mercoledì 3 gennaio 2018

Pagate in nero 50 centesimi all’ora. Il lavoro a casa delle nuove schiave


 da lastampa.it
 
Otto donne rifinivano le forme in gomma di una ditta del Bergamasco. 
La titolare: ho aperto l’azienda solo sei mesi fa. Multata di 27 mila euro.
 
Altro che schiavismo. Nemmeno lo zio Tom era pagato così poco: 50 centesimi all’ora, ovviamente non in regola, e per i contributi vedere alla voce fantascienza. Succede nella «Rubber Valley», il distretto della gomma in provincia di Bergamo, dove la crisi non è finita perché non è iniziata: il business è cresciuto del 40% negli ultimi cinque anni.  
Certo, in alcuni casi sul business il costo del lavoro incide poco. Come capitava a un’imprenditrice indiana con un capannone a Credaro e quattro dipendenti. Seguendo il gran traffico di furgoni che partivano e tornavano carichi di guarnizioni di gomma, i finanzieri di Sarnico hanno scoperto che per i quattro operai in regola ce n’erano nove in nero, che sgobbavano a cottimo nei paesotti vicini in cambio di compensi così bassi da risultare quasi incredibili. Si tratta di un indiano e di otto donne, tre indiane, due albanesi, una senegalese, una marocchina e un’italiana, l’ultima autoctona in un caporalato da prima rivoluzione industriale o da padroni delle ferriere, roba da romanzo sociale dell’Ottocento. Dickens nel Basso Sebino, insomma.  

Tutte a casa, a tenere d’occhio i bambini e contemporaneamente a effettuare la «sbavatura di guarnizioni», che detta così sembra un’attività molto più bizzarra di quel che è in realtà: strappare a mano il materiali in eccesso dalle forme di gomma uscite dalle macchine. 
I conti li fa una delle cottimiste albanesi all’«Eco di Bergamo»: «Ogni mille pezzi mi davano dai 70 centesimi all’euro, in base al tipo di guarnizione e agli strappi. Per mille pezzi, mi ci volevano almeno due ore di lavoro». Il calcolo è facilissimo, il risultato inquietante: due ore a un euro fanno 50 centesimi all’ora. 

Così i nove irregolari si portavano a casa, più o meno, 250 euro al mese: salari da Terzo mondo, non da Italia nel 2018. La sindaca di Credaro, Adriana Bellini, non sa dire se sia un caso isolato: «Di certo, il lavoro casalingo è diffuso, vediamo tutti il carico e scarico dei furgoni».  
Insomma, quel che si è scoperto a Credaro è la regola o l’eccezione? «Che sia la regola credo proprio di no, ma forse non è una situazione così eccezionale - risponde Pietro Schiesaro della Cisl -. 
Se i dipendenti in azienda sono generalmente in regola, nel cottimo succede tutto e il suo contrario, anche perché i controlli sono più difficili. E chiaramente gli ultimi arrivati sono quelli più indifesi. 

Una situazione tipica è quella dell’immigrato che va a lavorare in fabbrica mentre la moglie resta a casa con i figli, ma per arrotondare prende un po’ di commesse. Era quello che succedeva con gli italiani negli Anni Cinquanta, quando i muratori erano pagati “a metro”. Oggi ovviamente è inaccettabile. Per fortuna i controlli ci sono. E infatti è il secondo caso dopo quello dell’estate».  
In effetti, sui giornali era già finita la vicenda di una ditta di Adrara San Martino, sempre nella zona, nella quale otto lavoratori su 17 non avevano proprio il contratto, e uno era pure un clandestino. Non solo: altri lavoravano da casa 10 o 12 ore al giorno per 400 euro mensili. 

Finiamo con la cronaca. La titolare del capannone di Credaro è caduta dalle nuvole, ha spiegato di aver aperto da appena sei mesi e promesso di sistemare le irregolarità. Nel frattempo, è stata multata per 27 mila euro, con l’aggiunta del’obbligo di mettere in regola i lavoratori che non lo sono, pagamento dei contributi arretrati incluso.  
E magari, aggiungiamo, anche di pagare alla ragazza albanese che si è sfogata con i giornalisti i 150 euro che sta ancora aspettando.