mercoledì 17 febbraio 2016

Smaila: “In Italia, due pesi e due misure. Delle Foibe non interessa a nessuno”


da ilgiornaleoff.ilgiornale.it
 
«Sei libero domenica 7 febbraio? Mi piacerebbe averti con me a Verona per le celebrazioni del Giorno del Ricordo. Parlerà mia mamma». 

Il tono di Smaila, sempre un po’ scherzoso, aveva qualcosa di perentorio e ho risposto subito di sì.
E’ stata una buona scelta, ho avuto l’occasione di stare con lui in auto un paio d’ore, il tempo di andare a Verona da Milano e ritorno, e ho avuto modo di parlarci a lungo, soprattutto toccando il tema della sua fiumanità, i ricordi legati a Fiume, quella che, per lui nato a Verona, è la sua seconda città. Una chiacchierata in dialetto (io sono di Gorizia) e Smaila ha tenuto a sottolineare che a casa si è sempre parlato dialetto fiumano (i veri fiumani dicono ja per dire sì, retaggio dell’Austria-Ungheria, mentre i croati dicono da), era un modo per rimanere con le radici in Istria e per potersi intendere con i rimasti, i parenti che non se la sono sentita di abbandonare case, beni e attività per venire a vivere in Italia. Ognuno aveva le sue buone ragioni, ma per lungo tempo i rimasti sono stati visti dagli esuli come dei traditori. Oggi il tema dei rimasti è molto vivo e le associazioni degli esuli hanno riallacciato buoni contatti con le Comunità Italiane delle varie città dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.

Come si viene a scoprire poco a poco, Fiume, pur facendo parte dell’Istria, è proprio sul confine tra Istria e Dalmazia e i fiumani si sono sempre sentiti, e lo sono veramente, un’altra cosa rispetto all’Istria e alla Dalmazia. Fiume era il porto più importante dell’Adriatico, più di Trieste, ed era di fatto lo sbocco al mare dell’Ungheria. Un’importante linea ferroviaria collegava direttamente Fiume a Budapest e qui vivevano molte famiglie ungheresi importanti, proprietarie delle più belle ville di Abbazia. Fiume, come ricorda Smaila, era una vera città colta, evoluta, multi-etnica e multi-culturale nel vero senso della parola. Grazie all’amministrazione austro-ungarica, l’integrazione non era forzata e naturalmente ogni gruppo etnico aveva le sue chiese e seguiva i propri ritmi e le proprie tradizioni, il tutto con un’armonia che oggi, in pieno periodo di globalizzazione, è veramente difficile vedere
Passato l’impero austro-ungarico, a Fiume venne il periodo di d’Annunzio e dei suoi legionari, che sbloccarono la questione fiumana con un atto di forza, facendo di Fiume una città completamente libera (e qualcuno aggiunge anche dissoluta…). Poi arrivò il governo italiano, i fascisti con l’italianizzazione forzata dei cognomi, poi i tedeschi con l’occupazione di quasi due anni, poi i partigiani titini e infine la Federazione Jugoslava. Tutti questi cambiamenti avvennero in meno di trent’anni.

La famiglia Smaila, dopo l’esodo, si stabilì in un primo tempo a Lucca e successivamente a Verona, dove, nel 1950, nacque Umberto. Si erano ambientati bene a Verona, ma il cuore batteva forte per Fiume e, già nel 1952, la famiglia Smaila cominciò a passare il confine per andare a trovare i parenti rimasti: genitori, sorelle, fratelli, zii e cugini. I primi anni in treno e dal 1956 con una fiammante Fiat 600, un’auto rivoluzionaria per l’epoca. A quel tempo non c’era l’autostrada e il viaggio era lungo e impegnativo. Soprattutto il passaggio al confine era qualcosa di traumatico, con il controllo certosino di tutto il bagaglio trasportato.  

Molti esuli avevano chiuso con l’Istria, non volevano più tornare a vedere com’erano diventate quelle terre da sempre considerate italiane. Molti invece, soprattutto spinti dalla presenza dei parenti rimasti, compivano annuali pellegrinaggi nelle loro terre d’origine.

Su come avvenivano questi viaggi da Verona a Fiume in 600, Umberto Smaila ha fatto un pezzo di cabaret durante la manifestazione di Verona, intrecciando ricordi e battute, ma al tempo stesso presentando concetti e sentimenti che sono quelli comuni a tutti gli esuli dal confine orientali, per intenderci quelli che hanno pagato interamente il debito di guerra di tutta l’Italia nei confronti della Jugoslavia, 125 milioni di dollari del tempo. Non sono mai stati risarciti dallo Stato italiano (si calcola che finora lo Stato ha restituito loro al massimo il 5%).

«Comunque fin dall’adolescenza avevo capito in cosa consisteva il paradiso socialista incarnato nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia» spiega Umberto. «C’erano code dappertutto, in particolare per i generi alimentari. Spesso, quando arrivava il tuo turno, la merce era finita e tornavi a casa con poco o niente. Per questo quando partivamo per le vacanze estive, rigorosamente a Fiume, portavamo un bel po’ di roba, dalla pasta al caffè, dal formaggio grana all’olio di oliva. Molti prodotti non esistevano nei negozi e per i nostri parenti il nostro arrivo era una festa. Le vacanze a Fiume erano caratterizzate da un’ottima cucina» ricorda ancora Smaila. «La nonna Anna (mamma di mio papà Guerrino, aveva fatto le scuole ungheresi e parlava correttamente il magiaro) a 90 anni si faceva tutta la via Monte Grappa per andare al mercato a prendere il pesce fresco per me. La nostra via era ripida e io ancora oggi mi chiedo come faceva a quell’età a percorrerla senza sforzo apparente. 
La famiglia di mia madre, Giuseppina detta Mery Nacinovich, aveva uno stabile con trattoria sottostante (confiscato tutto dai titini) in via Trieste, dove alla zia Nina avevano lasciato in uso un piccolo appartamento. Qualche volta andavo a dormire da lei e sentivo giù nei giardinetti suonare la fisarmonica con ballate popolari».

Riguardo alla cucina, Umberto Smaila ha ricordi affettuosi, limpidi e dettagliati. «Tutte le mie zie facevano a gara per farmi mangiare e penso sempre ai molti piatti prelibati che mi preparavano: le paprike impinide (d’inverno capuzzi impinidi), brodetto di seppie con polenta e un risotto con scampi e sugo di pomodoro, veramente eccezionale. La zia Ninetta era la specialista in goulasch. Gli anni passavano e mangiare mi piaceva sempre. Quando diventai più indipendente, alla fine della vacanza mi recavo da solo in una griglieria, a Susak (un sobborgo di Fiume) e mi ordinavo una doppia razione di rasnici e di civapcici, investendo in un colpo solo i 500 dinari che avevo messo da parte. Era il mio modo di salutare le mie terre».

La memoria di Umberto non smette di offrire racconti e aneddoti legati alle sue solide radici istriane. «Finita la prima liceo classico, i miei genitori mi regalarono una Lambretta e per un po’ di tempo d’estate andavo a Fiume in Lambretta, seguendo la 1100 del papà (un’auto più grande e comoda che aveva sostituito la mitica 600). Con quello scooter mi sono divertito alla grande, di sera con mio cugino coprivamo i 10 km che separano Fiume da Abbazia per andare a ballare e al ritorno faceva così freddo che ci lacrimavano gli occhi. Ricordo che una volta mi ero portato a Fiume una fonovaligia Europhon con un filo elettrico di 100 metri, avevo installato il tutto a casa di un’amica e dall’ultimo piano mettevamo le canzoni dei Beatles e ballavamo nei giardinetti sotto casa.  

Per Fiume era una cosa mai vista prima. Fascino e potenza della cultura occidentale, negli anni 1964/1966 si sentivano solo musiche dei Beatles e tutti volevano vestire i jeans, che compravano negli empori di Trieste. Io stesso portavo ai miei cugini jeans ogni volta che arrivavo a Fiume. Nonostante il regime di Tito non vedesse di buon occhio questa apertura, l’esigenza dei giovani locali di sentirsi uguali ai ragazzi che vivevano all’Ovest era un fiume in piena che non si poteva più contenere. Insieme a mio cugino Paolo ci davamo un gran daffare per movimentare l’estate dei nostri coetanei fiumani. Di giorno si andava con il trolleybus a Cantrida, dove al Bagno Riviera avevamo a disposizione dei tampolini per i tuffi. Il bagno era quello frequentato dai rimasti, mentre i croati frequentavano un altro stabilimento. Lì si parlava italiano, cioè dialetto fiuman».

Nel fluire dei ricordi di Umberto Smaila, siamo nel frattempo arrivati a Verona dove ha inizio la celebrazione del Giorno del Ricordo. La mamma di Umberto è fresca di parrucchiere e un po’ agitata per quello che dirà dal palco ai suoi concittadini veronesi, molti dei quali di origine fiumana. La mamma è personaggio di spicco a Verona e viene sempre intervistata come testimone vivente della tragedia del confine orientale. Presto darà alle stampe le sue memorie di fiumana e di esule. 
«Mia mamma – commenta Smaila – è sempre stata legata al tricolore, ai valori italiani. Mio papà era più legato a Fiume e al movimento autonomista di Riccardo Zanella, che voleva lo Stato Libero di Fiume. Infatti mia mamma ha sempre detto mi son italiana, mentre mio papà diceva mi son fiuman. Io come la penso? Sono orgoglioso di essere di quelle terre e di avere entrambi i genitori fiumani».

La celebrazione volge al termine e si riprende la strada di casa. La conversazione prosegue toccando anche la politica. «Io ero critico col regime jugoslavo, ma vivevo un momento spensierato della mia vita e non volevo essere causa di discussioni in famiglia, quando eravamo a Fiume. Lì si evitava di discutere di politica, si parlava più che altro di famiglia e di ricordi. Invece i figli di mio zio Mario fra di loro avevano accese discussioni per motivi politici, io mi tenevo volutamente fuori da quel contesto, mi limitavo a osservare.  

E’ incredibile come la guerra ha cambiato i destini di una famiglia: io avevo tre zii, cognati di mia madre, che hanno avuto tre cognomi diversi. Il primo, lo zio Romano Bradicich, partì in camicia nera alla conquista dell’Abissinia e si fece ben 11 anni di prigionia sotto gli inglesi, ha vissuto anche lui a Verona. Suo fratello Anselmo era andato a fare il comandante delle navi da crociera a Genova e aveva cambiato il cognome in Bradini, non volendo avere più niente a che fare con le terre natìe. L’ultimo fratello, un comunista in buona fede, era andato partigiano, era rimasto in Jugoslavia e il suo cognome era Bradicic, alla croata. Ci sarebbe da fare un film su una storia così».

Siamo quasi a Milano e la nostra conversazione arriva al dunque. «Guarda, la nostra storia non interessa a nessuno in Italia. Negli ultimi tempi, grazie al Giorno del Ricordo e alle altre iniziative che sono sorte (penso allo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi che ha aperto gli occhi ad almeno un milione di persone) si è incominciato a fare un po’ di luce sulla tragedia degli esuli e sull’orrore delle foibe.  

In Italia c’è una visione camaleontica della storia, basti pensare alla lapide che c’è alla stazione di Bologna per ricordare il passaggio del treno dei profughi dall’Istria, quando attivisti comunisti buttarono sui binari i panini e il latte per i bambini preparato da organizzazioni caritatevoli. Su quella lapide c’è scritto che ci furono incomprensioni. Finchè quella parte politica che ha sempre visto i profughi come fascisti, per il solo torto di aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito, non capirà di avere completamente sbagliato le sue considerazioni, non si potranno fare passi in avanti.

E quella lapide è lo specchio di come stanno le cose. Si celebra l’epopea partigiana come ricetta salvifica per l’Italia, dimenticando un po’ troppo spesso che senza l’aiuto americano non si sarebbero potuti cogliere i risultati raggiunti. Qui tutti hanno la memoria corta, se si pensa che fino a poco tempo fa era una prassi quella di bruciare bandiere americane in certe manifestazioni di piazza; fortunatamente ora questi episodi sono più rari ma bisogna continuare a restringere sempre più gli spazi a certi inutili e idioti estremismi.  

Per i nostri morti sono sempre stati utilizzati due pesi e due misure, gli infoibati ammazzati dai comunisti titini non hanno mai avuto la stessa considerazione di cui hanno goduto gli ebrei ammazzati dai nazisti nei campi di concentramento. Per questioni di real-politik, comunisti e democristiani hanno fatto a gara nel tentativo di seppellire tutta la vicenda delle terre perdute in Istria e Dalmazia, escludendo questa parte di storia italiana dai libri di storia delle scuole, facendone divieto di parlarne in pubblico. 

Gli unici che parlarono di quelle vicende furono i partiti di destra, che spesso lo fecero per ottenere dei vantaggi elettorali, con questo però dando poi ragione a chi sosteneva che gli esuli e i profughi erano tutti fascisti. E’ come un cane che si morde la coda, sembra che non ne verremo mai fuori, ma la Giornata del Ricordo, le testimonianze sempre più diffuse e i passi compiuti finalmente da certi politici verso la verità storica tengono accesa la mia speranza e quella di tanti esuli di essere considerati perseguitati alla pari con gli altri.  

Coloro che lasciarono quelle terre per me sono degli eroi, soprattutto per quanto hanno subito dopo il rientro in Italia e sono italiani due volte, la prima per nascita e la seconda per scelta».