di Fabio Rampelli
(il 9 febbraio di tanto tempo fa)
Notte fonda. Squilla il
telefono di casa, abito ancora con i miei genitori, rispondo io, a
quest'ora capitano solo chiamate d'aiuto. Chi finisce in un
commissariato, chi in questura, chi in ospedale, chi in prigione.
Generazione bella e perseguitata, perennemente in trincea senza che ci
sia più una guerra. Stavolta la notizia è un tuono, la voce fioca mi
dice di andare subito al Policlinico Umberto I, Paolo è in coma. Mi si
gela il sangue.
Non ricordo cosa stessi facendo, se stessi
dormendo o fossi sul tavolo da disegno a preparare un esame, non ricordo
nulla. Dalla memoria rattrappita non ho mai cavato granché su quelle
ore d'ansia, rammento di essere uscito di corsa e di soppiatto e di aver
schiantato la mia Simca Horizon contro un’auto in borghese della
polizia, alla stazione. Farnetico qualcosa, estraggo la patente, l'aria
si condensa nel freddo di quella notte ributtante. Giungo al Pronto
soccorso, qualcuno strizza le spalle. Non riusciamo a vedere Paolo, ma
lo sorvegliamo per sette giorni e sette notti per proteggerlo,
rincuorarlo, resuscitarlo con la veglia e la preghiera. Seduti a terra
in un corridoio squallido consumiamo stecche di sigarette, viveri,
caffè, mentre la folla s'ingigantisce, la processione s'allunga.
Quell'ospedale diventa il nostro quartier generale, è da lì che partono
manifesti, volantini, murales, cortei nel cuore dell'Africano, il
quartiere proibito che Paolo ha osato "violare" affiggendo manifesti,
chiedendo l'esproprio di Villa Chigi e la sua restituzione ai cittadini.
Tutto sembra improvvisamente ridicolo, ma quella dolorosa agonia pare voler dare ancora un senso a ciò che un senso non ha.
Osservo i volti e penso che niente ci potrà più separare, niente potrà
mai corromperci ora che altro sangue cementa le nostre vite.
Il
coma persiste, gli animi ribollono, la proposta della vendetta
riecheggia con la sua logica dell'occhio per occhio, la follia che ha
guidato gli anni '70, come un vampiro, ha sete di altro sangue. Paolo
non è un simpatizzante, ma un militante, un soldato. Lo ricordo a Colle
Oppio arrivare con la sua moto dopo che una bomba aveva distrutto la
sede, prendere i detriti con le mani e poi impugnare la scopa
d'ordinanza e spazzare via quintali di polvere. Il silenzio era il suo
idioma.
Mi viene in mente Campo de' Fiori, dove un innocente
volantinaggio era diventato la solita "provocazione fascista". Le forze
dell'ordine impaurite davanti a una schiera di ultracomunisti ci
piantano lì. Noi in venti, con nessuna voglia di scappare e gli altri in
corteo ad agitare mazze "democratiche". C'è voluta molta fantasia per
tornare a casa sani e mentre tutti andavano via dopo averla scampata io e
Paolo proteggevamo uno di noi cui non partiva la moto. Spingere,
guardarsi indietro, cercare di prevedere se ce l'avremmo mai fatta. Roba
da farsi raggelare il plasma. E poi le lotte studentesche, le prime
emittenti televisive private, le ‘avveniristiche’ autogestioni di destra
che fecero tanto rumore, la voglia di scuotere le coscienze dei
giovani, appassionandoli ai valori. I primi vagiti di una 'comunità' che
avrebbe voluto affermarsi superando le ideologie e rifiutando la guerra
tra fazioni. Stop al disegno dei grandi burattinai al potere.
Lavora silenzioso nello sgabuzzino dove scrive manifesti a mano, capelli
lunghi e arruffati, va in vacanza in tenda, è contro la pena di morte
e, per questo, viene sbattuto fuori dalla sezione missina di viale
Somalia, destino riservato a molti di noi. Quelli che la volevano, che
erano anche razzisti e neofascisti, diventeranno statisti e ministri.
Scherzi della democrazia.
La richiesta di vendetta prende corpo,
alcuni si avvicinano, propongono, fanno finta di essere sicuri
dell'identità degli assassini, solito schema, solita filastrocca. No, la
risposta è che non si risponde, ci diano pure dei "vigliacchi", il
"favore" non sarà restituito. La differenza rispetto al passato, è che
stavolta vogliamo dare tutto e non prenderci rivincite, sferrare il
colpo di grazia all'ipocrisia di un mondo costretto alle divise, ai
saluti e alla difesa disperata del proprio spazio vitale, mettere sulle
idee la nostra vita e non il contrario. Meritiamo più di un capriccio,
di un gesto isterico, di una giustizia casareccia. Non ci aspettiamo che
lo Stato consegni gli assassini alla galera, ancora una volta non
accadrà, ma vogliamo fare del soldato Paolo l'ultima vittima di un
conflitto fratricida che avrebbe ancora una volta reso più stabile un
sistema corrotto nell'anima.
Mai più altro sangue innocente, ma profumo
di vittoria. Poche ore dopo lo avremmo giurato sul suo corpo esangue su
cui un'infermiera aveva apposto un giglio bianco nel giorno del suo
ventesimo compleanno, coincidenza incredibile... Auguri, Paolo, fino
alla vittoria. Intenzione velleitaria per l'epoca eppure premonitrice di
quanto in una manciata di anni sarebbe accaduto nella società.
Sortilegio o presagio.
I partiti tradizionali saltano per aria, i vecchi
schemi caracollano sotto le pietre del muro di Berlino, la storia si
rimette in moto e noi le stiamo sul collo. No, non è successo tutto
perché alla richiesta di colpire presunti assassini abbiamo risposto
'picche', ne sono consapevole, ma è stata la cosa giusta da fare per
essere sopra quella gigantesca onda rivoluzionaria successiva a
tangentopoli.
In terapia intensiva improvvisamente il tempo
inizia a correre, sembrano gli ultimi respiri... il cuore, la testa, la
debilitazione. Prima dell'ultima crisi ci riversiamo ancora in strada,
tutti insieme, per bagnare di lacrime l'asfalto ed esorcizzare la
disperazione, in pugno le nostre bandiere.
Quanti bambini riempivano
quei veicoli. E mentre l'ospedale rimane deserto accade il miracolo.
Sandro Pertini, presidente partigiano della Repubblica italiana, fa
visita a Paolo, mette fine con un gesto imprevisto a decenni di orride
esecuzioni. Sembrava quasi che Paolo lo stesse aspettando, qualche ora
dopo muore e ci lascia per sempre alle nostre miserie quotidiane.
L'indomani Giuliano Ferrara, allora di osservanza socialcomunista,
scrive su un editoriale di Repubblica che "uccidere un fascista era
reato", che anche se la vita politica di Di Nella era "deprecabile",
occorreva dare la dignità al morto. Parole che oggi giudicheremmo
offensive perché qualunque scelta ideale ha una dignità innanzitutto in
vita e non solo quando viene sepolta sotto terra, ma un altro tassello
al superamento delle contrapposizioni veniva posto dal quotidiano
diretto da Eugenio Scalfari.
E' stato Paolo, sono stati la sua
vita, la sua morte, la 'generazione invisibile' di cui era alfiere a
proiettare la destra nel futuro, né Berlusconi, né Fini...
Ecco
il testamento spirituale di Paolo Di Nella, gesti e parole destinati a
segnare la fine di un incubo.
La cappa di una guerra civile strisciante
s'alza con il soffio che spira da questo sacrificio, nuovi fili d'erba
si fanno strada in un prato ingiallito. Forse è il segnale che si può
andare a scuola e all'università senza patemi, che si possono professare
le proprie opinioni, presentare le liste studentesche senza essere
linciati, parlare nelle assemblee senza subire spintonamenti o trovarsi
con un bel cartello al collo a passeggiare per i corridoi, leggere
liberamente i propri giornali preferiti, non vedersi irrompere dentro
casa all'improvviso e senza motivo agenti di polizia mitra in pugno per
paradossali perquisizioni, parlarsi al di là della destra e della
sinistra... da persone a persone. Si schiudono le porte di un'altra era.
Il dolore è un fazzoletto di piombo che t'incappuccia il cuore, ti pesa
dentro, le notti non sono più le stesse da allora, inizia la sfida
esistenziale per ricostruire una normalità, difendere il diritto
all'allegria, per non far vincere i seminatori di miseria e trasformare
il ricordo in un sorriso. Turbine di pensieri, emozioni, eventi,
decisioni tanto più grandi di quei ragazzi semplici sovraccarichi di
responsabilità. Generazione invisibile che ha rovesciato gli schemi
proprio il giorno in cui sarebbe stata perdonata, se avesse sbagliato
ancora. Ecco perché la morte di Paolo è un pezzo speciale della nostra
storia, un tassello della storia d'Italia, una sinfonia che irrompe
all'improvviso con suoni grassi, violando la sua inclinazione al
silenzio, come l'avesse preparata in vita per sentirla suonare
nell'eternità.
Paolo è morto, camminiamo a testa bassa nei viali
del Policlinico, alla ricerca della camera mortuaria, piove. Entriamo in
un padiglione, c'intrufoliamo e troviamo il letto, c'è il lenzuolo da
scoprire... Candido, rasato e col volto così simile a quel giglio
bianco, il suo corpo magro s'incastona tra le pieghe.
Giuro,
giuro che la porteremo sulla tua tomba, sarà guarnita come per le grandi
occasioni, ma essenziale, perché la vittoria, quando la conquisti, non
ha bisogno di commenti, né di labari, saluti, fronzoli. Lei è così,
all'improvviso ti cade in braccio, quando meno te l'aspetti, quasi non
ti viene voglia di festeggiare tanto ti appaga... No, non l'abbiamo
ancora spuntata, si guadagnano e si perdono metri in questa sfida per
riscattare l'Italia, una giostra infinita di luci e ombre che ci fanno
compagnia. Qualcuno dei nostri amici ha perso il senso
dell'orientamento, altri sono stati trasformati in spettri dalle forze
del male, molti sono in sonno: guardano a distanza, fanno il tifo,
strizzano l'occhiolino mentre allevano piccole creature, aspettano il
segnale per riprendere il loro posto nella vallata.
Si cerca una
nuova mappa, si costruisce un nuovo piano di volo, si plasmano altre
sentinelle. Non ti muovere da lì, ti verremo a chiamare.
Buon compleanno, soldato Paolo.