domenica 30 giugno 2013

Se nascere è un reato…


da azionetradizionale.com

Dall’autorità comunista cinese giunge un nuovo editto a ricordarci come democrazia e comunismo siano entrambe ideologie improntate verso la morte. Morte non solo fisica, ma anche e soprattutto spirituale ed intellettuale.
Quindi mentre nella democratica Europa si chiede l’approvazione di una legge che consenta ai bambini di chiedere l’eutanasia (vedi articolo qui) la dittatura comunista, non soddisfatta della legge sul figlio unico, risolve il problema alla radice, direttamente nell’utero, obbligando le giovani ragazze a sottoporsi ad una cura per renderle sterili.
Per quale motivo? Semplice. La provincia in cui abitano è vicina a raggiungere il limite massimo di nascite concesso dal governo.
Questo non è un mondo per bambini.
(Tempi.it) – La legge sul figlio unico in Cina è una realtà ormai da 33 anni ma dal momento che nella città di Huizhou, Guangdong, i risultati non sono soddisfacenti, le autorità cinesi hanno deciso di rincarare la dose, pubblicando un documento che riguarda molto da vicino le donne che vivono nella città di 4 milioni di abitanti.
STERILIZZAZIONE OBBLIGATORIA. Il documento chiede a tutte le donne in età fertile e già madri di un figlio di farsi applicare una spirale intrauterina per impedire ulteriori gravidanze o di farsi sterilizzare. Le donne invece che hanno già due figli devono sottoporsi a intervento per farsi chiudere le tube. Chi si sottoporrà all’intervento, continua il documento, riceverà a seconda dei casi premi che vanno dai 300 yuan (circa 50 dollari) ai 2000 yuan (326 dollari). Ma chi si rifiuterà di farsi sterilizzare, e non riceverà quindi un certificato che attesta che la famiglia è a norma, non potrà registrare il proprio figlio all’anagrafe, non potrà iscriverlo a scuola né accedere ai servizi di welfare della città o della regione.
QUOTA NASCITE. L’ordine delle autorità locali del partito comunista cinese è arrivato in vista di «una campagna di ricerca che si concentrerà sui servizi di pianificazione familiare nei riguardi della comunità sotto la nostra giurisdizione». Secondo alcune fonti locali, il Guangdong sarebbe vicino a superare la quota nascite fissata per la regione. Per questo il governo avrebbe deciso di aumentare i controlli e le sterilizzazioni.
CONSEGUENZE DELLA LEGGE. Il Partito comunista cinese non ha mai rinnegato la legge sul figlio unico ma si è sempre vantato di avere in questo modo impedito la nascita di 400 milioni di bambini dal 1979, anno in cui è stata approvata. Non sono rari i casi di aborti indotti e sterilizzazioni forzate, come avvenuto di recente a Feng Jianmei, alla signora Lü e a Yang Yuzhi. Emblematica anche la storia di Chen, donna di 37 anni di Zhejiang, che dopo avere partorito in segreto la sua seconda figlia l’ha abbandonata, nella speranza di riuscire ad adottarla più avanti e così sfuggire alle punizioni per chi trasgredisce la legge.

Roma. La prima mossa di Marino? Equitalia torna a fare i “conti” ai cittadini

da barbadillo.it
Equitalia resterà a Roma. Così ha deciso, con delibera, il neo Sindaco di Roma, Ignazio Marino. Una “prima mossa” che ha annullato, in tal modo, la delibera 180 adottata dalla precedente giunta capitolina, firmata dall’allora primo cittadino Gianni Alemanno, il quale aveva sancito che, dal 1 luglio, i tributi sarebbero stati riscossi direttamente dagli Uffici amministrativi, con l’ausilio di Aequa Roma, e non più da Equitalia.
Proviamo a ricostruire i fatti, e torniamo al 24 aprile. Il governo Monti aveva deciso che il 30 giugno sarebbero scaduti gli accordi tra Comuni ed Equitalia, e così, la precedente amministrazione capitolina, aveva lanciato un referendum online in cui si chiedeva ai romani di scegliere tra due opzioni: affidare la modalità di riscossione dei tributi direttamente agli uffici comunali, o demandare il compito a una società esterna, da designare con una gara ad evidenza pubblica? La consultazione online, con l’88,1% dei consensi,aveva stabilito che si sarebbe dovuto attribuire il servizio di riscossione delle entrate tributarie direttamente agli uffici dell’amministrazione.
Quindi Alemanno aveva portato in giunta una delibera in cui si dava lo stop immediato ad Equitalia, ma si stabiliva anche che tutte le pratiche istruite dal 1° luglio in poi, sarebbero state gestite dal dipartimento Risorse Economiche, in collaborazione con la società Aequa Roma. Inoltre, era stata concordato un periodo, fino al 1° ottobre, in cui Equitalia e Campidoglio si sarebbero dovuti accordare sulla gestione delle cartelle esattoriali rimaste in sospeso.
Non solo. Si era decisa anche l’istituzione di un comitato etico del contribuente, atto ad aiutare il cittadino che avesse voluto dimostrare di non essere in grado di poter saldare i propri debiti. Il comitato, in quel caso, avrebbe avuto il compito di decidere la sospensione temporanea o la rateizzazione del debito del contribuente in difficoltà economiche.
Ora, facciamo un salto e torniamo ai giorni più recenti. L’Italia è retta dal governo delle larghe intese e questo governo emana il “decreto del fare”, in cui è inserita una proroga di 6 mesi, fino al 31 dicembre, in cui si stabilisce che saranno mantenuti in vita tutti gli accordi già esistenti con Equitalia. Il decreto del fare, così, aveva lanciato la patata bollente direttamente nelle mani di Ignazio Marino che, proprio in questi giorni (come è avvenuto) e dopo aver discusso con il neo assessore al Bilancio, Daniela Morgante, avrebbe dovuto prendere una decisione (e trasformarla in delibera), per capire se prorogare il rapporto con Equitalia a Roma, o mantenere in vita gli accordi già assunti da Gianni Alemanno (e in quel caso la delibera firmata da Marino, avrebbe dovuto contenere un ulteriore provvedimento che indicasse, ad hoc, modalità e tempi di riscossione, così come era stato deciso dalla stessa delibera 180: Alemanno, infatti, stabiliva che gli uffici capitolini, entro il 30 giugno, avrebbero dovuto inviare alla giunta una relazione, così da poter varare nel dettaglio le nuove modalità di riscossione dei tributi con ulteriore delibera). Ai romani, a quanto pare, toccherà fare di nuovi i “conti” – in tutti i sensi – con Equitalia.

giovedì 27 giugno 2013

Islam: un altro Occidente?



Abbandonando l'idea di esotismo che si accosta ogni qualvolta si affronta questo tema, cercheremo di capire quanto la secolarizzazione e quindi la decadenza abbiano colpito il mondo musulmano e quanto le conseguenze di questi processi siano legati al destino di tutto il mondo.

Lasciate a casa sentenze e luoghi comuni. L'Islam è un altro occidente? 

Venerdì 28 Giugno, 
ne parleremo assieme al Professor Angelo Iacovella (Docente di lingua e letteratura araba). 

Ore 18.30 Via Madonna del Riposo, 18.

Non mancare!

sabato 22 giugno 2013

“Espresso” amaro per Zingaretti: «In cento giorni ha riempito la Regione di inquisiti e condannati»


da secoloditalia.it
Si può scegliere tra il capo di gabinetto (Maurizio Venafro) accusato di concorso in bancarotta fraudolenta e la nuova responsabile della direzione Rifiuti (Manuela Manenti) rinviata a giudizio per truffa e turbativa d’asta. Tra il nuovo capo delle Infrastrutture (Raniero De Filippis) condannato dalla Corte dei conti per un danno erariale  di 750 mila euro e il capogruppo in Consiglio regionale (Michele Baldi) accusato dalla Procura di Perugia di avere falsificato le firme della sua candidatura alle Regionali del 2010. Nella giunta rossa di Nicola Zingaretti c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Se il successore di Renata Polverini alla Regione Lazio voleva imprimere una svolta, c’è riuscito. Ma non nel senso annunciato. In una corposa inchiesta, l’Espresso ha riportato il lungo elenco di funzionari e politici beneficati da Zingaretti, che non brillano per il curriculum. Eppure il candidato del Pd aveva fatto delle parole “Onestà, pulizia, trasparenza” il suo mantra. Come ricorda il settimanale, i primi cento giorni di attività sono stati disastrosi. La giunta di centrosinistra ha già dovuto incassare il dietrofront di due assessori, costrette alle dimissioni per grane giudiziarie. La prima a saltare, meno di un mese dopo la nomina, era stata Paola Varvazzo, assessore alle Politiche sociali dopo l’inchiesta che aveva travolto il marito, un  funzionario delle dogane indagato per una tangente da trenta mila euro. Poche settimane dopo è stato il turno della responsabile dell’Agricoltura, Sonia Ricci, rinviata a giudizio a Latina per reati ambientali.
«Mi chiedo cosa sarebbe mai accaduto a Gianni Alemanno se, da sindaco, avesse avuto intorno un quadro giudiziario come quello che descrive l‘Espresso», commenta Vincenzo Piso. «Se ci fossero stati consiglieri comunali rinviati a giudizio e, addirittura, il capo di Gabinetto da anni sotto processo – nota il parlamentare e coordinatore del Pdl Lazio – Alemanno sarebbe stato incatenato a una gogna mediatica senza fine ed esposto al pubblico ludibrio. Queste vicende dimostrano, come la città si trovi sotto un giogo comunicativo, un vero e proprio gioco del silenzio, che nasconde le malefatte del centrosinistra».

L'eccidio di Codevigo: "Il mio film censurato"


da romagnanoi.it

Il regista Antonio Belluco: "Avevo trovato attori, sponsor, colonna sonora, sceneggiatura e produttore ma dopo il primo ciak sono spariti"

RAVENNA - Il regista Antonio Belluco è un padovano di 56 anni che ha lavorato in Rai dal 1983 come programmista e regista per Radio 2 e Rai 3, prima a Venezia e poi a Roma. E oggi ha un progetto cinematografico che, qualcuno - a suo dire - tenta di osteggiare: “Ho pronto un film - ‘Il Segreto’ - sull’eccidio di Codevigo, la più sanguinosa strage mai commessa nel dopoguerra dai partigiani. Un lavoro rigoroso, assemblato dopo un’accuratissima ricerca storiografica, ma dopo i primi ciak, all’improvviso tutti - dagli sponsor al produttore - si sono tirati indietro. Un dietrofront inatteso e sospetto, che mi fa pensare ad un ‘complotto’, come se qualcuno cercasse di sabotare un’opera che, forse, racconta verità storiche troppo scomode”. Le verità abrasive di una delle pagine più nere della storia italiana, una pagina ancora avvolta da tanti misteri.

Nessuno, ad esempio, ancora oggi è in grado di dire, con esattezza, quante persone morirono realmente in quella mattanza: c’è chi parla di 136 vittime, chi di 168 e chi di 365, come i giorni di quell’atroce 1945. Un documento dell’arcidiocesi di Ravenna-Cervia ipotizza addirittura 900 morti.
Don Umberto Zavattiero, a quel tempo prevosto di Codevigo, annota nel chronicon parrocchiale: “30 aprile. Previo giudizio sommario fu uccisa la maestra Corinna Doardo. Nella prima quindicina di maggio vi fu nelle ore notturne una strage di fascisti importati da fuori, particolarmente da Ravenna. Vi furono circa 130 morti”.

Ebbene, de “Il Segreto”, Belluco gira un quarto d’ora dei 105 minuti previsti dal copione, poi il progetto s’incaglia in una sequela di sventure che - a suo dire - sarebbero figlie di un unico disegno: il produttore rinuncia, i contributi ministeriali e regionali vanno in fumo, le banche ritirano i finanziamenti, i collezionisti che avevano messo a disposizione materiale bellico e costumi d’epoca si defilano, la cantante Antonella Ruggiero, dopo aver dato in un primo momento la sua disponibilità, si rifiuta d’interpretare il tema musicale, gli avvocati inviano diffide.

Le ragioni? “Ci sono state forti pressioni dall’Anpi e dai partiti di sinistra - è la sua idea - molto semplicemente, non vogliono che esca questo film”. Eppure Belluco - a suo dire - non voleva ricavarne “un’opera ideologica” o un “film processuale”, anche se così ripercorre, sulle colonne de Il Giornale, alcuni episodi salienti di quegli anni: “La 28ª Brigata Garibaldi ‘Mario Gordini’ arrivò a Codevigo il 29 aprile 1945 agli ordini di Arrigo Boldrini, detto Bulow, inquadrata nell’VIII Armata angloamericana del generale Richard McCreery. Vestiva divise inglesi, col basco fregiato di coccarda tricolore. All’epoca Bulow aveva 30 anni. L’ex parlamentare Serena nel libro ‘I giorni di Caino’ scrive che Boldrini era un comunista con alle spalle un passato di capomanipolo nell’81º Battaglione ‘Camicie nere’ di Ravenna, sua città natale. Finita la guerra, sarà deputato del Pci per sei legislature, vicepresidente della Camera e presidente dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia. Decorato dagli inglesi con medaglia d’oro al valor militare. Ma nel mio film di Bulow non parlo. Il comandante brigatista ha un nome di battaglia diverso: ‘Ramon’. Boldrini-Bulow s’è sempre difeso sostenendo che in quei giorni si muoveva fra Padova, Bologna, Milano, Venezia e Adria e mai ordinò le brutali uccisioni. Fatto sta - sostiene Belucco - che i partigiani venuti da Ravenna rastrellarono un po’ in tutto il Veneto appartenenti alle disciolte formazioni della Repubblica sociale italiana e li portarono a Codevigo. Il bilancio dei processi sommari non si discosta molto da quello dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Solo che qui non ci sono un Herbert Kappler e un Erich Priebke...”.

In ogni caso, con le luci del set già accese, il film improvvisamente si blocca e Belluco grida al complotto. Colpa - è sempre la sua idea - delle tematiche politicamente scabrose: “Le stesse - svela - che hanno indotto l’avvocato Emilio Ricci, patrocinante in Cassazione con studio a Roma, a inviarmi una raccomandata con ricevuta di ritorno in cui mi notifica che il suo assistito, Carlo Boldrini, figlio ed erede di Arrigo Boldrini, venuto a conoscenza della mia intenzione di ‘girare un film sulle tragiche vicende relative alle stragi accadute a Codevigo nella primavera del 1945, ha evidente interesse a conoscere i contenuti della trama e dell’opera, in considerazione della complessità degli accadimenti di quel periodo e delle diverse interpretazioni-storico politiche che si sono susseguite’. Motivo per cui pretendeva - prosegue il regista - una copia della sceneggiatura. L’invito perentorio mi è stato rinnovato dopo cinque mesi con una seconda raccomandata, identica alla prima. Ovviamente non gli ho spedito nulla. Del resto, non comprendo proprio da quale timore sia mosso il figlio di Boldrini, visto che nel mio film la figura del comandante Bulow, suo padre, non compare proprio”. 
Belluco non si definisce un “fascista” e neppure “uno di destra”... “Sono solo un cattolico - dice - che crede nella dottrina sociale della Chiesa, nella difesa degli ultimi”.

domenica 16 giugno 2013

Francesco Cecchin ricordato a 34 anni dalla morte a piazza Vescovio a Roma. Ma giustizia non è fatta…


da secoloditalia.it
«…e Francesco che è volato sull’asfalto di un cortile con le chiavi strette in mano, strano modo per morire…» cantava Francesco Mancinelli nella sua canzone «Generazione 1978», dedicata ai ragazzi uccisi negli anni di piombo, vittime del comandamento “uccidere un fascista non è reato”, ai tempi non solo predicato dalla sinistra ufficiale, ma purtroppo praticato dai gruppi armati dell’ultrasinistra come Potere Operaio,autore del rogo di Primavalle. A Francesco Cecchin, giovane militante romano del Fronte della Gioventù assassinato nel 1979 da persone rimaste sempre ignote, è dedicata anche un’altra bellissima canzone degli Imperium, “Sera di giugno”. I fatti, avvenuti 34 anni fa, la notte tra il 28 e il 29 maggio 1979, sono stati raccontati molte volte. Francesco era un ragazzo che aveva non ancora 18 anni e che militava nel Fronte della Gioventù di via Migiurtinia, al quartiere cosiddetto Africano, al tempo controllato quasi militarmente dal Pci e dai gruppi fiancheggiatori. Via Migiurtinia a sua volta era un circolo emanazione della sezione del Msi di viale Somalia 5, la Trieste-Salario, il cui animatore e segretario è stato per molti anni Natale Gianvenuti, oggi scomparso. Il circolo di via Migiurtinia era mal tollerato dagli intolleranti della sinistra, che sin dal giorno della sua inaugurazione provocarono scontri per impedire la sua apertura. Sì perché on quegli anni gli anticomunisti non avevano diritto a fare politica e in realtà nemmeno ad esistere. “Uccidere un fascista non è reato”, certo, ma anche “i covi fascisti si chiudono col fuoco”, e così accadde proprio per via Migiurtinia, che dopo qualche anno fu costretta alla chiusura, malgrado l’”eroismo” dei suoi militanti. E proprio questa circostanza ricordò a Francesco Cecchin un dirigente del Pci della zona, Sante Moretti, che, come lui stesso ricordò tempo dopo, disse che via Migiurtinia l’avevano chiusa e avrebbero fatto chiudere anche la Trieste Salario. Ma quella non ci sono riusciti.
Tornando a quel 1979, Francesco Cecchin aveva una piena sintonia anche con l’emergente gruppo di Terza Posizione, molto attiva nel quartiere, ma aveva confidato a Marcello De Angelis, dirigente della formazione, che non gli sembrava corretto abbandonare il Fronte per passare a Terza Posizione, pur rimanendo in ottimi rapporti. Tanto è vero che poche ore dopo il suo omicidio, effettuato, come ricorda la sorella Maria Carla, che era con lui quando fu rincorso e ucciso, da uomini adulti e non da ragazzi come lui, i militanti della Trieste Salario si rivolsero proprio a Marcello De Angelis per realizzare un manifesto, poiché sapeva disegnare e scriveva canzoni. Così, ricorda De Angelis, «a casa mia, in quattro (c’erano degli amici di Francesco della Triesta Salario), lavorammo sul manifesto che poi è diventato famoso e che è quello che termina con la frase “Lui vive, lui combatte”. C’è anche un altro particolare che vale la pena raccontare, su questo manifesto. Inizialmente sarebbe dovuto essere stampato in serigrafia alla sezione del Msi di viale Somalia, ma poi, per intervento di Gianfranco Fini, allora segretario nazionale del Fronte della Gioventù, si mise a disposizione la rotativa del Secolo d’Italia che “sfornò” quei manifesti che tutti conosciamo a migliaia e migliaia, e che ancora oggi vengono affissi nelle strade di Roma. Ricorda De Angelis: «E quella fu la prima volta che vidi una mia creazione uscire in serie da una rotativa, fu una grande emozione…». Sappiamo tutti che le indagini, come dice la stessa sentenza della magistratura, furono superficiali e peggio, e che per questo non si è riusciti a risalire agli assassini. Ma il colpevole è il clima di quei tempi, a Roma, a Milano, dappertutto in Italia, che incitava all’odio di parte e che non permetteva a chi non fosse di sinistra di esprimersi né tantomeno di avere agibilità politica.  Così, lo spazio per la libertà di parola andava conquistato: ed era quello che al Trieste Salario facevano i giovani militanti del Fronte, come ricordano oggi due attivisti di allora, Fabrizio Bruschelli e Flavio Amadio, tra i primi a giungere sul luogo dell’omicidio. «Alle sinistre dava molto fastidio quello che facevamo nel quartiere, il nostro impegno sociale, per il verde – dicono – perciò cercavano di farci tacere in tutti i imodi. Pestaggi, aggressioni, intimidazioni di ogni tipo, attentati alle nostre sedi». Proprio qualche giorno prima del suo assassinio Francesco Cecchin era stati circondato da una ventina di attivisti comunisti con cui aveva avuto una discussione per una storia di affissioni di manifesti. I giovani del Fronte li attaccavano, e i comunisti li coprivano quando non li strappavano.
Altri tempi? Non tanto, se in occasione dell’intitolazione dei giardini di piazza Vescovio a Francesco Cecchin, voluta da Gianni Alemanno, ai tempi anche lui dirigente del FdG, intitolazione avvenuta nel febbraio dello scorso anno, il Pd e l’Anpi sono insorti in modo vergognoso e incomprensibile contro un’iniziativa civile e pacificatrice. Il martire va ricordato, per loro, solo se di sinistra, altrimenti deve vigere la marxiana “damnatio memoriae”. I giardini sono stati intitolati e oggi 15 giugno centinaia di amici vecchi e nuovi di Francesco Cecchin, riuniti nel Comitato di piazza Vescovio, hanno presentato agli abitanti del quartiere la suggestiva stele di marmo che ricorda il giovane diciassettenne assassinato tanti anni fa da chi non la pensava come lui. Il Comitato ha anche intenzione di apporre vicino il monumento una piccola targa di rame con una breve spiegazione e ricordo. L’unica cosa certa è che si tratta dell’ennesimo omicidio politico senza colpevoli: la corte infatti sentenziò nelle motivazioni che Francesco non si gettò nel vuoto per fuggire, poiché tra l’altro conosceva benissimo quel cortile, ma fu picchiato e poi buttato esanime di sotto, e quella caduta di oltre quattro metri ne decretò la fine dopo 17 giorni di agonia. Una lapide lo ricorda in via Montebuono, proprio davanti al cortile dove fu buttato in quella sera di Primavera dai suoi carnefici. C’è scritto così: «Mai più ruberete la sua voce e fermerete i suoi passi. Per lui ora parla il vento. Come mare è il suo cammino. Francesco Maria Cecchin, caduto per la rivoluzione. Il popolo lo onora».

lunedì 10 giugno 2013

Inaugurata a Roma la prima “Casa del Ricordo” per i martiri delle foibe e gli esuli



da secoloditalia.it

La Casa del Ricordo, la prima d’Italia, ora ha una sede in via di San Teodoro a Roma, per non dimenticare i martiri delle foibe istriane e dell’esodo delle popolazioni giuliano-dalmate dalle loro terre nell’immediato dopoguerra. «Guai al popolo che perde pezzi di memoria», ha detto il sindaco di Roma Gianni Alemanno dopo aver tagliato il nastro inaugurale della sede. Antonio Ballarin, presidente associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ha ringraziato il sindaco dicendo che «ha mantenuto la promessa e questa Casa del Ricordo è la prima in Italia». «Se non avessimo tenuto fede al protocollo firmato sarebbe mancato qualcosa al mio primo mandato: è un obiettivo umano, non politico», ha aggiunto Alemanno. All’inaugurazione si è giunti attraverso un lungo ma proficuo impegno che ha visto coinvolta l’amministrazione capitolina e le associazioni degli esuli. L’ultimo atto per perseguire questo obiettivo si è svolto a febbraio, quando si è celebrato in Campidoglio, nell’aula di Giulio Cesare, il nono Giorno del Ricordo dei Martiri delle Foibe istriane e dell’Esodo delle popolazioni giuliano-dalmate. Nell’occasione infatti fu firmato il protocollo d’intesa cui faceva riferimento il sindaco, tra Roma Capitale e l’Anvgd (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) e la Società di Studi Fiumani, per la nascita della Casa del Ricordo. A quella cerimonia, l’ultima prima della realizzazione del museo, erano presenti, oltre al sindaco, Giorgio Marsan, vice presidente Comitato Provinciale Anvgd, Gianluigi De Palo, assessore capitolino alle Politiche della Famiglia all’Educazione e ai Giovani, Gianluigi Amleto Ballarini, presidente Società Studi Fiumani e Sergio Schürzel, esule da Rovigno d’Istria. Come si ricorderà, dopo decenni di oscuramento, il Giorno del Ricordo (10 febbraio) fu stato istituito con legge 30 marzo 2004, con l’obiettivo di conservare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe e dell’esodo degli istriani, fiumani e dalmati dalle loro terre. Da tempo le organizzazioni Anvgd (fondata nel 1947, l’associazione maggiormente rappresentativa sul territorio nazionale e della Capitale degli italiani fuggiti dall’Istria, Fiume e Dalmazia) e la Società di Studi Fiumani (nata nel 1923 e ricostituita a Roma nel 1960, proprietaria dell’Archivio Museo Storico di Fiume), hanno avviato una stretta collaborazione con l’amministrazione di Roma Capitale. Conoscenza storica della tragedia, convegni, mostre, viaggi nei luoghi della memoria e manifestazioni di commemorazione in occasione del 10 febbraio, sono i progetti su cui si è già cominciato a lavorare per onorare l’intesa.

domenica 2 giugno 2013

Amministrative. Il giorno dopo “ridono” solo i Fratelli d’Italia: tanti giovani eletti nei Comuni

da barbadillo.it
Se il Pdl e il suo candidato sindaco Alemanno hanno davvero ben poco da festeggiare, un risveglio positivo, questo del 28 maggio 2013, lo è stato di certo per Giorgia Meloni dato che – come ha dichiarato – Fratelli d’Italia, alle amministrative, ha raddoppiato i consensi delle politiche di pochi mesi fa. Se nella roccaforte di Roma il partito, sostenendo il centrodestra “tradizionale”, arriva al 6%, i risultati interessanti arrivano dai territori, considerati per certi versi periferici, dove si sono cimentati dei candidati sindaci giovanissimi, soprattutto per gli ormai senescenti standard italici.
Se a Lodi, Lombardia, Andrea Dardi, 23 anni,  conquista il 4%, raddoppiando il risultato di Fratelli d’Italia alle Politiche, addirittura a Porto Sant’Elpidio nelle Marche il ventinovenne Andrea Putzu arriva al ballottaggio, senza il Pdl e come unico candidato credibile del centrodestra. Proprio riguardo questa “carica” di giovani, il Tempo aveva dedicato un pezzo qualche giorno fa, notando che i meloniani under 40 la fanno da padrone nella lista romana e nelle candidature dei municipi, nei capoluoghi di provincia e nei comuni più piccoli. Un ricambio generazionale che è avvenuto quasi automaticamente, essendo i promotori del partito provenienti in maggioranza dalla cucciolata di Azione Giovani e che, proprio mentre il Movimento Cinque Stelle sembra esaurire il suo appeal, sembra riservare grosse sorprese.
Ora le incognite per Fdi sono molteplici e dalle prossime mosse si capirà se questo exploit potrà durare nel tempo. In primo luogo vanno valutati molto bene e con occhio critico i tentativi nostalgici di certi esponenti della ex Alleanza Nazionale che, ingolositi dai numeri, lanciano appelli alla reunion, con lenzuolate strappalacrime sui rispettivi account facebook.
Come i fratelli Gallagher insegnano, dopo essersi spaccati in testa le chitarre, è difficile tornare insieme, se non per interessi di basso portafoglio. In seconda battuta, va spesa moltissima energia nella strutturazione del partito, ricercando in giro per l’Italia i vari Dardi e i vari Putzu che, l’anno prossimo, saranno disponibili a cimentarsi nella tornata delle Amministrative e alle Europee.

Si cresce!