mercoledì 25 giugno 2014

Municipio I, cittadini contestano Marino: "Basta con le favole"


da romait.it

Lo dico al sindaco'. È questo il nome dell’iniziativa che prende il via oggi: un camper che girerà per i Municipi di Roma, con il fine di ascoltare i romani e le romane. Appare entusiasta il sindaco Marino nell’annunciare, sul suo profilo Facebook, la partenza del camper da via Guglielmo Pepe, nel Municipio I.

Duro, invece, il giudizio di Stefano Tozzi, capogruppo di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale in Municipio I, il quale dichiara che “mentre il sindaco Marino si esibisce dal suo camper nell’ennesimo spot propagandistico davanti ai giornalisti all’Esquilino per chiedere cosa non funziona nel quartiere, i residenti continuano a vivere nel degrado e nell’incuria”.

Secondo quanto riferisce Tozzi, infatti, “da anni i cittadini dello storico rione aspettano che i progetti di riqualificazione già finanziati dal centrodestra di piazza Vittorio vengano realizzatii. Dopo lo stanziamento straordinario di 2 milioni di euro da parte dell’allora assessore ai Lavori Pubblici di Roma Capitale Fabrizio Ghera, predisposto e condiviso insieme a tutte le realtà territoriali, comitati le associazioni e comitati di quartiere, il progetto di riqualificazione sta marcendo nei cassetti delle stanze del Campidoglio per colpa dell’inerzia del sindaco e della sua Giunta”.

“Il primo lotto – continua Tozzi – quello esterno, come promesso era già partito e tutti i cittadini aspettavano l’inizio dei lavori ma ancora non si è visto niente. Nel frattempo la piazza affoga in un degrado sconfortante dove insieme alla mancata riqualificazione del verde abbiamo una situazione di degrado assoluto con bivacchi ormai fuori controllo”.

A fronte di tutti questi motivi, il capogruppo in Municipio Tozzi, altri esponenti di FdI-An del Municipio I e alcuni cittadini residenti hanno regalato al sindaco il Libro delle Favole di Esopo, “per ricordare al sindaco che i cittadini dell'Esquilino vogliono i fatti concreti e non la propaganda”. 

domenica 15 giugno 2014

«Niente paragoni con Renzi, Tintin aveva il “padre” fascista»: polemica sul “fumetto maledetto”


da secoloditalia.it

Matteo Renzo come Tintin? È la provocazione simpatica quanto spregiudicata de l’Internazionale, il settimanale goscista di politica estera. Con un certo brio il direttore Giovanni De Mauro ha rivisitato per il numero in edicola la copertina dell’album Tintin au pays de l’or noir, sostituendo il mitico personaggio di Hergè  con una caricatura del fiorentino; al suo fianco, sostituendo l’irascibile comandante Haddock e i Dupont, l’impaginatore ha posto Alexis Tsipras, Marine Le Pen e l’albionico Farange. Solo il delizioso Milou, il fedele amico a quattro zampe di Tintin, ha mantenuto il suo fiero aspetto canino.
Uno scherzo grafico, nulla di più. Eppure vi è chi non ha gradito. Sulla rete — vedi le pagine FB dedicate al piccolo belga — un plotone di zelanti guardiani del “fumetto politicamente corretto” ha subito aggredito il buon De Mauro indignandosi per la scelta. Tintin o non Tintin, Renzi o non Renzi, per le prefiche ultrademocratiche Hergè rimane un nome maledetto. A distanza di trentun anni dalla sua morte non vi è pace per il maestro belga. Nonostante il successo mondiale del personaggio, i riconoscimenti e la nuova giovinezza cinematografica spielberghiana (a proposito, è in lavorazione la nuova puntata della saga), vi è chi non perdona  ad Hergè il suo “passato maledetto”. Già, per le solite sentinelle il papà di Tintin era un fascista, un collaborazionista. Dunque da dimenticare, altro che copertine su una rivista democratica.
Stupidaggini. Il personaggio Hergè fu molto più complesso, intrigante delle letture affrettate e interessate vergate dai suoi denigratori e dai suoi esegeti e travalica le censure (vedi il denso catalogo del Musée Hergè, editato in Italia dall’Ippocampo) operate dalla disinvolta vedova Fanny.
Figlio del Belgio cattolico — un cattolicesimo antimodernista e conservatore — del primo dopoguerra, Georges Remy (il suo vero nome) condivise le ansie e i sogni dei suoi coetanei — insofferenti della pingue normalità de le plat pays — trasformandoli in disegni. In avventure. Approdato dal movimento scout — un passaggio centrale della sua formazione — alle pagine di un quotidiano cattolico vicino a Charles Maurras, Le Vingtième Siécle, Georges iniziò a tratteggiare un mondo immaginario che rispecchiava il suo impianto valoriale: coraggio, fede, onestà, lealtà, disinteresse. Amicizia. Tintin ne fu la proiezione assoluta.
Nella redazione Hergè incontrò un giovane scalpitante giornalista, Leon Degrelle. I due divennero amici — un legame che Hergè non smentirà mai — condividendo l’ammirazione per Maurras e la passione per le belle donne; negli anni seguenti l’artista illustrò le copertine di alcuni libri del pirotecnico redattore evitando però di seguirlo nell’avventura politica di Rex, il partito filofascista belga. Concentrato sul suo personaggio, chiuso nelle sue fantasie, Georges si tenne lontano dalle asprezze e le cattiverie della lotta partitica.
Il suo mondo era Tintin, solo Tintin. Ed è soltanto seguendo il suo protagonista possibile delineare lo scenario interiore, il pensiero di Hergè:  un personalissimo caleidoscopio in cui s’intrecciano Baden Powell e Verne, Maurras e il National Geographic, Hitchcock, Lèvi-Strauss e Albert Londres. Le coordinate rimangono solide: un convinto e mai smentito anticomunismo (a Tintin au pays des Soviets seguirà nel 1954L’Affaire Tornesol ambientato in piena guerra fredda), un iniziale paternalismo colonialista tipico dell’epoca (Tintin au Congo) ma anche un forte fastidio verso l’aridità dell’americanismo, l’avidità del capitalismo (Tintin en Amerique) ed una sempre maggior simpatia — superando schemi consolidati —  per i popoli oppressi (i pellerossa in particolare).
Il punto di svolta — la maturità artistica — verrà nel 1936 conLe lotus bleu, la grande avventura tintinesca nella Cina in guerra. Pagina dopo pagina, tavola dopo tavola, Hergè trasformò il suo album in una denuncia contro l’invasività degli occidentali — in particolare i mai amati anglo-sassoni — e l’imperialismo nipponico. Tintin scopriva la geopolitica… Ma l’album più significativo dell’anteguerra rimane Le Sceptre d’Ottokar, realizzato alla vigilia del conflitto. Da buon nazionalista belga, Remy non amava i vicini tedeschi e confidava nel re Leopoldo III, considerandolo garanzia di concordia e indipendenza nazionale. La vicenda, ambientata in una Sildavia di fantasia, s’ispirava all’inutile conquista italiana dell’Albania del 1939. Tintin, grazie a Milou, salverà il trono di re Muskar XII — un omaggio al suo amato sovrano impegnato in una difficile lotta per la neutralità — e la libertà del piccolo regno balcanico ma nulla potrà contro i panzer germanici che invasero il Belgio nel maggio 1940.
Convinto dall’appello di Leopoldo III a rientrare in patria dopo un frettoloso esilio in Francia, Hergè riprese a lavorare sui quotidiani brussellesi e fiamminghi, controllati abbastanza blandamente dall’autorità tedesca d’occupazione. Nessuno — al di là degli entusiasti tintinophlies —  ci fece caso. Georges, come tutti, cercava di sbarcare il lunario e, rinchiuso nella sua bolla creativa, disegnò di gran lena tre album e — sempre fedele a Leopoldo, prigioniero nel suo castello alla periferia della capitale — si tenne distante dagli ambienti collabòs.Come raccontò Degrelle, partito volontario sul fronte dell’Est, Remy rimase estraneo ad ogni impegno politico. Una scelta forse di comodo ma comprensibile: l’artista, monarchico maurrasiano e cattolico, poco o nulla poteva condividere con i separatisti fiamminghi di Van Severen o con i rexisti ormai marginali e in piena deriva filotedesca.
Alla vigilia dell’arrivo degli alleati, la non gloriosa resistenza belga — un fenomeno marginale sino al 1943 — cercò di farsi perdonare il suo prudente attendismo e iniziò a stilare liste di “traditori”. In mancanza di grandi nomi (Degrelle e il meglio della sua gente — compreso il fratello di Georges Simenon — stavano battagliando contro i sovietici e gli industriali filo-tedeschi erano intoccabili) gli improvvisati “patrioti” cercarono vittime tra i giornalisti, gli intellettuali, gli artisti. Alla rinfusa, senza pietà. Nel settembre 1944 il timido, leopoldista e molto invidiato Hergè si ritrovò improvvisamente incarcerato, poi scarcerato e infine bandito. Relegato tra gli “incivici”, i maledetti.
Un trauma inatteso e pesante che lo segnerà per tutta la vita. «È stato orribile, orribile», diceva il maestro ogni volta raccontava quell’esperienza. Per fortuna d’Hergè le motivazioni non ressero: «Se lo avessimo trascinato in giudizio ci saremmo coperti di ridicolo», commentò un arcigno responsabile della denazificazione.
Nel settembre 1946 usciva — finanziato da due callidi editori “patrioti” — la rivista interamente dedicata a Tintin. Un successo pieno. L’avventura poteva ripartire. Ciò nonostante Georges presenziò, in segno di solidarietà, al processo contro 26 colleghi de Le Soir imputati di “intelligenza con il nemico”, aiutò l’amico Jacques Van Melkebeke — imprigionato, a causa delle sue matite,  “per tradimento” —  e, più tardi, raggiunse in Svizzera il detronizzato Leopoldo ormai  in esilio. Atti di coraggio nel segno dell’amicizia e della fedeltà. I suoi valori di sempre.

La destra di Colle Oppio ha una grande storia, il “futurista” Raisi cominci a impararla


da secoloditalia.it
Solitamente tendo a ignorare le tante dichiarazioni senza senso che si leggono nelle interviste di taluni personaggi, soprattutto se peccano di velleitarismo e monotonia, ma l’ennesimo attacco di un ex appartenente parlamentare di Futuro e Libertà a Colle Oppio e, indirettamente, alla mia persona, merita stavolta una reazione. Di Colle Oppio si può dire tutto il male possibile per ciò che ha fatto e rappresentato, ma non per le fantasie di un Enzo Raisi qualunque.
Colle Oppio non è stata una sezione romana del Msi, ma un vero e proprio laboratorio politico, culturale e antropologico per la destra italiana che ha portato in dote spigolature non conformiste di assoluta avanguardia:   ha sfidato i divieti del Msi di Fini e ospitato al suo interno un’assemblea antirazzista (non autorizzata dal partito di allora) alla quale prese parte l’indimenticato monsignor Luigi Di Liegro; ha difeso il centro di accoglienza per i malati di Aids in un quartiere-bene della Capitale dagli assalti violenti di taluni personaggi vetero-missini; ha condotto una decennale battaglia culturale contro la colonizzazione americana dell’Italia, fatta di modelli distanti anni luce dalle nostre tradizioni, ma anche di dominazione geopolitica; ha aperto un dialogo vero (non declamato) con la sinistra per chiudere gli anni di piombo e superare le contrapposizioni ideologiche, recitando un ruolo determinante per interrompere la spirale di violenza che stava per inghiottire i giovani dopo l’omicidio di Paolo Di Nella; ha fondato l’ambientalismo a destra e fermato la speculazione edilizia, salvando un bene mondiale come il Parco dell’Appia antica dal cemento e dagli affari, sconfiggendo anche la finta opposizione di qualche consigliere comunale di An dell’epoca.
E ancora: ha contrastato gli inceneritori, tanto cari all’avvocato Manlio Cerroni con cui si fregia di non avere mai avuto rapporti, diversamente dall’intero arco dei leader e dei partiti italiani, con lo scopo di dare un profilo industriale alla battaglia per i rifiuti zero, al riparo dalle promiscuità; ha studiato modelli di trasformazione del territorio chiamando a raccolta urbanisti del calibro di Krier, Culot, Tagliaventi, Salingaros, Mazzola per salvaguardare un’ecosostenibilità rispettosa delle identità; ha contribuito alla nascita di mille forme di volontariato attivo, dalle tossicodipendenze ai minori abbandonati, dalla cooperazione internazionale agli anziani e agli indigenti; ha ripudiato le leggi razziali del fascismo dieci anni prima che lo facesse Fini, ha invocato la destra a emanciparsi dal ventennio quando Fini dichiarava Mussolini “il più grande statista del secolo”, ha occupato l’Università di Roma negli anni della “Pantera” quando Fini era ancora tentato dalla “soluzione Caradonna” che mise fine al ’68 di destra. Ci dovrebbe ancora essere spazio per citare l’iniziativa culturale su Pierpaolo Pasolini, quella su Evola e Marcuse, quella su Nietzsche, Freud, Marx e la filosofia del martello, per non parlare degli esperimenti editoriali, da Morbillo a La Sfida, fino alla nuova veste di Area. Colle Oppio ha avuto, piaccia o meno a Raisi, un ruolo importante nell’elaborazione di una nuova destra post moderna e post ideologica, mai chiusa e mai prevedibile, non ha peccato di egoismo ed è stata sempre la casa accogliente per tutti, una specie di mondo sommerso che, come un fiume carsico, riappare all’improvviso sotto forma di mille rivoli d’acqua. Tanta gente c’è stata e, anche se ha cambiato strada, ne riconosce il desiderio di movimentismo e trasparenza.
Di Fratelli d’Italia, infine, si può non condividere nulla, si può contrastare con argomenti politici una linea non condivisa, ma sostenere che sia privo di un chiaro progetto è semplicemente una falsità, una disonestà intellettuale. Ricordo che per primo il partito fondato da Giorgia Meloni ha avuto il merito e la lungimiranza di decretare chiusa l’esperienza del Pdl, ben prima dell’uscita di Alfano e della rinascita fuori tempo massimo di Forza Italia 2.0. L’attacco alle poltrone, infine, si commenta da solo. Ai più distratti faccio notare che Ignazio La Russa è stato ministro della Difesa con il governo Berlusconi e non aveva certo necessità di fondare un partito nuovo, un autentico salto nel buio, per conservare un ruolo di prima fila. Semmai è vero il contrario. Lo stesso per Giorgia Meloni, che è stata  vicepresidente della Camera e ministro della Gioventù, se si fosse accucciata all’ombra del cavaliere e magari, dopo, di Alfano, probabilmente oggi sarebbe al governo. E che dire dell’amico Guido Crosetto, che ha pagato la sua coerenza e il suo coraggio restando fuori dal Parlamento?