da corriere.it
Quando Goffredo Mameli scriveva le parole del suo inno, non poteva
immaginare che 170 anni dopo sarebbe davvero diventato “il canto degli
italiani” anche per il Parlamento repubblicano, da lui vagheggiato fin
dallo storico telegramma a Mazzini: “Roma, Repubblica, venite!”. In
questo lungo tempo, l’inno di Mameli è stato denigrato in tutti i modi
possibili. Si dice sia retorico.
Ma le parole sono retoriche quando sono
contraddette dai fatti; quando i fatti le confermano, allora sono carne
e sangue. Mameli era davvero pronto alla morte; infatti morì, a ventuno
anni, nella difesa di Roma, confortato da Cristina Trivulzio di
Belgioioso, altra grande italiana.
Non fu ferito dai francesi ma da un
commilitone, si obietta. A parte il fatto che non è per nulla certo,
cosa cambierebbe? Forse che i fanti morti di tifo o di febbre spagnola
nella Grande Guerra e gli alpini congelati in Albania e in Russia
meritano meno la nostra pietà e la nostra riconoscenza dei caduti in
combattimento? Si sostiene che abbia «rubato» le parole a un religioso,
padre Atanasio Canata. E se anche fosse? «Il sangue gli appartiene»
direbbe Cyrano. Il punto è che il Risorgimento, di cui Mameli fu
volontario e spirito libero, è molto denigrato in un tempo di
autocommiserazione nazionale, alimentata dalla Rete. Eppure, goccia a
goccia, l’inno di Mameli — musicato da Novaro — è penetrato nell’animo
della nazione. Ciampi ha fatto molto per questo.
Persino i calciatori
l’hanno imparato (anche se continuano a dire «corte» invece di coorte).
Si è finalmente capito quel che appariva già chiaro, che «schiava di
Roma» non è l’Italia ma la vittoria. E si comincia a cantare anche la
seconda strofa: «Noi siamo da secoli calpesti e derisi perché non siam
popolo, perché siam divisi». C’è voluto oltre un secolo e mezzo; ma è
sempre meno vero.