da lastampa.it
Otto donne rifinivano le forme in gomma di una ditta del Bergamasco.
La titolare: ho aperto l’azienda solo sei mesi fa. Multata di 27 mila euro.
Altro che schiavismo. Nemmeno lo zio Tom era pagato così poco: 50
centesimi all’ora, ovviamente non in regola, e per i contributi vedere
alla voce fantascienza. Succede nella «Rubber Valley», il distretto
della gomma in provincia di Bergamo, dove la crisi non è finita perché
non è iniziata: il business è cresciuto del 40% negli ultimi cinque
anni.
Certo, in alcuni casi sul business il costo del lavoro incide poco.
Come capitava a un’imprenditrice indiana con un capannone a Credaro e
quattro dipendenti. Seguendo il gran traffico di furgoni che partivano e
tornavano carichi di guarnizioni di gomma, i finanzieri di Sarnico
hanno scoperto che per i quattro operai in regola ce n’erano nove in
nero, che sgobbavano a cottimo nei paesotti vicini in cambio di compensi
così bassi da risultare quasi incredibili. Si tratta di un indiano e di
otto donne, tre indiane, due albanesi, una senegalese, una marocchina e
un’italiana, l’ultima autoctona in un caporalato da prima rivoluzione
industriale o da padroni delle ferriere, roba da romanzo sociale
dell’Ottocento. Dickens nel Basso Sebino, insomma.
Tutte a casa, a tenere d’occhio i bambini e contemporaneamente a
effettuare la «sbavatura di guarnizioni», che detta così sembra
un’attività molto più bizzarra di quel che è in realtà: strappare a mano
il materiali in eccesso dalle forme di gomma uscite dalle macchine.
I conti li fa una delle cottimiste albanesi all’«Eco di Bergamo»:
«Ogni mille pezzi mi davano dai 70 centesimi all’euro, in base al tipo
di guarnizione e agli strappi. Per mille pezzi, mi ci volevano almeno
due ore di lavoro». Il calcolo è facilissimo, il risultato inquietante:
due ore a un euro fanno 50 centesimi all’ora.
Così i nove irregolari si portavano a casa, più o meno, 250 euro al
mese: salari da Terzo mondo, non da Italia nel 2018. La sindaca di
Credaro, Adriana Bellini, non sa dire se sia un caso isolato: «Di certo,
il lavoro casalingo è diffuso, vediamo tutti il carico e scarico dei
furgoni».
Insomma, quel che si è scoperto a Credaro è la regola o l’eccezione?
«Che sia la regola credo proprio di no, ma forse non è una situazione
così eccezionale - risponde Pietro Schiesaro della Cisl -.
Se i
dipendenti in azienda sono generalmente in regola, nel cottimo succede
tutto e il suo contrario, anche perché i controlli sono più difficili. E
chiaramente gli ultimi arrivati sono quelli più indifesi.
Una
situazione tipica è quella dell’immigrato che va a lavorare in fabbrica
mentre la moglie resta a casa con i figli, ma per arrotondare prende un
po’ di commesse. Era quello che succedeva con gli italiani negli Anni
Cinquanta, quando i muratori erano pagati “a metro”. Oggi ovviamente è
inaccettabile. Per fortuna i controlli ci sono. E infatti è il secondo
caso dopo quello dell’estate».
In effetti, sui giornali era già finita la vicenda di una ditta di
Adrara San Martino, sempre nella zona, nella quale otto lavoratori su 17
non avevano proprio il contratto, e uno era pure un clandestino. Non
solo: altri lavoravano da casa 10 o 12 ore al giorno per 400 euro
mensili.
Finiamo con la cronaca. La titolare del capannone di Credaro è
caduta dalle nuvole, ha spiegato di aver aperto da appena sei mesi e
promesso di sistemare le irregolarità. Nel frattempo, è stata multata
per 27 mila euro, con l’aggiunta del’obbligo di mettere in regola i
lavoratori che non lo sono, pagamento dei contributi arretrati incluso.
E magari, aggiungiamo, anche di pagare alla ragazza albanese che si è
sfogata con i giornalisti i 150 euro che sta ancora aspettando.