da corriere.it
Quindici anni fa moriva assassinato sulle montagne del Panjshir il leggendario leader che combattè prima i sovietici e poi i talebani. La sua figura resta ancora oggi un punto di riferimento per chi sogna un Afghanistan libero
Una visione profetica
«I governi europei non capiscono che io non combatto solo per il mio
Panjshir, ma per bloccare l’espansione dell’integralismo islamico
scatenato a Teheran da Khomeini. Ve ne accorgerete!». Si direbbero
profetiche le parole del condottiero afghano ucciso in un agguato il 9
settembre del 2001, a soli due giorni di distanza dal terribile attacco
all’America che sconvolse il mondo e mutò per sempre gli equilibri
internazionali. E certo Massud aveva visto da vicino la possibile deriva
dell’integralismo islamico con l’avvento dei talebani nel suo amato
Afghanistan, la patria già profondamente divisa da contrasti etnici e
spezzata dall’invasione sovietica, il Paese senza una guida né disegno
unitario, bisognoso di una leadership forte, che solo un condottiero
come lui, «Leone del Panjshir», avrebbe potuto offrire. Proprio lui,
nato nel 1953 in un villaggio nel Nord del Paese da una famiglia sunnita
di etnia tagika, studente del prestigioso Lycée Esteqlal di Kabul e poi
del politecnico cittadino, attivista dei Giovani musulmani fedeli al
professor Burhaddin Rabbani, primo germe dell’opposizione all’influenza
sovietica che iniziava a serpeggiare nel Paese. Negli Anni ’70 la scelta
di diventare combattente, guidato nella sua battaglia dal sogno di
vedere il proprio Paese libero, sovrano e indipendente, nel rispetto
delle antiche tradizioni culturali e spirituali della sua terra e,
naturalmente, secondo i precetti dell’Islam. Un uomo integro, che amava
la poesia e gli scacchi, un leader carismatico seguitissimo dal proprio
popolo e oggi amaramente rimpianto, un musulmano osservante ma lontano
dal fondamentalismo, uno stratega militare molto diverso dai tanti
signori della guerra che tra gli Anni ’70 e 2000 hanno popolato
l’Afghanistan, e proprio per questo amato e protetto dai propri soldati,
a cui diceva: «Siete miei soldati, comportatevi con onore. Trattate la
gente con cortesia. Non tollero né violenze né stupri, né rapine. Sapete
quel che vi aspetta in caso contrario» La sua morte è stata oscurata
dall’immane tragedia delle Twin Towers, ma molti osservatori hanno visto
nella quasi contemporaneità dei due eventi ben più di una semplice
coincidenza, ascrivendoli entrambi alla macchina terroristica di Al
Qaeda e a un piano comune per destabilizzare gli equilibri
internazionali e di quella specifica area «calda» del mondo. Testimone
diretto dell’azione e della vita del «Leone del Panjshir», e col tempo
suo amico personale, è stato l’inviato speciale del «Corriere della
Sera» Ettore Mo, che ricorda così il loro primo incontro e quella figura
così leggendaria da ricordare gli eroi letterari del passato: «Al tempo
del nostro primo incontro, nell’81, l’ex studente universitario fuori
corso aveva appena 26 anni ma era già leggenda: che le epiche battaglie
dei mujaheddin contro gli “sciuravi” — i russi — avrebbero via via
ingigantito. Ricordo un giovane piuttosto schivo e taciturno, un volto
pallido affilato, gli occhi grandi e scuri, quasi sempre offuscati da un
velo di malinconia. Niente d’altero o d’autoritario nella sua persona,
sapeva imporsi grazie alla sua forza interiore, impartiva ordini quasi
senza parlare, gli bastavano gli occhi e un gesto sbrigativo nella mano
per dire ai suoi ragazzi cosa fare, dove andare».
Massud giovane rivoluzionario
Per capire cosa abbia significato Ahmad Shah Massud in Afghanistan e
sullo scacchiere internazionale, bisogna fare un passo indietro nella
storia del Paese e tornare al tempo della divisione del mondo nei due
blocchi antagonisti occidentale e sovietico, con l’Urss che — anno dopo
anno — espandeva la propria area d’influenza verso ovest e verso sud.
Nella Kabul degli Anni ’70 Massud e un’intera generazione di studenti
legati alle proprie tradizioni religiose e culturali sentono come una
minaccia alla propria identità nazionale la pressione sovietica, e
trovano nell’Islam e nella carismatica guida del professor Burhanuddin
Rabbani il collante di una germinale resistenza a Mosca e un’alternativa
a governi fantoccio come quello di Mohammed Daud Khan. Ma devono fare i
conti anzitutto con la debolezza più antica del Paese, ovvero una
pericolosa e fortissima frammentazione tra etnie differenti, che colpirà
persino il fronte rivoluzionario dei Giovani Musulmani di cui fa parte
Massud, spaccandolo in fazioni violentemente nemiche: da un lato i
moderati fedeli a Rabbani, dall’altro gli estremisti guidati da
Gulbuddin Hekmatyar, futuro dell’organizzazione fondamentalista islamica
Hezbi Islami col sostegno del Pakistan. Il colpo di stato dell’aprile
1978 farà drammaticamente precipitare gli eventi, cacciando il regime
repubblicano di Daud in favore di un governo filo-sovietico presieduto
da Taraki, che farà entrare definitivamente l’Afghanistan nell’alveo di
Mosca, mentre i ribelli organizzano la resistenza dalla base di
Peshawar, drammaticamente divisi tra loro. Massud, dal canto suo,
sceglierà di tornare al natio Panjshir, e da lì organizzerà una
personale resistenza contro l’invasore russo. Dalla cronaca di «Corriere
della Sera» del 1985, la descrizione dell’Afghanistan sotto controllo
sovietico: «L’attività militare è solo un aspetto del coinvolgimento
sovietico in Afghanistan, anche se il più vistoso. Ciò che avviene in
sordina è la lenta ma continua penetrazione dei russi nei settori vitali
dell’amministrazione e della burocrazia afghane: un processo che
avrebbe già parzialmente cambiato il volto del Paese. I mass media
subiscono il rigoroso controllo dei sovietici: l’università di Kabul,
cittadella islamica, e le scuole in genere hanno dovuto accettare il
nuovo indirizzo, che non sempre riesce a convivere con i dogmi della
fede; la lingua russa sta per diventare obbligatoria e la pianificazione
economica viene tracciata sotto la supervisione di esperti moscoviti»
L'Afganistan in capo a Mosca
Negli anni seguenti, dal 1979 al 1989, i mujaheddin di Massud, arroccati
nelle montagne del nord del Paese, combatteranno le truppe sovietiche
fino al loro definitivo ritiro nel 1989, con l’appoggio delle
popolazioni locali e sotto lo sguardo incuriosito dei media
internazionali, stupiti dai notevoli risultati militari di questo gruppo
di guerriglieri, apparentemente improvvisato e senza mezzi, capace di
resistere — e rispondere — a ben dieci offensive dei sovietici. Ettore
Mo ci dà una descrizione della difficile — e impari — lotta tra
mujaheddin e forze sovietiche: «La guerra russo-afghana è stata
soprattutto, per chi abbia avuto il privilegio di seguirla assiduamente
anno dopo anno, una gran fatica, uno sforzo fisico tremendo. [...]
Ricordo un’escursione nel Panjshir, nell’estate dell’84, alla ricerca
del leggendario comandante Massud, che alcune notizie davano per
prigioniero dei russi o addirittura per morto: ventidue giorni di marcia
per raggiungerlo e quasi altrettanti per rientrare in Pakistan. [...]
Lassù nel Panjshir, il grande comandante stava benone. Altro che
prigioniero o ferito a morte. Neanche un graffio sul suo bel volto
asciutto, affilato. Aveva appena respinto la settima offensiva nella
vallata, che i sovietici avevano troppo incautamente battezzato “Addio
Massud”
L'illusione della pace a Kabul
Cacciati i sovietici da Kabul e stipulati i cosiddetti Peshawar Accords
tra i vari gruppi afghani protagoniste della resistenza, si impone il
fronte guidato dal professor Rabbani, e Massud, per gli indubbi meriti
militari, viene nominato ministro della Difesa. La sfida di dare
un’unione politica al Paese si scontrerà da subito con le storiche
divisioni interne tra le fazioni vincitrici dello scontro con i
sovietici, e Massud dovrà vedersela in primis con le forze estremiste di
Gulbuddin Hekmatyar, in una guerra a due, che assume nel tempo i tratti
di un vero e proprio duello per la leadership, e che vede Massud forte
di un enorme sostegno popolare e l’avversario sostenuto militarmente ed
economicamente dal potente Pakistan. Annota Ettore Mo: «Nell’inverno del
1983 Massud aveva accusato Gulbuddin Hekmatyar, il super falco della
resistenza di avergli tagliato i rifornimenti che venivano dal nord,
favorendo i piani dell’Armata Rossa e affamando i suoi 10 mila
mujaheddin. In realtà l’avversione che Hekmatyar ha sempre nutrito per
il celebre comandante tagiko — secondo lui ingiustamente mitizzato dai
mass media — aveva talvolta ostacolato il nostro cammino verso il
Panjshir
Nutrito di odio
E ancora: «Nei dodici, tredici anni di guerra, Hekmatyar si è nutrito
esclusivamente di odio, ha pasteggiato a odio dal mattino alla sera, tra
le cinque preghiere quotidiane. Il suo piatto speciale era Massud Ahmad
Shah, un tagiko, Gulbuddin era un pashtun di Kunduz, rampollo di una
ricca famiglia di proprietari terrieri»
Un nuovo nemico: i talebani
Nel clima di divisione interna e con le difficoltà oggettive di dieci
durissimi anni di guerra alle spalle, l’Afghanistan fatica a diventare
una compagine politica unitaria e democratica, e il vuoto governativo e
di leadership diventa in pochi anni il terreno fertile per la nuova
minaccia talebana, che gode dell’appoggio del vicino Pakistan, e secondo
alcuni anche del finanziamento di attori internazionali contrari a un
Afghanistan indipendente e sovrano. La resistenza ai talebani è serrata,
ma non impedisce che nel settembre del 1996 questi guerriglieri
dell’integralismo islamico prendano possesso di Kabul, instaurando la
cosiddetta Repubblica islamica Afghana, fondata su una rigidissima
interpretazione del Corano, che tocca soprattutto le libertà delle
donne, private di ogni diritto politico e civile, interdette
dall’istruzione e dalla vita sociale, e calpesta la tradizione culturale
del Paese e i suoi simboli artistici come i famosi Buddha di Bamiyan,
distrutti sotto gli occhi attoniti del mondo occidentale. Costretto alla
fuga da Kabul come il Presidente Rabbani, Massud denuncerà ad alta voce
la barbarie talebana, il sostegno del governo pachistano, e assisterà
inerme alla vendetta dei nuovi padroni di Kabul, in primis contro il
primo ministro Najibullah, prelevato con la forza dal palazzo dell’Onu,
torturato, evirato e infine ucciso con un proiettile alla testa, per
esser poi impalato sulla pubblica piazza come monito per la popolazione
afghana. Un’escalation anti-democratica tale da far capire a Massud che è
necessario il ritorno alla guerriglia utilizzata contro i sovietici,
riorganizzando le sue forze dalla sua vecchia base nel Panjshir, come
spiega a Ettore Mo nel 1996: «La mia è stata una ritirata strategica,
come ce ne sono state tante nella storia. Ho messo in salvo i miei
uomini e il mio arsenale. E ho evitato di esporre al massacro la
popolazione locale. La vera sconfitta l’hanno subito loro — i talebani —
perdendo l’appoggio popolare»
L'Alleanza del Nord
Stessi metodi per un avversario diverso, con l’appoggio — questa volta —
delle forze occidentali riunite nella missione Enduring Freedom, non
più indifferenti allo scacchiere afghano dopo i tragici fatti dell’11
settembre. Da allora fino al 9 di settembre del 2001, Massud o Leone del
Panjshir, come verrà soprannominato, sarà alla testa dell’Alleanza del
Nord in funzione anti-talebana, segnando successi militari che spiazzano
le forze integraliste guidate da mullah Omar, come riporta ancora
Ettore Mo: «In una sola giornata, con un duplice attacco, 1800
mujaheddin hanno spinto fuori dalla città — Teleqan — gli 8 mila
studenti guerrieri di Omar inseguendoli poi lungo la strada berso
Kunduz, a ovest. Più di cento talebani uccisi e 150 prigionieri»
La morte dell'eroe
Pochi mesi prima dell’agguato che gli costerà la vita, Massud ammette
che la situazione del Paese è drammatica e la guerra contro i talebani è
a un punto di stallo, mentre le sue armate di mujaheddin faticano a
portare avanti la resistenza senza il rinforzo delle potenze
occidentali. In un’intervista a Ettore Mo dell’aprile 2001, al consueto
piglio battagliero del Leone si sostituisce una profonda amarezza: «A tu
per tu, mi lascia capire che la situazione nel territorio da lui
controllato — che è sostanzialmente il Panjshir — è drammatica. Nella
zona c’è un milione di profughi, le difficoltà sono state amplificate
dalla carestia e da un clima perfido, manca il cibo, manca tutto. È
stato di grande aiuto l’ospedale instaurato dal chirurgo milanese Gino
Strada. [...] “Ciò che posso dire è che la nostra gente ha ormai capito
chi sono veramente i Talebani, ed è solidale con noi. Credo che si siano
resi conto, finalmente, che dietro i Talebani c’è un Paese straniero,
il Pakistan”
L'attentato
È il 9 settembre del 2001, Massud è ormai una personalità di rilievo internazionale e non pochi media si interessano alla sua lotta di liberazione dalle valli del Panjshir; quel giorno il leggendario comandante riceve la visita di due sedicenti giornalisti tunisini, che dicono di volerlo intervistare per un’emittente televisiva del Marocco interessata alle gesta dell’Alleanza del Nord: nella telecamera che portano con sé è nascosta una bomba, che non lascerà scampo al Leone del Panjshir. Nell’esplosione morirà anche uno dei due attentatori, mentre l’altro sarà ucciso durante la fuga dalle guardie del corpo di Massud. Si scoprirà poi che i due tunisini sono in realtà terroristi reclutati a Bruxelles dal capo dell’organizzazione salafita Ansar Al Sharia, anche se altri osservatori li fanno risalire direttamente ad Al Qaeda. Due giorni dopo, quando la notizia della morte viene resa pubblica, passa in sordina perché il mondo è scosso dal più grande attentato terroristico della storia, proprio nel cuore degli Stati Uniti, e qualcuno azzarda subito che la tempistica dei due tragici eventi sia ben più che una coincidenza, quasi che la fine di Massud sia stato un sibillino avvertimento. Incompreso o inascoltato. Ettore Mo, più volte faccia a faccia con Massud, lo ricorderà con queste parole dalle pagine del Corriere: «Non so se quest’arida montagnola coperta di sabbia e cotta dal sole diventerà mai un luogo di culto per le popolazioni islamiche dell’Asia Centrale: certamente, la natura del territorio non favorisce peregrinazioni e raduni di massa. Ma per gli afghani di questa e di altre regioni, la tomba di Ahmad Shah Massoud resterà un simbolo imperituro della storia e della tragedia di un popolo o semplicemente il sarcofago-santuario dell’eroe che già all’inizio degli anni Ottanta chiamavano il Leone del Panjshir»