chiesto la convocazione del direttore generale e la riproposizione in prima serata, in modo che tutti, a partire dagli studenti, siano messi in condizione di vederlo. Ma non c’è solo questo. Al Gr è stata intervistata la presidente dell’Anpi di Trieste, che è come se il 25 aprile avessero intervistato il presidente dell’Unione combattenti e reduci della Rsi: non è il genere di approfondimento adeguato al momento. Oltre tutto, ha proposto una tesi così minimizzante da essere quasi negazionista. Il giorno dopo ci sono tornati, ma ormai il danno era stato fatto, c’era stata la mortificazione della comunità giuliano dalmata e istriana e di tutti gli italiani. Infine, la vicenda della circolare per le scuole: arrivata a presidi e insegnanti nel giorno stesso in cui si sarebbero dovuti svolgere gli approfondimenti, il 10 febbraio. Tranne chi aveva già una sua sensibilità, nessuno ha potuto approfittare della circostanza per lezioni alternative o integrative. Ma, al di là della ricostruzione storica, quello che sfugge è che questa è una comunità viva e vegeta e nessuno se la fila. Non c’è solo il 10 febbraio: non è stata interpellata quando la Croazia è entrata nell’Ue; non è stata al centro di trattative bilaterali per avere un risarcimento; nessuno ha chiesto scusa per il fatto che 350mila nostri esuli arrivarono sulla Penisola e furono trattati come appestati, per drammi come la morte di freddo di bambini di un anno nei campi profughi… Oggi abbiamo il risultato del 10 febbraio ma, ripeto, c’è ancora molto da fare. È assurdo che i cittadini italiani conoscano meglio la data delle rivoluzione di ottobre che la storia del loro popolo.

Il prefetto boccia l’occupazione del “Valle”. Fratelli d’Italia: ora lo sgombero immediato, il teatro torni ai romani


secoloditalia.it

La Fondazione Teatro Valle, costituita dagli occupanti abusivi lo scorso settembre, è stata bocciata dal Prefetto di Roma per mancanza di presupposti. La decisione, anche se tardiva, dovrebbe mettere la parola fine all’occupazione illegittima che si trascina da giugno 2011 dello stabile che ospita uno dei palcoscenici più prestigiosi della capitale, un gioiello barocco del ’700 ricco di storia e di cimeli. Il progetto del collettivo di occupanti (cinque dei quali indagati per occupazione abusiva di uno spazio pubblico) non ha i requisiti richiesti dalla legge. Quale istituzione culturale può utilizzare un bene demaniale “rubato” alla collettività? E poi alla fondazione, tenuta a battesimo dall’amico Stefano Rodotà, mancano anche i requisiti tecnici fondamentali: dalla certificazione della sicurezza  all’attestazione di agibilità a garanzia del pubblico. Finora sul terreno della legalità il Campidoglio e il governo non hanno brillato per protagonismo.  Dal 2011 non si contano i testimonial dell’intelligenza di sinistra che si sono spesi a difesa degli occupanti radical chic che hanno approfittato del vuoto dovuto alla riorganizzazione dell’Eti per mettere le mani sul prestigioso teatro romano. «Per noi non cambia nulla,  il dialogo rispetto al Valle rimane in piedi» ha commentato l’assessore capitolino alla Cultura, Flavia Barca, che a ottobre ha assunto la portavoce della Fondazione (fglia di Cappon) a dimostrazione della “neutralità” dell’amministrazione. Gli occupanti (scandalizzati per un controllo della Digos) restano sul piano di guerra mentre il coordinatore di Cantiere democratico, Stefano Pedica, denuncia «lo schiaffo alla cultura e ai professionisti che hanno salvato il teatro dalla chiusura». «Ma è falso», ribatte Federico Mollicone, che all’epoca dell’occupazione era presidente della commissione Cultura della giunta Alemanno, e che che per primo, insieme al consigliere Fabrizio Ghera, ha denunciato lo scippo. Nel 2011, infatti, il Comune aveva già programmato una stagione teatrale provvisoria preparata insieme all’Argentina, che è saltata a causa dell’autogestione illegittima ammantata di intenti culturali. Nel silenzio generale, gli esponenti di Fratelli d’Italia per primi avviarono la campagna per la restituzione del Valle ai romani con la richiesta dell’”>immediato sgombero degli occupanti, l’avvio di un bando pubblico aperto a tutti e il conteggio del danno erariale. Lo scorso ottobre Fabio Rampelli ha presentato un ordine del giorno alla Camera approvato dall’Aula e accolto come “raccomandazione” dal distratto ministro Bray, che ora non può più tergiversare dopo aver benedetto l’autogestione partecipando in prima fila alla presentazione di un libro. «Ora si proceda allo sgombero immediato senza alcuna “riparazione” per gli occupanti abusivi, colpevoli di un reato punibile dal Codice, e la Corte dei Conti verifichi l’entità del danno erariale», alza la posta Mollicone  denunciando le complicità delle istituzioni, che da quasi tre anni collaborano di fatto all’«operazione esproprio» di uno dei più antichi palcoscenici della capitale.

lunedì 10 febbraio 2014

Il ricordo vince sull'odio, Italiani per amore.


Buon compleanno soldato Paolo, fino alla Vittoria.


di Fabio Rampelli

Notte fonda. Squilla il telefono di casa, abito ancora con i miei genitori, rispondo io, a quest'ora capitano solo chiamate d'aiuto. Chi finisce in un commissariato, chi in questura, chi in ospedale, chi in prigione. Generazione bella e perseguitata, perennemente in trincea senza che ci sia più una guerra. Stavolta la notizia é un tuono, la voce fioca di Gianni mi dice di andare subito al Policlinico Umberto I, Paolo è in coma. Mi si gela il sangue.

Non ricordo cosa stessi facendo, se stessi dormendo o fossi sul tavolo da disegno a preparare qualche esame, non ricordo nulla. Dalla memoria rattrappita non ho mai cavato granché su quelle ore d'ansia, rammento di essere uscito di corsa e di soppiatto e di aver schiantato la mia Simca Horizon contro un’auto in borghese della polizia, alla stazione Termini. Farnetico qualcosa, estraggo la patente, l'aria che si condensa nel freddo di quella notte ributtante. Giungo al Pronto soccorso, qualcuno già strizza le spalle. Non riusciamo a vedere Paolo, ma lo sorvegliamo per sette giorni e sette notti per proteggerlo, rincuorarlo, resuscitarlo con la veglia e la preghiera. Seduti a terra in un corridoio squallido consumiamo stecche di sigarette, viveri, casse d'acqua, caffè, mentre la folla s'ingigantisce, la processione s'allunga. Quell'ospedale diventa il nostro quartier generale, è da lì che partono manifesti, volantini, murales, cortei nel cuore dell'Africano, il quartiere proibito che Paolo ha osato "violare" affiggendo manifesti e chiedere l'esproprio di Villa Chigi e la sua restituzione ai cittadini, proprio al suo confine. Tutto sembra improvvisamente ridicolo, ma quella dolorosa agonia pare voler dare ancora un senso a ciò che senso non ha.

Guardo Francesco e Giulio, Chicco e Pluto, Enrico, Massimo, Francesca, Roberta, Poldo, Cico, Ringo, Sciattol, Fabio e penso che niente ci potrà più separare, niente potrà mai corromperci ora che altro sangue cementa le nostre vite.

Il coma persiste, gli animi ribollono, la proposta della vendetta riecheggia con la sua logica dell'occhio per occhio, la follia che ha guidato gli anni 70, come un vampiro, ha sete di altro sangue, rifà capolino. Paolo non è un simpatizzante, ma un militante, un soldato. Lo ricordo a Colle Oppio arrivare con la sua moto dopo che una bomba aveva semidistrutto la sede, prendere la scopa d'ordinanza e mettersi a spazzare. Il silenzio era il suo idioma. Mi viene in mente Campo de' Fiori, dove un innocente volantinaggio era diventato la solita "provocazione fascista". Le forze dell'ordine impaurite davanti a una schiera di ultracomunisti ci piantano lì. Noi in venti, con nessuna voglia di scappare e gli altri in corteo ad agitare mazze "democratiche". C'è voluta molta fantasia per tornare a casa sani. E poi le lotte studentesche, le prime emittenti televisive private, le ‘avveniristiche’ autogestioni di destra che fecero tanto rumore, la voglia di scuotere le coscienze dei giovani, appassionandoli alle idee. I primi vagiti di una 'comunità' che avrebbe voluto affermarsi superando le ideologie e rifiutando la guerra tra fazioni. Stop al disegno dei grandi burattinai al potere.

Lavora silenzioso nello sgabuzzino dove scrive i suoi manifesti a mano, ha i capelli lunghi e arruffati, va in vacanza in tenda, è contro la pena di morte e, per questo, viene sbattuto fuori dalla sezione missina di viale Somalia, destino riservato a molti di noi. Quelli che la volevano, che erano anche razzisti e neofascisti, diventeranno statisti e ministri. Scherzi della democrazia. 
La richiesta di vendetta prende corpo, alcuni si avvicinano, propongono, fanno finta di essere sicuri dell'identità degli assassini, solito schema, solita filastrocca. No, la risposta è che non si risponde, ci diano pure dei "vigliacchi", il "favore" non sarà restituito. La differenza rispetto al passato, è che stavolta vogliamo dare tutto e non prenderci rivincite, sferrare il colpo di grazia all'ipocrisia di un mondo costretto alle divise, ai saluti e alla difesa disperata del proprio spazio vitale, mettere sulle idee la nostra vita. Meritiamo più di un capriccio, di un gesto isterico, di una giustizia casareccia. Non ci aspettiamo che lo Stato consegni gli assassini alla galera, ancora una volta non accadrà, ma vogliamo fare delsoldato Paolo l'ultima vittima di un conflitto fratricida. Mai più altro sangue innocente, ma profumo di vittoria. Poche ore dopo lo avremmo giurato sul suo corpo esangue su cui un'infermiera aveva apposto un giglio bianco nel giorno del suo ventesimo compleanno:auguri, Paolo, fino alla vittoria. Intenzione velleitaria per l'epoca eppure premonitrice di quanto in una manciata di anni sarebbe accaduto nella società. Sortilegio o presagio. I partiti tradizionali saltano per aria, i vecchi schemi caracollano sotto le pietre del muro di Berlino, la storia si rimette in moto e noi le stiamo sul collo.

In terapia intensiva improvvisamente il tempo inizia a correre, sembrano gli ultimi respiri... il cuore, la testa, la debilitazione. Prima dell'ultima crisi ci riversiamo ancora in strada, tutti insieme, per urlare la nostra rabbia e bagnare di lacrime l'asfalto, in pugno le nostre bandiere. Quanti bambini riempivano quei veicoli. E mentre l'ospedale rimane deserto accade il miracolo. Sandro Pertini, presidente partigiano della Repubblica italiana, fa visita a Paolo, mette fine con un gesto imprevisto a decenni di orride esecuzioni. Sembrava quasi che Paolo lo stesse aspettando, qualche ora muore e ci lascia per sempre alle nostre miserie quotidiane. L'indomani Giuliano Ferrara, allora di osservanza socialcomunista, scrive su un editoriale di Repubblica che "uccidere un fascista era reato", che anche se la vita politica di Di Nella era "deprecabile", occorreva dare la dignità al morto. Parole che oggi giudicheremmo offensive perché qualunque scelta ideale ha una dignità innanzitutto in vita e non solo quando viene sepolta sotto terra, ma un altro tassello al superamento delle contrapposizioni veniva posto dal quotidiano di Eugenio Scalfari. 

Ecco il testamento spirituale di Paolo Di Nella, gesti e parole destinati a segnare la fine di un incubo. La cappa di una guerra civile strisciante s'alza con il soffio che spira da questo sacrificio, nuovi fili d'erba si fanno strada in un prato ingiallito. Forse è il segnale che si può andare a scuola e all'università senza patemi, che si possono professare le proprie opinioni, presentare le liste studentesche senza essere linciati, parlare nelle assemblee senza subire spintonamenti o essere ricoperti di monetine, leggere liberamente i propri giornali preferiti, non vedersi irrompere dentro casa all'improvviso e senza motivo agenti di polizia mitra in pugno, parlarsi al di là della destra e della sinistra... da persone a persone. Si schiudono le porte di un'altra era.

Il dolore è un fazzoletto di piombo che t'incappuccia il cuore, ti pesa dentro, le notti non sono più le stesse da allora, inizia la sfida esistenziale per ricostruire una normalità, difendere il diritto all'allegria, per non far vincere i seminatori di miseria e trasformare il ricordo in un sorriso. Turbine di pensieri, emozioni, eventi, decisioni tanto più grandi di quei ragazzi semplici sovraccarichi di responsabilità. La morte di Paolo è un pezzo speciale della nostra storia, un tassello della storia d'Italia, una sinfonia che irrompe all'improvviso con i suoi suoni grassi violando la sua inclinazione al silenzio, come l'avesse preparata in vita per sentirla suonare nell'eternità.

Paolo è morto, camminiamo a testa bassa nei viali del Policlinico, alla ricerca della camera mortuaria, piove. Siamo in tre, uno di noi ha preso un'altra strada e si è perso di vista. Entriamo in un padiglione, c'intrufoliamo e troviamo il letto, c'è il lenzuolo da scoprire... Candido, rasato e col volto così simile a quel giglio bianco s'incastona il corpo magro del nostro fratello. Giuro, giuro che la porteremo sulla tua tomba, sarà guarnita come per le grandi occasioni, ma essenziale, perché la vittoria, quando la conquisti, non ha bisogno di commenti, né di labari, saluti, fronzoli. Lei è così, all'improvviso ti cade in braccio, quando meno te l'aspetti, quasi non ti viene voglia di festeggiare tanto ti appaga... No, non l'abbiamo ancora spuntata. 

Non ti muovere da lì. Buon compleanno, soldato Paolo.