da ilgiornaleoff.ilgiornale.it
«Sei
 libero domenica 7 febbraio? Mi piacerebbe averti con me a Verona per le
 celebrazioni del Giorno del Ricordo. Parlerà mia mamma». 
Il tono di Smaila, sempre un po’ scherzoso, aveva qualcosa di perentorio e ho risposto subito di sì.
E’
 stata una buona scelta, ho avuto l’occasione di stare con lui in auto 
un paio d’ore, il tempo di andare a Verona da Milano e ritorno, e ho 
avuto modo di parlarci a lungo, soprattutto toccando il tema della sua 
fiumanità, i ricordi legati a Fiume, quella che, per lui nato a Verona, è
 la sua seconda città. Una chiacchierata in dialetto (io sono di 
Gorizia) e Smaila ha tenuto a sottolineare che a casa si è sempre 
parlato dialetto fiumano (i veri fiumani dicono ja per dire sì, retaggio dell’Austria-Ungheria, mentre i croati dicono da), era un modo per rimanere con le radici in Istria e per potersi intendere con i rimasti, i parenti che non se la sono sentita di abbandonare case, beni e attività per venire a vivere in Italia. Ognuno aveva le sue buone ragioni, ma per lungo tempo i rimasti sono stati visti dagli esuli come dei traditori.
 Oggi il tema dei rimasti è molto vivo e le associazioni degli esuli 
hanno riallacciato buoni contatti con le Comunità Italiane delle varie 
città dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.
Come
 si viene a scoprire poco a poco, Fiume, pur facendo parte dell’Istria, è
 proprio sul confine tra Istria e Dalmazia e i fiumani si sono sempre 
sentiti, e lo sono veramente, un’altra cosa rispetto all’Istria e alla 
Dalmazia. Fiume era il porto più importante dell’Adriatico, più di 
Trieste, ed era di fatto lo sbocco al mare dell’Ungheria. Un’importante 
linea ferroviaria collegava direttamente Fiume a Budapest e qui vivevano
 molte famiglie ungheresi importanti, proprietarie delle più belle ville
 di Abbazia. Fiume, come ricorda Smaila, era una vera città colta, 
evoluta, multi-etnica e multi-culturale nel vero senso della parola. 
Grazie all’amministrazione austro-ungarica, l’integrazione non era 
forzata e naturalmente ogni gruppo etnico aveva le sue chiese e seguiva i
 propri ritmi e le proprie tradizioni, il tutto con un’armonia che oggi, in pieno periodo di globalizzazione, è veramente difficile vedere. 
Passato l’impero austro-ungarico, a Fiume venne il periodo di 
d’Annunzio e dei suoi legionari, che sbloccarono la questione fiumana 
con un atto di forza, facendo di Fiume una città completamente libera (e
 qualcuno aggiunge anche dissoluta…). Poi arrivò il governo italiano, i 
fascisti con l’italianizzazione forzata dei cognomi, poi i tedeschi con 
l’occupazione di quasi due anni, poi i partigiani titini e infine la 
Federazione Jugoslava. Tutti questi cambiamenti avvennero in meno di 
trent’anni.
La
 famiglia Smaila, dopo l’esodo, si stabilì in un primo tempo a Lucca e 
successivamente a Verona, dove, nel 1950, nacque Umberto. Si erano 
ambientati bene a Verona, ma il cuore batteva forte per Fiume e, già nel
 1952, la famiglia Smaila cominciò a passare il confine per andare a 
trovare i parenti rimasti: genitori, sorelle, fratelli, zii e cugini. I 
primi anni in treno e dal 1956 con una fiammante Fiat 600, un’auto 
rivoluzionaria per l’epoca. A quel tempo non c’era l’autostrada e il 
viaggio era lungo e impegnativo. Soprattutto il passaggio al confine era
 qualcosa di traumatico, con il controllo certosino di tutto il bagaglio
 trasportato.  
Molti esuli avevano chiuso con l’Istria, non 
volevano più tornare a vedere com’erano diventate quelle terre da sempre
 considerate italiane. Molti invece, soprattutto spinti dalla presenza 
dei parenti rimasti, compivano annuali pellegrinaggi nelle loro terre 
d’origine.
Su
 come avvenivano questi viaggi da Verona a Fiume in 600, Umberto Smaila 
ha fatto un pezzo di cabaret durante la manifestazione di Verona, 
intrecciando ricordi e battute, ma al tempo stesso presentando concetti e
 sentimenti che sono quelli comuni a tutti gli esuli dal confine 
orientali, per intenderci quelli che hanno pagato interamente il debito 
di guerra di tutta l’Italia nei confronti della Jugoslavia, 125 milioni 
di dollari del tempo. Non sono mai stati risarciti dallo Stato italiano 
(si calcola che finora lo Stato ha restituito loro al massimo il 5%).
«Comunque
 fin dall’adolescenza avevo capito in cosa consisteva il paradiso 
socialista incarnato nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia» spiega Umberto. «C’erano
 code dappertutto, in particolare per i generi alimentari. Spesso, 
quando arrivava il tuo turno, la merce era finita e tornavi a casa con 
poco o niente. Per questo quando partivamo per le vacanze estive, 
rigorosamente a Fiume, portavamo un bel po’ di roba, dalla pasta al 
caffè, dal formaggio grana all’olio di oliva. Molti prodotti non 
esistevano nei negozi e per i nostri parenti il nostro arrivo era una 
festa. Le vacanze a Fiume erano caratterizzate da un’ottima cucina» ricorda ancora Smaila. «La
 nonna Anna (mamma di mio papà Guerrino, aveva fatto le scuole ungheresi
 e parlava correttamente il magiaro) a 90 anni si faceva tutta la via 
Monte Grappa per andare al mercato a prendere il pesce fresco per me. La
 nostra via era ripida e io ancora oggi mi chiedo come faceva a 
quell’età a percorrerla senza sforzo apparente. 
La famiglia di mia 
madre, Giuseppina detta Mery Nacinovich, aveva uno stabile con trattoria
 sottostante (confiscato tutto dai titini) in via Trieste, dove alla zia
 Nina avevano lasciato in uso un piccolo appartamento. Qualche volta 
andavo a dormire da lei e sentivo giù nei giardinetti suonare la 
fisarmonica con ballate popolari».
Riguardo alla cucina, Umberto Smaila ha ricordi affettuosi, limpidi e dettagliati. «Tutte
 le mie zie facevano a gara per farmi mangiare e penso sempre ai molti 
piatti prelibati che mi preparavano: le paprike impinide (d’inverno 
capuzzi impinidi), brodetto di seppie con polenta e un risotto con 
scampi e sugo di pomodoro, veramente eccezionale. La zia Ninetta era la 
specialista in goulasch. Gli anni passavano e mangiare mi 
piaceva sempre. Quando diventai più indipendente, alla fine della 
vacanza mi recavo da solo in una griglieria, a Susak (un sobborgo di 
Fiume) e mi ordinavo una doppia razione di rasnici e di civapcici, 
investendo in un colpo solo i 500 dinari che avevo messo da parte. Era 
il mio modo di salutare le mie terre».
La memoria di Umberto non smette di offrire racconti e aneddoti legati alle sue solide radici istriane. «Finita
 la prima liceo classico, i miei genitori mi regalarono una Lambretta e 
per un po’ di tempo d’estate andavo a Fiume in Lambretta, seguendo la 
1100 del papà (un’auto più grande e comoda che aveva sostituito la 
mitica 600). Con quello scooter mi sono divertito alla grande, di sera 
con mio cugino coprivamo i 10 km che separano Fiume da Abbazia per 
andare a ballare e al ritorno faceva così freddo che ci lacrimavano gli 
occhi. Ricordo che una volta mi ero portato a Fiume una fonovaligia 
Europhon con un filo elettrico di 100 metri, avevo installato il tutto a
 casa di un’amica e dall’ultimo piano mettevamo le canzoni dei Beatles e
 ballavamo nei giardinetti sotto casa.  
Per Fiume era una cosa 
mai vista prima. Fascino e potenza della cultura occidentale, negli anni
 1964/1966 si sentivano solo musiche dei Beatles e tutti volevano 
vestire i jeans, che compravano negli empori di Trieste. Io 
stesso portavo ai miei cugini jeans ogni volta che arrivavo a Fiume. 
Nonostante il regime di Tito non vedesse di buon occhio questa apertura,
 l’esigenza dei giovani locali di sentirsi uguali ai ragazzi che 
vivevano all’Ovest era un fiume in piena che non si poteva più 
contenere. Insieme a mio cugino Paolo ci davamo un gran daffare per 
movimentare l’estate dei nostri coetanei fiumani. Di giorno si andava 
con il trolleybus a Cantrida, dove al Bagno Riviera avevamo a 
disposizione dei tampolini per i tuffi. Il bagno era quello frequentato 
dai rimasti, mentre i croati frequentavano un altro stabilimento. Lì si 
parlava italiano, cioè dialetto fiuman».
Nel
 fluire dei ricordi di Umberto Smaila, siamo nel frattempo arrivati a 
Verona dove ha inizio la celebrazione del Giorno del Ricordo. 
La mamma di Umberto è fresca di parrucchiere e un po’ agitata per quello
 che dirà dal palco ai suoi concittadini veronesi, molti dei quali di 
origine fiumana. La mamma è personaggio di spicco a Verona e viene 
sempre intervistata come testimone vivente della tragedia del confine 
orientale. Presto darà alle stampe le sue memorie di fiumana e di esule. 
«Mia mamma – commenta Smaila – è sempre stata legata al tricolore, ai valori italiani.
 Mio papà era più legato a Fiume e al movimento autonomista di Riccardo 
Zanella, che voleva lo Stato Libero di Fiume. Infatti mia mamma ha 
sempre detto mi son italiana, mentre mio papà diceva mi son fiuman. Io come la penso? Sono orgoglioso di essere di quelle terre e di avere entrambi i genitori fiumani».
La celebrazione volge al termine e si riprende la strada di casa. La conversazione prosegue toccando anche la politica. «Io
 ero critico col regime jugoslavo, ma vivevo un momento spensierato 
della mia vita e non volevo essere causa di discussioni in famiglia, 
quando eravamo a Fiume. Lì si evitava di discutere di politica, si 
parlava più che altro di famiglia e di ricordi. Invece i figli di mio 
zio Mario fra di loro avevano accese discussioni per motivi politici, io
 mi tenevo volutamente fuori da quel contesto, mi limitavo a osservare.  
E’ incredibile come la guerra ha cambiato i destini di una famiglia:
 io avevo tre zii, cognati di mia madre, che hanno avuto tre cognomi 
diversi. Il primo, lo zio Romano Bradicich, partì in camicia nera alla 
conquista dell’Abissinia e si fece ben 11 anni di prigionia sotto gli 
inglesi, ha vissuto anche lui a Verona. Suo fratello Anselmo era andato a
 fare il comandante delle navi da crociera a Genova e aveva cambiato il 
cognome in Bradini, non volendo avere più niente a che fare con le terre
 natìe. L’ultimo fratello, un comunista in buona fede, era andato 
partigiano, era rimasto in Jugoslavia e il suo cognome era Bradicic, 
alla croata. Ci sarebbe da fare un film su una storia così».
Siamo quasi a Milano e la nostra conversazione arriva al dunque. «Guarda, la nostra storia non interessa a nessuno in Italia.
 Negli ultimi tempi, grazie al Giorno del Ricordo e alle altre 
iniziative che sono sorte (penso allo spettacolo Magazzino 18 di Simone 
Cristicchi che ha aperto gli occhi ad almeno un milione di persone) si è
 incominciato a fare un po’ di luce sulla tragedia degli esuli e 
sull’orrore delle foibe.  
In Italia c’è una visione camaleontica della storia,
 basti pensare alla lapide che c’è alla stazione di Bologna per 
ricordare il passaggio del treno dei profughi dall’Istria, quando 
attivisti comunisti buttarono sui binari i panini e il latte per i 
bambini preparato da organizzazioni caritatevoli. Su quella lapide c’è 
scritto che ci furono incomprensioni. Finchè quella parte 
politica che ha sempre visto i profughi come fascisti, per il solo torto
 di aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito, non capirà di 
avere completamente sbagliato le sue considerazioni, non si potranno 
fare passi in avanti.
E quella lapide è lo specchio di come stanno le cose. Si
 celebra l’epopea partigiana come ricetta salvifica per l’Italia, 
dimenticando un po’ troppo spesso che senza l’aiuto americano non si 
sarebbero potuti cogliere i risultati raggiunti. Qui tutti 
hanno la memoria corta, se si pensa che fino a poco tempo fa era una 
prassi quella di bruciare bandiere americane in certe manifestazioni di 
piazza; fortunatamente ora questi episodi sono più rari ma bisogna 
continuare a restringere sempre più gli spazi a certi inutili e idioti 
estremismi.  
Per i nostri morti sono sempre stati utilizzati due 
pesi e due misure, gli infoibati ammazzati dai comunisti titini non 
hanno mai avuto la stessa considerazione di cui hanno goduto gli ebrei 
ammazzati dai nazisti nei campi di concentramento. Per 
questioni di real-politik, comunisti e democristiani hanno fatto a gara 
nel tentativo di seppellire tutta la vicenda delle terre perdute in 
Istria e Dalmazia, escludendo questa parte di storia italiana dai libri 
di storia delle scuole, facendone divieto di parlarne in pubblico. 
Gli 
unici che parlarono di quelle vicende furono i partiti di destra, che 
spesso lo fecero per ottenere dei vantaggi elettorali, con questo però 
dando poi ragione a chi sosteneva che gli esuli e i profughi erano tutti
 fascisti. E’ come un cane che si morde la coda, sembra che non ne 
verremo mai fuori, ma la Giornata del Ricordo, le testimonianze sempre 
più diffuse e i passi compiuti finalmente da certi politici verso la 
verità storica tengono accesa la mia speranza e quella di tanti esuli di
 essere considerati perseguitati alla pari con gli altri.  
Coloro
 che lasciarono quelle terre per me sono degli eroi, soprattutto per 
quanto hanno subito dopo il rientro in Italia e sono italiani due volte,
 la prima per nascita e la seconda per scelta».
