da opinione.it
È un mediano. Un interdittore. Fabio Rampelli si racconta a
“L’Opinione” ripercorrendo il suo passato. Questo ritratto parte dai
primi anni vissuti in politica. I ricordi delle scuole medie e poi del
liceo sono ancora chiari e stampati nella sua mente. Erano gli anni
Settanta e Roma era teatro di un duro scontro, anche fisico, tra
comunisti e neofascisti. Lui ha sempre detto no alla violenza. E ora, in
Fratelli d’Italia, si prepara ad affrontare senza rinnegare nulla la
campagna elettorale per le elezioni politiche del 2018.
In che anno ha iniziato a fare politica? E dove?
Il mio primo approccio risale alla scuola media sperimentale
“Petrocchi” nel quartiere Appio-Tuscolano di Roma. Proprio vicino al
Liceo classico “Augusto”, territorio di confine tra il circolo del
Fronte della Gioventù (di destra) e le sezioni politiche di sinistra. Un
quartiere spaccato. Gli scontri tra i militanti della destra giovanile e
gli attivisti del Partito comunista erano all’ordine del giorno. Noi
della scuola media, nonostante la tenera età, dovevamo prendere parte,
almeno come tifosi: scegliemmo il Fronte della Gioventù, almeno nella
mia classe. Avevamo appena 13 anni e si trattava solo dei primi sintomi.
Era il 1973. L’inizio vero e proprio dell’attività politica risale,
però, agli anni del liceo. I miei genitori per evitare problemi e
tutelare la mia incolumità, proprio per i confronti spesso violenti che
si creavano nel quartiere, mi spedirono al Liceo scientifico “Righi”, un
liceo che aveva la fama di essere “tranquillo”, ma gli anni Settanta
non lo risparmiarono. Erano inconsapevoli che distasse appena 500 metri
dal rosso “Tasso”. E fu così che, probabilmente per reazione a quella
presenza, nel “Righi” iniziò a prendere forma una presenza di studenti
di destra. La tensione si fece alta, il clima micidiale.
Come è cambiato, da allora, il modo di conquistare il consenso dei cittadini e di combattere le proprie battaglie politiche?
È cambiato in modo radicale. Fortunatamente si è potuto gettare alle
spalle l’uso della forza. Per noi di destra era una continua violenza,
sia morale che fisica, subita quotidianamente. Un incubo. Io ero
terrorizzato ogni volta che uscivo di casa o che ci tornavo. Il
passaggio decisivo la destra lo compì quando si mise in testa di
rientrare all’Università “La Sapienza” dopo la “cacciata” del 1968, ma
stavolta in modo definitivo dopo tanti approcci estemporanei e
transitori. Decidemmo di non accettare più le provocazioni dei
collettivi, di non rispondere mai agli agguati, rischiando spesso la
nostra incolumità, un vero e proprio approccio gandhiano adottato dal
nostro Movimento, “Fare Fronte per il Contropotere Studentesco”:
rispondere alle aggressioni con la goliardia e l’ironia, cercando di
ridicolizzare gli estremisti di sinistra. Loro continuavano con la
violenza, ma pian piano iniziarono a isolarsi, perfino la sinistra
“ortodossa” gli voltò le spalle e per noi fu un gioco da ragazzi. È così
che ci siamo conquistati la possibilità di fare assemblee, gestire
servizi per gli studenti, organizzare incontri culturali con i nostri
intellettuali di area. Il tutto era orientato a tentare di rispondere
allo scontro degli anni Settanta con la cultura dell’incontro, il
confronto civile tra diverse sensibilità. Chiamavamo questa
“rivoluzione” copernicana “Comunità studentesca” e lo strumento per
costruirla “logica del superamento”.
Come ricorda l’esperienza di Alleanza Nazionale? Più i lati positivi o le occasioni mancate?
Alleanza Nazionale è stata una bellissima scommessa, ma persa. C’era
l’idea affascinante di superare il neofascismo, di proiettare la destra
verso il futuro, di renderla un movimento politico moderno ed europeo.
Di farla tornare fuori dalle secche delle ideologie del Novecento.
Questa la parte positiva che non mi sento affatto di rinnegare. Ma
l’applicazione si è rivelata devastante. Si è iniziato a prendere le
brutte abitudini della peggiore partitocrazia della Prima Repubblica:
tatticismo, arroganza, uso spregiudicato del potere, correnti. È mancata
la giusta chiave di lettura per mantenere alta la tensione ideale e
morale, capace di rappresentarsi con una rettitudine esemplare nel
governo della cosa pubblica. Poi non è possibile non parlare della
decisione di Gianfranco Fini di entrare nel Pdl, mandando anni di lotte e
di storia in malora. Noi eravamo presenti, ma ininfluenti, nessuno può
rimproverarci quella scelta. E in ogni caso se la tensione morale e la
capacità organizzativa della destra si fossero manifestate nel leader
dell’epoca, anche il PdL poteva essere uno strumento idoneo... Ma
c’erano altri interessi in gioco e tutto è finito con la casa di
Montecarlo e i rapporti con il signor Corallo. Uno schifo.
C’è qualcosa che non rifarebbe?
Tutto quello che è accaduto prima di Alleanza Nazionale io lo
rifarei. È stato un percorso lineare. Non ho mai accettato la logica
dello scontro e quindi ho costruito, attraverso la comunità politica di
cui sono espressione, il nostro presente. Ho avuto la forza di
ribellarmi alle catastrofi di An e del Pdl. E con Giorgia Meloni abbiamo
dato vita alla scommessa di Fratelli d’Italia.
Il Rampelli degli inizi è molto diverso dal Rampelli di oggi?
Nella carriera politica mi ci sono trovato per sbaglio. Avevo
studiato, sono abilitato a svolgere la professione di architetto, che ho
anche iniziato a praticare con soddisfazione, da disegnatore e poi da
progettista, avevo altre prospettive. Ma nel 1993 esplose “Tangentopoli”
e la destra ebbe l’immediato bisogno di candidare, al fianco di una
classe dirigente che aveva dimostrato grande stoffa, tanta altra gente
di diversa natura e provenienza. Ecco che prende forma, tra giovani che
detestavano le istituzioni, credevano poco nella democrazia
rappresentativa e avevano anche un pessimo rapporto con il Movimento
sociale italiano, il desiderio di irrompere nei palazzi del potere per
portarvi uno spirito nuovo. Vivemmo quella fase come fosse quasi un
“assalto” alla cittadella del male. Bandimmo i “faccioni” sui manifesti
in campagna elettorale e varammo la prima volta di una propaganda senza
volti, tutti sintetizzati dal simbolo del gabbiano Jonathan Livingston,
per un’esperienza quasi mitologica. Scegliemmo quell’immagine perché era
quella con la quale per oltre dieci anni ricordammo Stefano Recchioni,
militante di Colle Oppio ucciso nella Strage di Acca Larentia il 7
gennaio del 1978. Un po’ desideravamo portare i nostri ragazzi con noi,
un po’ volevamo che ci proteggessero in quell’avventura “pericolosa”.
Come descriverebbe, finora, l’esperienza di Fratelli d’Italia?
La definirei un “capriccio” della politica italiana. Un impulso
fondamentalmente irrazionale che si lega a una cultura politica
millenaria. E che annoda insieme le tradizioni più profonde dei popoli,
le identità e le culture che hanno permesso la costruzione della civiltà
occidentale. Lo spirito solidaristico. Le capacità di mettere insieme
tanti diversi per fare sintesi come ci insegnano gli antichi Romani.
Mettere insieme questa roba in un partito non può essere che un
capriccio. Poi i partiti, come diceva Robert Michels, nascono per
rivoluzionare il mondo e affermare i propri principi, per poi ritrovarsi
a esistere per preservare se stessi. È la storia dei partiti della
Prima e della Seconda Repubblica. Fratelli d’Italia non ha ancora
conosciuto questa fase e speriamo non la conosca mai.
Come vede la candidatura di Giorgia Meloni alla leadership del centrodestra?
Giorgia Meloni è uno dei leader del centrodestra. Quindi non si
tratta di dare un giudizio dall’esterno. È nei fatti. Il suo indice di
gradimento è elevatissimo. Probabilmente si tratta dell’unico leader del
centrodestra capace di superare il proprio campo intercettando adesioni
in tutti gli schieramenti. E penso che sia il perfetto punto di
incontro di diversi elementi: proviene da un quartiere popolare, è stata
la prima leader nazionale donna di un movimento giovanile, è preparata e
ha profondità. Il fatto che abbia conservato la capacità di essere
sempre autentica la fa molto apprezzare dalla gente, abituata a
politicanti che non dicono mai la verità o che nascondono le proprie
opinioni quando le ritengono scomode. È capace di essere mamma e
militante: dolce e determinata. Ingredienti imprescindibili per una
leadership.
Gira voce che a Roma il vero leader sia lei, è vero?
Penso di aver dimostrato quello che volevo realizzare con la mia
militanza e non credo ci sia bisogno di appellativi. Non sono il leader
di Roma, sono una persona che ha sempre combattuto con schiettezza e
limpidezza per affermare i propri valori. Giorgia è romana come me e ha
“numeri” davvero importanti e quindi, se ci dobbiamo attenere alla
definizione scelta per questa domanda, la leader è lei, anche la leader
romana. Io mi sento riferimento per un progetto di trasformazione della
società e Giorgia Meloni è l’alfiere indiscusso di questo progetto.
Quanto spesso la Meloni viene da lei per un confronto? Magari per chiederle un consiglio…
Quando la politica è sana, tutti vanno da tutti. Ci si confronta
sulle principali scelte, solo nei “partiti-azienda” o in quelli
“ereditari” c’è uno solo al comando che come si sveglia la mattina
prende decisioni e le propina ai sudditi. Giorgia viene da me molte meno
volte di quanto io non vada da lei.
Lei è raramente sulle prime pagine dei giornali, eppure
sembra che nella Capitale sia una potenza in quanto a potere decisionale
su nomine e strategie…
Non sono una potenza, già l’ho detto. Questa suggestione rischia di
inquinare il mio lavoro disinteressato per il “bene comune”. Magari
potessi decidere delle nomine. Quando ho avuto questa opportunità
ritengo di averla esercitata in modo assolutamente proficuo per la
comunità. Purtroppo gli spazi sono sempre stati limitati perché sia
Francesco Storace che Gianni Alemanno, dopo aver utilizzato le energie
del mondo che gli portavo in dote, hanno cercato di uccidermi
politicamente con tecniche bestiali e antidemocratiche. Ma capisco
perfettamente che il modello di cui ero paladino facesse paura e che non
fosse controllabile. Era efficace ma gli dava fastidio, perché era
autonomo dal potere e si fondava sulla cultura del dono, su una
trasparenza esemplare e sulla competenza. Oggi non ho il potere di
nominare nessuno. Sto raramente sui giornali perché sono più un mediano
di spinta. Non è che nella vita tutti possono fare i centravanti. Ognuno
ha il suo ruolo e io sono soprattutto un uomo di fatica che porta la
palla e cerca di valorizzare le persone della squadra. Sono anche una
figura di contenimento rispetto agli avversari, sono bravo
nell’interdizione. Ma, attenzione, sono un mediano che sa anche fare
goal. Sui media un partito che nel 2013 aveva l’1.96 per cento non può
mandare troppe persone…
Cosa non ha funzionato nel ballottaggio di Ostia?
Il sistema si è terrorizzato e ha messo in campo la più grande
manovra per legare il grillismo all’elettorato di sinistra. Il clima
assurdo ha radicalmente cambiato la campagna elettorale, tra il primo e
il secondo turno, avvantaggiando platealmente la candidata del Movimento
5 Stelle, che comunque ha fatto perdere ai grillini il 17 per cento in
un anno e mezzo. Nel primo turno, in una campagna quasi normale, le cose
sono andate molto bene. Virginia Raggi è stata giudicata negativamente
dal 70 per cento degli elettori che sono andati a votare, cui occorre
aggiungere buona parte di coloro che sono rimasti a casa. La nostra
candidata, Monica Picca, ha ottenuto un gigantesco risultato e, se i
media non avessero “pompato” quotidianamente e positivamente Casa Pound,
salvo poi criminalizzarla subito dopo, saremmo andati al secondo turno
in vantaggio, cosa che sarebbe risultata clamorosa, in perfetto
allineamento con la vittoria di Nello Musumeci in Sicilia. Occorre
constatare che la vicenda del clan Spada e il clima avvelenato che si è
materializzato, ci ha costretti a giocare in difesa. Ogni giorno ce ne
era una… Perfino uno sconosciuto, poi risultato essere il fratello di
Roberto Spada, che si è precipitato a scendere da casa per farsi
immortalare al fianco di Giorgia Meloni. Insomma, la Raggi a Ostia è
“andata una Spada”…
A Roma (e nel Lazio) FdI è l’elemento trainante delle
coalizione. Merito dei vostri esponenti e della vostra tradizione o
debolezza degli altri partiti di centrodestra?
Per noi è importante che il centrodestra, insieme, abbia la
maggioranza. Il valore delle performance della coalizione è molto più
importante del valore in sé di FdI. Non è una novità il nostro
primeggiare, perché la destra nel Lazio e a Roma è sempre stata nel
cuore dei cittadini per ragioni storiche. Un consenso che è risultato
prioritario rispetto a quello di Forza Italia. La Lega non è
significativa qui, paga lo scotto di campagne violentissime contro Roma
ladrona e contro il Sud.
Quante possibilità ha Sergio Pirozzi di essere il candidato del centrodestra alle prossime elezioni regionali del Lazio?
Il 50 per cento. Quando ci sono persone efficaci che prendono
l’iniziativa, si dice che il nemico da sconfiggere è solo dentro se
stessi. Noi abbiamo espresso un giudizio positivo sulla persona.
Probabilmente qualche attacco al centrodestra al suo posto me lo sarei
risparmiato, ma c’è lo spazio per recuperare.
Che giudizio si è formato sull’ormai prossima tornata elettorale?
Solitamente non sono ottimista. Sono realista. Ma credo che, se non
si raccontano favole e non si organizzano complotti, noi andremo a
vincere le elezioni politiche largamente. Spero in un crollo del
Movimento 5 Stelle perché oggi rappresenta il male assoluto di questo
Paese.
Fratelli d’Italia è pronta a correre unita alle altre, variegate, anime del centrodestra?
Certamente sì. Se ogni tanto si ha l’impressione di opinioni diverse
all’interno della coalizione è perché è normale che più partiti abbiano
sensibilità diverse, altrimenti sarebbero un solo partito. Ed è
legittimo che ognuno abbia una sua visione delle cose. Un accordo tra
persone responsabili si trova sempre, se in ballo c’è il futuro
dell’Italia.
Quante possibilità ha il centrodestra di ottenere alle
prossime elezioni una maggioranza sufficiente per governare
autonomamente?
Secondo me ce la possiamo fare. Le simulazioni che abbiamo prevedono
che l’autosufficienza per esprimere un governo omogeneo si raggiunga
conquistando sulla parte proporzionale un 40 per cento. Ora siamo
intorno al 37 per cento. E il 70 per cento nei collegi uninominali,
cifra apparentemente altissima ma in realtà vicina. Credo che il
risultato sia alla portata e siamo smaniosi di misurarci con le
criticità del nostro tempo, al servizio dell’Italia.