da secoloditalia.it
«…e Francesco che è volato sull’asfalto di un cortile con le chiavi strette in mano, strano modo per morire…» cantava Francesco Mancinelli nella sua canzone «Generazione 1978», dedicata ai ragazzi uccisi negli anni di piombo, vittime del comandamento “uccidere un fascista non è reato”, ai tempi non solo predicato dalla sinistra ufficiale, ma purtroppo praticato dai gruppi armati dell’ultrasinistra come Potere Operaio,autore del rogo di Primavalle. A Francesco Cecchin, giovane militante romano del Fronte della Gioventù assassinato nel 1979 da persone rimaste sempre ignote, è dedicata anche un’altra bellissima canzone degli Imperium, “Sera di giugno”. I fatti, avvenuti 34 anni fa, la notte tra il 28 e il 29 maggio 1979, sono stati raccontati molte volte. Francesco era un ragazzo che aveva non ancora 18 anni e che militava nel Fronte della Gioventù di via Migiurtinia, al quartiere cosiddetto Africano, al tempo controllato quasi militarmente dal Pci e dai gruppi fiancheggiatori. Via Migiurtinia a sua volta era un circolo emanazione della sezione del Msi di viale Somalia 5, la Trieste-Salario, il cui animatore e segretario è stato per molti anni Natale Gianvenuti, oggi scomparso. Il circolo di via Migiurtinia era mal tollerato dagli intolleranti della sinistra, che sin dal giorno della sua inaugurazione provocarono scontri per impedire la sua apertura. Sì perché on quegli anni gli anticomunisti non avevano diritto a fare politica e in realtà nemmeno ad esistere. “Uccidere un fascista non è reato”, certo, ma anche “i covi fascisti si chiudono col fuoco”, e così accadde proprio per via Migiurtinia, che dopo qualche anno fu costretta alla chiusura, malgrado l’”eroismo” dei suoi militanti. E proprio questa circostanza ricordò a Francesco Cecchin un dirigente del Pci della zona, Sante Moretti, che, come lui stesso ricordò tempo dopo, disse che via Migiurtinia l’avevano chiusa e avrebbero fatto chiudere anche la Trieste Salario. Ma quella non ci sono riusciti.
Tornando a quel 1979, Francesco Cecchin aveva una piena sintonia anche con l’emergente gruppo di Terza Posizione, molto attiva nel quartiere, ma aveva confidato a Marcello De Angelis, dirigente della formazione, che non gli sembrava corretto abbandonare il Fronte per passare a Terza Posizione, pur rimanendo in ottimi rapporti. Tanto è vero che poche ore dopo il suo omicidio, effettuato, come ricorda la sorella Maria Carla, che era con lui quando fu rincorso e ucciso, da uomini adulti e non da ragazzi come lui, i militanti della Trieste Salario si rivolsero proprio a Marcello De Angelis per realizzare un manifesto, poiché sapeva disegnare e scriveva canzoni. Così, ricorda De Angelis, «a casa mia, in quattro (c’erano degli amici di Francesco della Triesta Salario), lavorammo sul manifesto che poi è diventato famoso e che è quello che termina con la frase “Lui vive, lui combatte”. C’è anche un altro particolare che vale la pena raccontare, su questo manifesto. Inizialmente sarebbe dovuto essere stampato in serigrafia alla sezione del Msi di viale Somalia, ma poi, per intervento di Gianfranco Fini, allora segretario nazionale del Fronte della Gioventù, si mise a disposizione la rotativa del Secolo d’Italia che “sfornò” quei manifesti che tutti conosciamo a migliaia e migliaia, e che ancora oggi vengono affissi nelle strade di Roma. Ricorda De Angelis: «E quella fu la prima volta che vidi una mia creazione uscire in serie da una rotativa, fu una grande emozione…». Sappiamo tutti che le indagini, come dice la stessa sentenza della magistratura, furono superficiali e peggio, e che per questo non si è riusciti a risalire agli assassini. Ma il colpevole è il clima di quei tempi, a Roma, a Milano, dappertutto in Italia, che incitava all’odio di parte e che non permetteva a chi non fosse di sinistra di esprimersi né tantomeno di avere agibilità politica. Così, lo spazio per la libertà di parola andava conquistato: ed era quello che al Trieste Salario facevano i giovani militanti del Fronte, come ricordano oggi due attivisti di allora, Fabrizio Bruschelli e Flavio Amadio, tra i primi a giungere sul luogo dell’omicidio. «Alle sinistre dava molto fastidio quello che facevamo nel quartiere, il nostro impegno sociale, per il verde – dicono – perciò cercavano di farci tacere in tutti i imodi. Pestaggi, aggressioni, intimidazioni di ogni tipo, attentati alle nostre sedi». Proprio qualche giorno prima del suo assassinio Francesco Cecchin era stati circondato da una ventina di attivisti comunisti con cui aveva avuto una discussione per una storia di affissioni di manifesti. I giovani del Fronte li attaccavano, e i comunisti li coprivano quando non li strappavano.
Altri tempi? Non tanto, se in occasione dell’intitolazione dei giardini di piazza Vescovio a Francesco Cecchin, voluta da Gianni Alemanno, ai tempi anche lui dirigente del FdG, intitolazione avvenuta nel febbraio dello scorso anno, il Pd e l’Anpi sono insorti in modo vergognoso e incomprensibile contro un’iniziativa civile e pacificatrice. Il martire va ricordato, per loro, solo se di sinistra, altrimenti deve vigere la marxiana “damnatio memoriae”. I giardini sono stati intitolati e oggi 15 giugno centinaia di amici vecchi e nuovi di Francesco Cecchin, riuniti nel Comitato di piazza Vescovio, hanno presentato agli abitanti del quartiere la suggestiva stele di marmo che ricorda il giovane diciassettenne assassinato tanti anni fa da chi non la pensava come lui. Il Comitato ha anche intenzione di apporre vicino il monumento una piccola targa di rame con una breve spiegazione e ricordo. L’unica cosa certa è che si tratta dell’ennesimo omicidio politico senza colpevoli: la corte infatti sentenziò nelle motivazioni che Francesco non si gettò nel vuoto per fuggire, poiché tra l’altro conosceva benissimo quel cortile, ma fu picchiato e poi buttato esanime di sotto, e quella caduta di oltre quattro metri ne decretò la fine dopo 17 giorni di agonia. Una lapide lo ricorda in via Montebuono, proprio davanti al cortile dove fu buttato in quella sera di Primavera dai suoi carnefici. C’è scritto così: «Mai più ruberete la sua voce e fermerete i suoi passi. Per lui ora parla il vento. Come mare è il suo cammino. Francesco Maria Cecchin, caduto per la rivoluzione. Il popolo lo onora».