di Annalisa Terranova (Secolo d'Italia)
Tra pochi giorni Pino Rauti avrebbe compiuto 86 anni. Con la sua morte un altro pezzo importante, indimenticabile, del mondo della destra italiana viene consegnato alla storia. Rauti ha attraversato il Novecento facendosi contaminare dalle contraddittorie passioni e dalle incendiarie speranze di un secolo che sfidava gli animi più inquieti e avventurosi, gli intelletti più acuti, i giovani più disposti a mettersi in gioco.
Rauti fu uno di quei giovani: a 16 anni si arruola nella Rsi e alla fine del 1946 partecipa alla fondazione del Movimento sociale. Negli anni Cinquanta fu vicino al pensiero radicale di Julius Evola, fonda il Centro Studi Ordine Nuovo ritenendo di dare continuità a un fascismo di tipo spirituale, quello legato al mito dell’«uomo nuovo». Rientra nel Msi nel 1969 (da dove era uscito con l’avvento alla segreteria di Arturo Michelini) con l’arrivo di Giorgio Almirante al timone del partito.
È alla metà degli anni Settanta però che Rauti diventa punto di riferimento di un’ampia area giovanile, affascinata dall’idea di nuove parole d’ordine che giungono a contestare la stessa identità di destra del Msi, indicando la strada del dialogo con i nemici dell’altro fronte, da considerare ormai come avversari con cui cercare il confronto e non più lo scontro. Intuizioni che consentirono di strappare molti giovani alla deriva terroristica e offrirono a molti altri un modello alternativo all’attivismo classico.
Prospettive che troveranno forma nella mozione congressuale Linea Futura (al congresso del Msi del 1977), che rappresentò un esperimento di rottura nella dialettica interna al partito. In questi termini ne parla Marco Tarchi nel suo libro “Dal Msi ad An”: «Il progetto di innovazione politico-organizzativa più radicale è quello di Linea Futura, che denuncia l’insufficienza della strategia di Destra nazionale e si propone di organizzare la protesta meridionale e spingere il partito a contestare il modello di sviluppo neocapitalistico, promuovere iniziative anticonsumistiche, prestare attenzione ai temi ecologici e urbanistici. Le nuove strutture auspicate dai rautiani – continua Tarchi – mirano ad un “partito di quadri, di organizzazione moderna, di militanza politica e sociale, proiettato verso l’esterno”, che deve distinguere tra aderenti e militanti, creare cooperative e comitati di mobilitazione, uscire alla routine con interventi in ambito sociale e puntare su un’offerta politica diretta in primo luogo a giovani e donne, che delinei una controffensiva politica razionale e accantoni nostalgie e ribellismo».
Un modello movimentista difficilmente conciliabile con il partito-apparato da cui scaturirà la stagione creativa dei Campi Hobbit, uno dei fenomeni più studiati (e più imitati negli anni successivi) che caratterizzarono il mondo giovanile a destra. Quell’esperienza aprì orizzonti inediti per i ventenni di allora, non più costretti nel clichè del militante anticomunista “duro e puro”. La lezione di quei raduni (malvisti dal vertice del Msi) è molto semplice: si poteva incidere nel proprio tempo anche facendo musica, scrivendo poesie, tentando di dar vita a un modello comunitario che potesse rappresentare la naturale evoluzione del “cameratismo” reducistico. Era paradossale che a capo di questi fermenti vi fosse un uomo come Pino Rauti, che aveva combattuto, che aveva creduto nella “milizia” senza compromessi di chi «sta in piedi tra le rovine», che non aveva mai rinnegato il fascismo, un intellettuale raffinato, scrittore e giornalista, poco incline a far maturare le sue sintesi dalle complicità con le platee giovanili.
Eppure i giovani trovavano nei suoi discorsi un’ampiezza, una profondità, uno stimolo per uscire dal “ghetto”, per dare prospettive persino vincenti a una condizione di minorità politica e culturale che era dura da sopportare. Nei suoi discorsi, soprattutto in quelli, Rauti sapeva toccare le corde giuste. La memoria corre a quelle parole (non a caso fu definito, un «incendiario di anime») più che alle schermaglie congressuali, che lo videro avversario prima di Giorgio Almirante e poi di Gianfranco Fini. Ai giovani Rauti parlava di un fascismo “metafisico”, non quello dei compromessi, dei treni in orario, delle sciagurate leggi razziali, delle leggi liberticide, ma quello che andava incontro al popolo, quello che si chinava sugli ultimi per tentarne il riscatto, quello sociale e socialista. E con quel “fascismo immenso e rosso”, che poteva piacere a destra come a sinistra, che era al di là della destra e della sinistra, declinava alla sua maniera personalissima il motto “non rinnegare non restaurare”.
Là, diceva, stavano le radici, lì stava il senso, lì stava il retroterra da cui si poteva attingere ancora per non autocondannarsi all’inattualità. Quelle parole piacevano e commuovevano, come quando raccontava dell’incontro in Francia con i “falchetti rossi” del Fronte Popolare di Leon Blum, ormai anziani, e li paragonava alle schiere di bamibini derelitti che il fascismo italiano aveva portato nelle colonie marine, per ritemprarli nel corpo e nello spirito. Ma Rauti non sapeva animare solo la memoria. Era uomo capace di sfide intellettuali. La più ardita: lo sfondamento a sinistra. Anticipò la fine del comunismo, una fine che sarebbe avvenuta – diceva – non per le armi americane ma per la diffusione del capitalismo.
E chi se non chi proveniva da certe radici, (dalla “nostra storia”, sintetizzava) poteva rialzare il vessillo dell’anticapitalismo, denunciare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, opporsi al materialismo che offusca lo spirito e rende le società incapaci di risollevarsi? Su questo terreno, predicava Rauti, con la sinistra si potevano trovare punti di contatto, superando al contempo la paludosa politica democristiana e il logoro antifascismo militante. Un sogno. Una speranza. Un tema che fu tra i più osteggiati e ridicolizzati all’interno del Msi ma che allo stesso tempo, anche attraverso gli articoli del quindicinale “Linea”, aveva modo di ricollegarsi a un filone di autori come Sombart e Max Weber. Un tema capace di scavare nel solco aureo di pensatori trascurati e marginalizzati dalla cultura progressista. Perché bisognava leggere, e tanto, per dialogare con gli avversari, per convincerli, per dimostrare loro che la destra non soffriva di alcun complesso di inferiorità.
Un invito che Rauti rivolgeva soprattutto alla classe dirigente di un partito che a suo avviso si accontentava di vivacchiare sulle parole d’ordine dell’anticomunismo: «Dovete mettervi a studiare», esortava. Ed era un’esortazione che conteneva anche una pesante critica all’approssimazione di una politica fondata sulla “pesca delle occasioni”. Anche sull’immigrazione, altro tema ruvido per la destra, Rauti seppe indicare la strada difficile ma salutare per uscire dal recinto ottuso della xenofobia e proprio quando conquistò la segreteria del Msi, nel 1990.
L’immigrato non è un nemico, diceva, ma uno “sradicato”. Un’analisi che diventava aneddotica nei suoi discorsi, come quando raccontava di avere visto a Birmingham un gruppo di bambini di colore che sguazzavano in una pozzanghera: «E io mi chiedevo e mi chiedo: che ci fanno questi bambini sotto il cielo grigio di Birmingham?». Anche loro sfruttati da un Occidente in preda al tramonto spengleriano, ingranaggi di quella logica del profitto che assurgeva, nei suoi discorsi, a vero, reale, «nemico principale». Eccola la lezione più grande: ci vuole l’analisi, oltre all’elmetto.
E ci vuole l’orgoglio delle radici europee e italiane per non morire schiavi delle mode Usa: «Ricordate: c’è più storia nella piccola Pienza che in tutta Los Angeles». A Fiuggi Rauti si oppose, solo e negletto, alla trasformazione del Msi in An.
E si condannò lui stesso, politico che aveva sempre saputo guardare più in là di tutti, a rivestire i panni del nostalgico. Ma memorabile rimase la chiusa dell’intervento con cui diede l’addio agli ex camerati: «Trasformerete questo partito in una vecchia baldracca».