martedì 30 aprile 2013

Adriano Visconti pilota, difese i civili del nord Italia dalle bombe, fu assassinato con una raffica di mitra alle spalle


da secoloditalia.it

La storia del maggiore pilota Adriano Visconti, morto il 29 aprile del 1945, è strettamente intrecciata con quella del suo aiutante, il sottotenente Valerio Stefanini, e con quella del generale Adriano Mantelli, pioniere del volo a vela in Italia nonché asso dell’aviazione. Tutti e tre aderirono dopo l’8 settembre 1943 alla Repubblica sociale italiana, entrando nell’Aeronautica nazionale repubblicana. Va subito precisato però che i tre non condussero mai rastrellamenti né azioni offensive contro altri italiani, ma si limitarono, eroicamente, a contrastare i bombardamenti su obiettivi civili che gli alleati anglo-americano effettuavano sulle nostre città del nord. Non a caso, Visconti è titolare di quattro medaglie d’argento e due di bronzo al valor militare. È una pagina molto brutta della nostra storia patria, tanto brutta quanto dimenticata. La ricordiamo in sintesi. Visconti era del 1915, e nel 1936 conseguì il brevetto di pilota da caccia nell’Aeronautica regia. Allo scoppio della guerra fu mandato sul fronte dell’Africa settentrionale, a Tobruk e poi a Malta, distinguendosi per valore. Dopo l’armistizio, come detto, aderì alla Rsi partecipando attivamente alla creazione dell’Aeronautica repubblicana e comandando il celebre gruppo caccia “Asso di bastoni”. A bordo dei suoi Macchi Mc 202, 205 e del Messerschmitt Bf 109 G-10 volò per tutta l’Italia settentrionale, insieme con gli altri piloti della Rsi, per difendere la popolazione civile dalle tonnellate di bombe sganciate dagli anglo-americani. Il 23 aprile la base dove si trovavano gli aviatori, a Cascina Costa, a sud di Gallarate, fu circondata dai partigiani che intimarono la resa. Il comandante Mantelli dapprima rifiutò ma in seguito, il 28, poiché il Cln aveva promesso salva la vita a tutti gli aviatori, accettò. La richiesta, tra l’altro, venne inoltrata a Mantelli proprio da Visconti. Così, il giorno dopo, il 29 aprile, proprio il maggiore Visconti firmò la resa controfirmata dal Cln Alta Italia, dal Cln, da quattro capi partigiani “garibaldini” tra cui Aldo Aniasi, il “comandante “Iso”, successivamente deputato del Psi e sindaco di Milano per lo stesso partito, che a quel tempo comandava la brigata partigiana Redi. L’accordo garantiva libertà e incolumità per avieri e sottufficiali, e l’incolumità e l’obbligo di consegnarsi alle autorità italiane o alleate, per gli ufficiali. A quel punto i 60 ufficiali repubblicani e le due ausiliarie vennero condotti nella caserma del Savoia cavalleria in mano ai garibaldini. Ma Visconti e il suo aiutante Stefanini vennero allontanati con il pretesto di volerli interrogare. Mentre si allontanavo con i partigiani, i due vennero falciati da due raffiche di mitra alla schiena: il sottotenente Stefanini istintivamente tentò di coprire Visconti col suo corpo, ottenendo solo di farlo ferire gravemente. Il maggiore fu poi finito con due colpi di pistola alla testa. A sparare fu il guardiaspalle di Aniasi, un partigiano russo, e il ruolo del futuro sindaco di Milano non fu mai chiarito, perché il duplice assassinio fu considerato “legittimo atto di guerra”, in quanto accaduto prima dell’8 maggio 1945, fine ufficiale delle ostilità in Europa. Visconti e Stefanini furono dapprima sepolti frettolosamente nella stessa caserma, ma già pochi giorni dopo furono traslati al cimitero di Musocco a Milano, dove ancora riposano, uno vicino all’altro.

mercoledì 24 aprile 2013

Buontempo ci ha lasciato. Insegnò ai giovani a combattere per quello in cui credevano


da secoloditalia.it

Altro che “pecora”, era un leone. È sempre stato un leone Teodoro Buontempo, Teo per gli amici, e di amici ne aveva tanti. Buontempo ci ha lasciati a 67 anni e lo piange non solo la famiglia, la moglie Marina e i tre figli, ma tutta una comunità umana, della quale Teodoro è stato per decenni protagonista. Iniziato in ambito locale, il suo impegno politico lo ha fatto apprezzare ben oltre la città di Roma, dove pure è stato consigliere capitolino dal 1981 ininterrottamente al 1997 e dove ha sempre svolto la sua attività di dirigente di partito, di parlamentare, di assessore regionale e oggi di presidente della Destra, che nel 2007 contribuì a fondare insieme con Francesco Storace. Buontempo era un leader naturale, e lo ha dimostrato guidando il Fronte della Gioventù di Roma (l’organizzazione giovanile del Msi) nei difficilissimi anni di piombo, esponendosi sempre in prima persona e pagando costi altissimi per  il suo impegno per i più deboli, per le fasce sociali più disagiate, per gli emarginati, per coloro che non avevano nessuno che li difendesse. Come una volta, al Casilino, da consigliere comunale fu chiamato da una donna che aveva un figlio in sedia a rotelle e che aveva innumerevoli difficoltà nella vita di tutti i giorni a causa dei marciapiede troppo alti: malgrado le reiterate richieste della donna all’amministrazione comunale, nessuno aveva fatto niente. Teodoro senza pensarci su prese un piccone e abbatté le barriere architettoniche, in particolare il ciglio di un marciapiede su cui la carrozzella non poteva salire, e se ne andò. E di episodi come questo ce ne sono a centinaia, che hanno visto Buontempo nelle strade di Nuova Ostia a controllare lo stato delle case popolari o al deposito dell’Atac per verificare l’inquinamento dei mezzi. Per questo Buontempo era amato a Roma, per questo era molto popolare: era l’unico missino che potesse andare impunemente in un certo bar al centro di Roma frequentato e gestito da estremisti di sinistra (e negli anni Settanta i comunisti erano una cosa seria) ed essere accolto amichevolmente, con il rispetto che si deve a un avversario coraggioso e leale. E le sue intuizioni politiche, spesso estemporanee, contribuirono non poco all’affermarsi del Msi a Roma. Come quando gli venne l’idea – che realizzò in pochi giorni – di creare una radio di destra, Radio Alternativa, che ubicò nei locali del Fronte della Gioventù a via Sommacampagna. La radio, che fu insonorizzata con le famose confezioni di cartone delle uova dallo stesso Buontempo con l’aiuto di attivisti di buona volontà, divenne in brevissimo tempo un punto di riferimento per i missini non solo della capitale, ma di tutta Italia. Molti giovani che sarebbero diventati deputati, senatori, ministri di questo Paese passarono per le stanze di Radio Alternativa dove Teodoro sempre indaffarato chiedeva una sigaretta. Fece conoscere la musica alternativa, allora guardata con diffidenza persino nell’ambiente missino. Ma ebbe ragione lui. E poi dibattiti culturali, discussioni, recensioni, musica, politica, impegno sociale. Fu una radio libera davvero rivoluzionaria.
Buontempo era nato a Carunchio, in provincia di Chieti, il 21 gennaio 1946. Dopo aver studiato a Ortona a mare dove iniziò anche a fare politica, nel 1968 si trasferì a Roma dove partecipò alle prime lotte stidentesche. Per le sue qualità si impose come dirigente della Giovane Italia (la precedente organizzazione giovanile missina) per poi diventare, nel 1972, il primo segretario del neonato Fronte della Gioventù di Roma, incarico che conserverà sino al 1977. Contestualmente, lavorava al Secolo d’Italia, diventando capocronista, e occupandosi sempre dei problemi della città e di politica. Dal 1988 al 1992 è stato il “federale” di Roma, ossia segretario della federazione romana. Membro del Comitato centrale e della direzione nazionale del Msi-Dn, è stato deputato nelle legislature XI, XII, XIII e XIV. Ha ricoperto la carica di segretario regionale di Alleanza nazionale nel Lazio nonché membro dell’Assemblea nazionale dl partito. Rimase iscritto al gruppo parlamentare di Alleanza Nazionale fino al 27 luglio 2007, quando passò al gruppo misto della Camera per poi entrare alla Destra. Nel 2008 divenne consigliere provinciale fino a che, nel 2010, la governatrice della Regione Lazio Renata Polverini lo vuole come assessore alla Casa e alla Tutela consumatori. In questa veste si è occupato delle periferie polemizzando spesso con urbanisti progressisti, teoreti dei palazzoni alla Corviale o alla Tor Bella Monaca con la semplicissima argomentazione: «Scusate – diceva spesso – ma dove sta scritto che una casa popolare debba per forza essere anche brutta?». E a proposito di case, memorabile fu la sua battaglia contro gli enti inutili, detentori, e questa fu la sua denuncia, di moltissimi immobili anche di pregio, assegnati magari agli amici degli amici di chi governava. E non era demagogia: per dimostrare che quegli enti esistevano, non facevano nulla ma costavano salato alla collettività, affittò un pullman e portò i giornalisti in un singolare tour per le sedi e i possedimenti degli enti inutili.
Insomma, un politico anti-politico, che aveva dietro di sé tutti i giovani missini di Roma ma che riusciva a dialogare e convincere i “vertici” del partito della necessità di svecchiare l’azione politica, indirizzandola verso le sfide sociali. Così come non si contano le iniziative politiche o gli incarichi di partito e istituzionali che ha avuto, allo stesso modo non si contano le volte che è stato aggredito, picchiato, fermato dalle forze dell’ordine, o le volte che gli hanno distrutto o incendiato l’automobile. E tutte le volte ricominciava, tornava a fare quello che aveva sempre fatto, armato solo dei suoi ideali e della sua caparbia determinazione. E incoraggiava tutti con quella sua caratteristica voce roca che non dimenticheremo mai.

martedì 23 aprile 2013

Roma • Orma • Amor



Il valore simbolico di Roma -e della sua origine- consiste nell’essere il tentativo di restaurare l’Unità delle origini, attraverso una spiritualità virile e dominatrice che sa arrestare il processo di decadenza spirituale che caratterizzava l’umanità.
Roma è il luogo fatidico, raggiante di luce, espressione sensibile del Centro, dell’ORIGINE, da cui derivano tutte le cose. E’ il luogo dove le tendenze contrarie si armonizzano, neutralizzandosi in un perfetto equilibrio. Compito di Roma è quello di ristabilire l’ORDINE (cosmos) in un mondo in preda al disordine (caos).
Tramontati gli antichi imperi mesopotamici, il regno egiziano, quello persiano e terminata la breve ed esaltante epopea di Alessandro Magno, il mondo era privo di un centro sacrale e militare irradiante i valori di Ordine, Eroismo, Virilità, Volontà, Gerarchia, Aristocrazia e Impero. In quest’opera di riordinamento gerarchico dell’esistenza, sono state vinte, dalle- legioni romane, le popolazioni latine, etrusche, cartaginesi, galliche, greche e semitiche.
Roma ha riportato la luce di una spiritualità virile, essa “non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza se non avesse avuto, in qualche modo, origine divina, tale da offrire agli occhi degli uomini, qualcosa di grande e di inesplicabile” (Plutarco).

L’origine divina dell’Urbe è testimoniata dal mito di Romolo e Remo. Virgilio individua in Enea il progenitore dei Romani. Enea sfuggito all’incendio di Troia approda, dopo sette anni di navigazione, sulle coste del Lazio, dove sposa Lavinia la figlia del Re Latino. Dopo la morte di Enea, il figlio Ascanio fonda sui Colli Albani una nuova città, Alba Longa, dove regneranno 19 suoi discendenti. L’ultimo di questi, Numitore, viene spodestato dal fratello Amulio, che, per assicurare ai suoi discendenti il trono, costrinse l’unica figlia di Numitore, Rea Silvia, a farsi sacerdotessa di Vesta. Rea Silvia viene scelta da Marte per continuare la stirpe d’Enea, da cui sarebbe stata fondata la CITTA’ ETERNA. Dall’unione del Dio e della giovane vergine nascono Romolo e Remo. La nascita non passa inosservata al perfido Amulio che strappa i due gemelli al seno materno, ordinando di buttarli nel Tevere e di far murare viva Rea Silvia. La nutrice a cui i piccoli sono affidati non se la sente di ucciderli, e li deposita in una cesta che abbandona alla acque del Tevere e al volere degli Dèi. La cesta viene trasportata a riva dalla corrente, i due gemelli trovano rifugio presso l’albero di fico “Ruminal”(1) e vengono svezzati da una lupa, per poi essere cresciuti da una coppia di pastori (Faustolo e Acca Larenzia). Una volta adulti Romolo e Remo, venuti a conoscenza delle loro origini si pongono alla guida di un esercito, uccidono Amulio e i suoi seguaci e reìnsediano Numitore, che per riconoscenza concede loro di fondare una città. Per stabilire quali dei due fratelli dovesse tracciare il solco sacro e dare il nome alla città, i due gemelli consultano il volo degli uccelli: Remo dal colle Aventino vede sei avvoltoi, Romolo dal Palatino ne vede dodici. Aggiogando due buoi bianchi(2) viene tracciato il perimetro di Roma, vengono fatti sacrifici agli Dèi e viene acceso un fuoco sacro. Remo sorpreso a saltare per scherno il solco sacro, viene ucciso da Romolo. Era il 21 aprile 753 a.C., NATALE di Roma.

II Mito di Romolo e Remo testimonia l’origine sacra di Roma e Indoeuropea dei romani, restauratori del sacro ordine della Tradizione. Roma nasce sotto il segno del Dio guerriero Marte, e tale paternità sigilla il carattere guerriero e marziale della romanità. L’unione di Marte, espressione dell’aspetto maschile fecondatore dell’esistenza, e di una vergine vestale, espressione dell’aspetto femminile generativo dell’esistenza, testimonia il ritrovato equilibrio fra i due poli opposti ma complementari -maschile e femminile- e l’inizio di un nuovo ordine che avrà come fondatore un eroe divino: Romolo. La nascita di un eroe divino dall’unione fra un Dio e una mortale è un mito ricorrente nei popoli indoeuropei: Zeus e Latona generano Apollo, Zeus e Alcmene generano Eracle, etc. L’abbandono dei due gemelli(3) alle acque e la loro sopravvivenza ripropongono il simbolo dei “Salvati dalle acque”. Ciò rappresenta il superamento del flusso del divenire che travolge e affoga gli uomini deboli, ma che è indifferente a colui che supera la propria natura mortale. Egli è l’EROE, il messaggero della Tradizione, che ha il compito di ristabilire l’Ordine Divino nel mondo.I! fico “Ruminal” presso il quale i gemelli trovano rifugio simboleggia “l’albero del Mondo”, espressione della vita universale da cui traggono nutrimento Dèi ed Eroi (Odino, Eracle, Gilgamesh). Il Lupo rappresenta la forza primordiale e selvaggia della natura ma anche la semplicità, l’asprezza, la forza virile dei conquistatori: è la potenza che rigenera il mondo.I due gemelli rappresentano la lotta fra il principio ordinatore – Romolo - e il caos - Remo.(4) Gli Dèi attraverso il volo dei 12 avvoltoi testimoniano la designazione di Romolo quale fondatore di Roma. Il volo degli uccelli rappresenta la lingua dell’umanità primordiale, la voce degli Dèi. Inoltre il numero 12 è significativo, perchè ricorrente in vari Centri che hanno incarnato e diffuso la Tradizione solare: 12 adityva solari della tradizione Indù, le 12 tappe del cammino del Dio-eroe Gilgamesh, le 12 fatiche di Eracle, i 12 discepoli di Lao-Tze, i 12 Dèi dell’Olimpo greco, le 12 verghe del fascio littorio, i 12 cavalieri della Tavola rotonda, i 12 apostoli, etc. La ritualità seguita da Romolo nel tracciare i confini dell’Orbe, i sacrifici offerti agli Dei indicano il rispetto che il Romano nutriva per le leggi che regolano l’universo. Remo prendendosi gioco del solco sacro sfida presuntuosamente la divinità e ritiene di poter superare i limiti e le facoltà che sono proprie di un comune mortale. Romolo espressione del principio olimpico si oppone alla prevaricazione titanica di Remo, e uccidendo quest’ultimo garantisce il rispetto dell’Ordine.

NOTE
1: Questo nome rimanda all’idea di nutrire: l’attributo di Ruminus riferito a Giove, nell’antica lingua latina designava la Sua qualità di “nutritore”.2: “II duce (Romolo) … comincia a tracciare il solco rituale, badando che all’interno, dalla parte della città, sia la vacca, immagine della fertilità e fuori, dalla parte della campagna, il bue, emblema della forza”. Da “La razza di Roma” di M. Scaligero, pag. 81.3: Il tema dei Gemelli o dei Fratelli si ritrova in numerose tradizioni, come ad esempio in quella egiziana o in quella ebraico-cristiana. E’ il tema di un unico principio dal quale si differenzia una antitesi raffigurata dall’antagonismo tra i due. Uno incarna la potenza luminosa del Sole, l’altro il principio oscuro. In riferimento a Romolo e Remo, il primo è colui il quale traccia il solco e stabilisce così un Limite, l’Autorità, la Legge. II secondo è colui che tale Limite oltraggia, e per questo viene ucciso.4: “Remo, il quale sta a simboleggiare l’elemento antigerarchico, proprio al periodo decadente del matriarcato, vìola la intangibilità del solco e Romolo lo punisce. Ciò vuole significare la inviolabilità di ciò che è ritualmente consacrato e l’affermazione del nascente spirito guerriero olimpico, antiegualitario, sul vecchio spirito orgiastico, comunistico, anarcoide: è il primo atto di giustizia inesorabile, di senso di subordinazione assoluta ad un ideale superiore di cui da quel momento la Civitas sarà la manifestazione vivente”.

Da “La razza di Roma” di M. Scaligero, pag. 78.

mercoledì 17 aprile 2013

Europa dei popoli o delle banche?

Una fiction su Jan Palach, il giovane che si immolò per la libertà contro l’oppressione comunista


da secoloditalia.it

La Primavera di Praga, la repressione sovietica, la speranza di un popolo, il sangue di chi aveva avuto il coraggio di opporsi. Immagini per decenni rubate, pagine spesso strappate dai libri di storia, come quelle delle foibe, come tutte quelle che non erano “politicamente corrette”. E la foto di un giovane che, qui in Italia, era affissa solo nelle sezioni del Msi, come tutte le foto di chi era andato incontro a un sacrificio su cui era sceso il silenzio. Quel giovane era Jan Palach: nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 si recò nella piazza centrale di Praga, si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Un gesto estremo, l’ultimo atto per ribellarsi al comunismo e all’oppressione. Diventò un simbolo, fu considerato un martire da tutti gli antisovietici, in Italia la Compagnia dell’Anello – gruppo di musica alternativa – volle dedicargli un brano che diventò un inno dei giovani di destra. Ma tutt’intorno nulla, il bavaglio, i depistaggi, le ricostruzioni fantasiose per gettare fango, le menzogne del governo, il tentativo di addossare le colpe a ipotetici servizi segreti stranieri. Ma la verità non si cancella e per la prima volta la drammatica vicenda di Palach viene raccontata in una fiction:Burning Bush, film in tre parti, diretto da Holland, sta riscuotendo un enorme interesse. Molto apprezzato in patria, è destinato a diffondersi a macchia d’olio ed è stato mostrato al Miptv di Cannes, mercato-principe dell’audiovisivo. La figura di Jan Palach riemerge ed è stato necessario un tempo infinito perché se ne parlasse: il giovane eroe fu rivalutato solo dopo il crollo del comunismo e la caduta del Muro di Berlino, nel ’90 il presidente Havel gli dedicò una lapide per commemorare il suo sacrificio in nome della libertà e gli è stata intitolata la piazza al centro di Praga, quella che era dedicata all’Armata Rossa. Dopo decenni di silenzi colpevoli.

martedì 16 aprile 2013

Sono passati 40 anni dal rogo di Primavalle, ma alla fine nessuno ha pagato



da secoloditalia.it
È facile e comodo quarant’anni dopo esecrare un crimine come quello di Primavalle. Era allora che si doveva dire la verità, rendere giustizia alle vittime e punire i colpevoli, ma i giornali non la dissero, e vedremo il perché. Sono passati quarant’anni dal rogo di Primavalle, quello in cui un bambino di dieci anni, Stefano, e un giovane di 22, Virgilio, persero la vita nell’incendio che distrusse la loro casa dove abitavano con i genitori e con i fratelli, rimasti tutti feriti in modo più o meno grave. Militanti di Potere Operaio, formazione extraparlamentare dell’epoca, appiccarono il fuoco all’appartamento popolare della famiglia Mattei, in via Bernardo da Bibbiena 33, lotto 15, scala D, interno 5, con della benzina, due litri, secondo le perizie. Gli assassini si chiamano Achille Lollo, Manlio Clavo e Marino Grillo, e per loro uccidere un fascista non era reato, anzi, un’operazione meritoria. Come sembrò anche in seguito a esponenti della sinistra italiana che per loro attivarono una rete di solidarietà formidabile, che giunse anche alla pubblicazione di un libretto,Primavalle, incendio a porte chiuse, in cui si sosteneva l’innocenza dei tre. Libretto redatto da un gruppo di giornalisti “democratici”. Dario Fo e Franca Rame si adoperarono per attivare “Soccorso rosso” in favore di chi aveva causato la morte di un bambino e di un giovane, e con loro altri autorevoli esponenti della sinistra, come Umberto Terracini, presidente dell’assemblea costituente, che oltre a Lollo difese anche Marini, l’omicida di Carlo Falvella, e Panzieri, condannato per l’assassinio di Mantakas. Ma non solo lui. Il quotidiano Lotta Continua il giorno dopo titolò: «La provocazione fascista oltre ogni limite: è arrivata al punto di assassinare i suoi figli». Sì, perché la tesi di tutte le sinistre e non solo delle sinistre fu quella di una faida interna tra fascisti, che per qualche settimana resse, per poi essere frantumata dalle perizie, dai fatti, dall’opinione pubblica, dalla magistratura e, nel 2005, dallo stesso Lollo che, dal Brasile, ammise che quella notte lui c’era e non da solo. Solo il Movimento Sociale e i suoi dirigenti e militanti conoscevano da tempo la verità, da sempre, e tentarono con ogni mezzo di diffonderla, vanamente; ma molti italiani neanche sapevano cosa fosse successo quella notte di 40 anni fa nel popolare quartiere di Primavalle, perché all’intera vicenda fu messa per decenni una sordina mediatica, i morti erano di serie B, figli di un dio minore, di loro non si doveva parlare e, soprattutto, gli assassini non erano tali. Non è successo solo per i morti di Primavalle, ma per tutti i morti “fascisti”, ignorati dall’opinione pubblica e dai mass media “democratici”.
Mario Mattei, il capofamiglia, era il segretario della sezione missina di Primavalle, la “Giarabub”, e il figlio maggiore, Virgilio, morto nel rogo, militava nei “Volontari nazionali”, formazione del Msi. Era una famiglia proletaria, di un quartiere popolare, ma era fascista, e questo l’intelleghentzia comunista non lo poteva tollerare: non poteva tollerare che il Msi a Primavalle non solo esistesse, ma che avesse anche un certo seguito. E così assalti e attentati erano quotidiani, come nelle sezioni dei Msi della vicina Monte Mario, via Assarotti, e in tutti gli altri quartieri popolari dove il Msi è stato sempre presente con rappresentanze significative: dal Prenestino a Portonaccio, da Torre Maura a Tor Pignattara, da Centocelle al Quadraro e in molti altri quartieri. E ovunque la sinistra tentava di cacciarli con le bombe, col fuoco, con aggressioni quotidiane, che talvolta costarono la vita ai giovani di destra. Nell’orazione funebre nella chiesa dei Sette Santo Fondatori il segretario del Msi Giorgio Almirante, che ebbe il non facile compito di gestire un movimento ostracizzato da tutti, perseguitato, disprezzato, odiato, disse tra l’altro che «questo crimine è talmente efferato che, pur conoscendone la precis amatrice politica, stentiamo a definirlo politico. Il teppismo, la delinquenza, non hanno colore», disse, ma poi, abbandonando la cautela con la quale cercò sempre di non scatenare una nuova guerra civile, aggiunse: «Il teppismo, no. La l’odio, l’odio sì. L’odio ha un solo colore, il colore rosso». E non sembri semplice retorica, perché questo sfogo in realtà apre uno squarcio sul clima di ossessiva intolleranza che caratterizzava quegli anni. La questione gira sempre intorno a quella frase, uscita direttamente dalla guerra civile italiana, «uccidere un fascista non è reato».
Il rogo era certamente annunciato, perché Potere Operaio aveva deciso una vasta offensiva contro il Msi di Primavalle: le autovetture e le moto dei “fascisti” avrebbero dovuto essere incendiate, così come gli esercizi commerciali di esponenti della destra nonché attentati con la benzina nelle loro abitazioni. Nei giorni precedenti Lollo, che abitava in zona e che si distinse anche come caporione del liceo Castelnuovo, vera palestra di demagogia e di violenza, si rivolse più volte ad Aldo Speranza, netturbino repubblicano amico dei Mattei, per sapere i nomi e gli indirizzi dei “fascisti” del quartiere per poi poterli colpire. In una occasione Speranza fu condotto da Lollo in un appartamento di Trastevere, “covo” dei radical-chic di Potop, abitato da Marino Clavo ma di proprietà di Diana Perrone, miliardaria nipote del proprietario del Messaggero, giornale che guarda caso sin dai primi giorni propugnò la pista interna per il rogo, poi smentita dai fatti e in tempi recenti dallo stesso Lollo, seguito in questa mistificazione della verità da tutti i quotidiani, anche quelli che oggi condannano il rogo di Primavalle perché costretti dalla storia. In questo appartamento poi furono trovati sia il nastro adesivo sia i fogli a quadretti usati per la rivendicazione. E in questo appartamento Lollo e gli altri mostrarono a Speranza l’esplosivo con cui fu fatta esplodere la sezione del Msi. E il 7 aprile effettivamente fu data alle fiamme la macchina del missino Marcello Schiaoncin in via Pietro Bembo, l’11 aprile una bomba devastava la sezione di via Domenico Svampa, atti rivendicati dalla “Brigata Tanas”. Fina alla mattina del 16 aprile con la strage a casa Mattei, anche questo rivendicato dalla Brigata Tanas. A fine anno l’istruttoria si concluse con il rinvio giudizio per i reati di strage, incendio doloso, pubblica intimidazione, fabbricazione, detenzione e porto di congegni esplosivi gli esponenti di Potere Operaio Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, questi ultimi due latitanti. La sentenza è stata emessa dal giudice istruttore Francesco Amato su richiesta del pubblico ministero Domenico Sica. I tre furono condannati a 18 anni per omicidio preterintenzionale, ma Clavo e Grillo non hanno scontato neanche un giorno. Ma la grancassa antifascista ha sempre surrettiziamente continuato a propalare la tesi della faida interna, come poi fu fatto anche per altri omicidi di ragazzi, a cominciare da quello di Mantakas. Se Lollo nel 2005 non avesse confessato, per gli antifascisti di professione sarebbe ancora una faida, ed è su questo che bisogna riflettere: su come la macchina della menzogna gestita dalla sinistra ha modificato in questi anni la storia italiana. E nei casi in cui un Lollo non ha confessato, è rimasta solo la menzogna…

«Io e l'incubo del rogo»




da www.corriere.it

«Io mi sono salvato perché ero il più piccolo. Avevo 4 anni e dormivo qui, in camera da letto, con mamma e papà, insieme con la più piccola tra le mie sorelle, Antonella, che di anni ne aveva nove. I nostri genitori ci hanno trascinato di peso verso la porta e giù per le scale. Le due sorelle più grandi, Silvia di 18 anni e Lucia di 14, dormivano là, nel tinello, e si sono calate dal balcone». 

Silvia è caduta, si è rotta due vertebre e tre costole, ma si è salvata. Virgilio, il più grande — avrebbe compiuto 22 anni ad agosto — e Stefano, che ne aveva compiuti dieci a febbraio, dormivano laggiù in fondo, nella cameretta. Sono morti bruciati vivi. E non hanno mai avuto giustizia. Prima sono state vittime di una vergognosa campagna di bugie e mistificazioni orchestrata dalla sinistra. Poi sono stati strumentalizzati dalla destra per far sopravvivere una liturgia ideologica. Io mi batto perché i loro assassini paghino. E perché la loro memoria resti viva senza bisogno di essere mitizzata o usata». 

Giampaolo Mattei è un grand’uomo. E non solo perché è alto, grosso, mite. Perché è riuscito a crescere senza odio, nonostante la sua famiglia sia stata vittima di una delle vicende più turpi della storia repubblicana. Nel pavimento della sede della sua associazione, in una viuzza di periferia in riva al Tevere, ha riprodotto la pianta della casa di Primavalle, incendiata con la benzina la notte del 16 aprile 1973, quarant’anni fa, da almeno tre militanti di Potere operaio: Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo. Ma la mistificazione comincia già sui quotidiani del giorno dopo, che il superstite dei fratelli Mattei ha ritagliato ed esporrà nella mostra sugli anni di piombo a Roma, che sta contribuendo a organizzare. Ci saranno anche le foto dei suoi fratelli. Virgilio ragazzo, che sorride accanto alla sua fidanzata Rosalba. Stefano bambino, nudo sul lettone. 

«Non ci sarà la foto di Virgilio affacciato alla finestra, già sfigurato dal fuoco. Lo so che è considerata il simbolo della tragedia. Ma è una foto che per la mia famiglia non esiste: abbiamo conservato le pagine dei vari giornali, e hanno tutte un buco in mezzo. Le mie sorelle ogni volta ritagliavano la foto e la gettavano via, per impedire che nostra madre la vedesse. Quando l’immagine appariva ai telegiornali, uno di noi si alzava e si metteva tra la mamma e il video. Un giorno l’Msi romano tappezzò la città con quella foto. Mio padre chiamò un dirigente per lamentarsi: i manifesti furono tolti. È l’unica volta che l’ho sentito parlare del rogo in cui morirono i suoi figli. Se n’è andato dodici anni fa, senza aggiungere altro». 

«Guardi, questi sono i titoli dei quotidiani del giorno dopo. Lotta continua: “La provocazione fascista oltre ogni limite arriva al punto di uccidere i suoi stessi figli”. Il Manifesto: “È un delitto nazista”. L’inchiesta coinvolse Diana Perrone, figlia di uno dei proprietari del Messaggero, che fece una campagna innocentista, culminata con il titolo a tutta pagina: “Assolti! La vergognosa montatura fascista è crollata…”. Gli intellettuali di sinistra si mobilitarono. Franca Rame scrisse a Lollo: “Ho provato dolore e umiliazione nel vedere gente che mente senza rispetto nemmeno dei propri morti…”. Le vittime erano diventate carnefici. Quando Clavo e Grillo furono fermati in Svezia, Alberto Moravia lanciò un appello perché fossero accolti come esuli politici e non venissero estradati. Umberto Terracini li difese. Riccardo Lombardi scrisse: “Caro compagno Lollo, voglio incoraggiarti a resistere alla persecuzione…”». 

In Appello i tre furono condannati per omicidio preterintenzionale, ma in contumacia. Solo nel 2003, a reato prescritto, Lollo confessò tutto in un’intervista al Corriere della Sera, poi confermata a Porta a Porta, chiamando in causa altri tre militanti. «Mi risulta che ora la Procura abbia riaperto l’inchiesta. Spero ancora che si arrivi a punire i responsabili. Nessuno tocchi Caino, d’accordo. Ma ad Abele chi pensa? Lollo oggi è un uomo libero, forse sta in Brasile. Clavo e Grillo fuggirono in Nicaragua, non hanno fatto neppure un giorno di carcere. Non li odio, ma ho dentro tanta rabbia. Quante menzogne, quante prese in giro. Guardi questo libro, non firmato: “Incendio a porte chiuse”. Montarono la tesi della faida tra missini. Tirarono fuori persino presunte amanti di mio padre, per istillare il dubbio della vendetta passionale…».

«È vero che il clima all’interno del Msi era pesante: mio padre stava con Almirante, talora lo scortava, era contro Ordine nuovo e i rautiani. Ma il pericolo veniva dagli estremisti di sinistra. La sezione di cui mio padre era segretario era intitolata a Giarabub, l’oasi del deserto libico dove gli italiani avevano resistito agli inglesi. Anche papà aveva fatto la guerra, gli americani lo presero prigioniero ad Anzio e lo tennero due anni nel Fascist criminal camp di Hereford, in Texas, con Alberto Burri, Gaetano Tumiati, Giuseppe Berto. In un quartiere rosso come Primavalle, la sezione del Msi era il bersaglio. Il clima dei mesi precedenti al rogo era terribile: quasi ogni giorno una molotov, un’aggressione. Ma pareva impossibile che si arrivasse a uccidere».

«Almirante per noi era una persona di famiglia. Ai suoi comizi veniva sempre il momento in cui citava i fratelli Mattei. I militanti ci baciavano e ci abbracciavano. Io volevo saperne di più, di notte fingevo di dormire e scendevo in cantina a leggere i ritagli, quelli con il buco al posto della foto. Donna Assunta venne al mio matrimonio. Ma poco per volta siamo stati dimenticati. Fini, Gasparri, i capi della destra romana non si sono mai fatti vivi. Da quando è diventato sindaco sento Alemanno. Anche la Meloni ci ha aiutati. Veltroni ha avuto coraggio, è venuto a trovare mia madre senza telecamere, ci ha fatto incontrare i familiari dei morti di sinistra, ho abbracciato la mamma di Valerio Verbano, il padre di Walter Rossi. I militanti di estrema destra non me l’hanno perdonato. Ho ricevuto insulti, minacce. Ma io non voglio che i miei fratelli diventino pretesto per manifestazioni di revanscismo fascista e scontri con i centri sociali. I miei fratelli voglio ricordarmeli vivi. Quando nel 2008 ho scritto un libro, “La notte brucia ancora”, sulla copertina ho messo una loro foto al mare, in costume da bagno, felici. Mi piacerebbe tanto ritrovare Rosalba, la fidanzata di Virgilio, perché mi parli un po’ di lui. So che era romanista perché sulle bare misero il tricolore e il gagliardetto giallorosso, che però si sono polverizzati quando abbiamo tolto i miei fratelli dal loculo per seppellirli nella cappella che papà aveva preso al Verano. Con le famiglie delle altre vittime non è una pacificazione; io non ho litigato con nessuno. Preferisco parlare di condivisione. Mettiamo in comune la rabbia e il dolore, la difesa della verità e della memoria».

domenica 14 aprile 2013

Wounded Knee rischia di andare all’asta. L’ultimo oltraggio agli indiani d’America



da secoloditalia.it
“Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose. Quando guardavo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia, ancora vedo le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo quel burrone a zig-zag. Chiaramente come li vidi coi miei occhi da giovane. E posso vedere che con loro morì un’altra cosa, lassù, sulla neve insanguinata, e rimase sepolta sotto la tormenta. Lassù morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno… il cerchio della nazione è rotto e i suoi frammenti sono sparsi. Il cerchio non ha più centro, e l’albero sacro è morto”. Le amare parole di Alce Nero chiudono forse il più bel romanzo scritto da Dee Brown sulla storia dei pellerossa, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee. 
Parole che segnano la fine della epopea del West. Con i suoi miti, i racconti, le avventure, il commercio di pellicce, i cercatori di pepite d’oro, le Giacche Blu, gli avventurieri, la costruzione delle ferroivie e delle città di legno, i saloon e le tende avvolgenti delle immese praterie solcate da mandrie di bufali. E’ il volto del Nuovo Mondo che si affaccia all’orizzonte. Il rumore dello sviluppo che romba come un tuono all’orizzonte. Con le sue trasformazioni immense e caotiche. Con la sua rivoluzione industriale che scompagina il vecchio equilibrio ecologico. E’ il nuovo volto dell’America. Dell’Uomo bianco che vive la sua libertà togliendola ad altri. E gli “altri” sono gli indiani. Una presenza, la loro, antistorica, di ostacolo al progredire incessante della “civiltà”.  Almeno così è stata  per tanto tempo rappresentata dai vincitori, come sempre accade quando c’è da scrivere pezzi di storia controversa, segnati da sangue, violenza, rapacità.
Eppure, quella flebile voce dei “vinti” , dei Sioux, dei Navaho, dei Cherokee, degli Apache, non è andata dispersa del tutto. La loro parola ha fatto breccia nel silenzio soffocante calato su quel brutale etnocidio. La narrazione dello sterminio dei pellerossa si è fatto arte nella cinematografia ed icona di un popolo che seppe avere memorabili capi che, nella loro struggente semplicità e mirabile saggezza, seppero prevedere quel che sarebbe accaduto. Vittime e testimoni, al tempo stesso, del prepotente irrompere della scienza e  della tecnica nei processi di civilizzazione dell’umanità.
Ora, a più di un secolo da quegli eventi che cambiarono il Mondo, Wounded Knee, il luogo dell’ultimo massacro, torna a far parlare di sé. Per una complessa storia di successioni quel fazzoletto di terra, dichiarata dal governo americano National Historic Landmark , rischia di andare all’asta. Gli attuali proprietari se ne vogliono disfare. E questa misera storia fa il paio con l’altrettanta irraguardosa vicenda che vede, in questi giorni, messi all’incanto in un asta record a Parigi i cimeli dei nativi americani, gli spiriti sacri degli antenati Hopi. Né le proteste di Robert Redford né la mobilitazione ufficiale dei Dipartimenti americani di Stato sono riusciti a bloccare la “più grande vendita di arte sacra Hopi della storia”. Sicchè, a suon di centinaia di migliaia di dollari, maschere multicolori di epoca antica, decine di copricapo ornati con piume e decorati con pigmenti naturali a richiamare la divinità degli antenati, secondo le credenze degli Hopi, sgominati nel Diciassettesimo secolo dai conquistatores spagnoli, sono finiti in mani  di ricchi collezionisti. Con nessun rispetto per il valore “sacro” di quegli oggetti.
Ed è su questo che varrebbe la pena riflettere. Edonismo, egoismo, spirito speculativo, sono talmente entrati nelle corde dell’umanità da far perdere di vista il significato profondo del “sacro”. Un monumeto, un oggetto che racchiude in sé ricordi, storie, sofferenze, testimonianze, porzioni di vita vissuta, narrazioni di comunità spazzate via dalle guerre degli nuomini, preserva un carattere sacro che lo dovrebbe rendere indisponibile, affidato alla memoria. Sempre che al “sacro” si riesca ancora dare senso e significato. Quale espressione intimamente profonda di quel bisogno dell’essere di credere in qualcosa che superi  la dimensione materialistica della vita. Il Sacro nel suo portato divino. Nella sua “religiosità”. Chiediamoci: c’è spazio ancora, ai nostri giorni, per l’Homo religiosus ?

sabato 13 aprile 2013

‘Gli occhi della guerra’ di Almerigo Grilz (oggi avrebbe compiuto 60 anni)...




da Barbadillo.it

Se non avesse incontrato una maledetta pallottola vagante laggiù, in Mozambico, oggi avrebbe compiuto sessant’anni. E probabilmente sarebbe stato in giro per il mondo con un taccuino, una videocamera e una macchina fotografica. Difficile immaginare Almerigo Grilz dietro una scrivania… Il reportage di guerra era diventato il suo lavoro, ma rimaneva soprattutto una grande passione.

Nato a Trieste l’11 aprile del 1953, militante e dirigente del locale Fronte della Gioventù e dell’Msi, nonché consigliere comunale triestino e vicesegretario del FdG nazionale, Almerigo muove i suoi primi passi da giornalista sul quindicinale Dissenso, organo del Fronte della Gioventù. Quella che inizialmente era nata come una naturale conseguenze della sua passione politica, pian piano si trasforma in una professione. Una professione, anche in questo caso, fuori dal coro. Perché sui giornali “normali” non c’è posto per un reporter free-lance fascista, anche se bravo e coraggioso.

Grilz infatti ama documentare le guerre dimenticate, quelle trascurate dai giornali e dalle televisioni italiane, in Paesi lontani dove gli inviati a cinque stelle non mettono neanche piede. Con due amici-camerati della sezione triestina del FdG, Fausto Biloslavo e Gian Micalessin, fonda nel 1983 la Albatross Press Agency, un’agenzia di stampa specializzata in reportage giornalistici scritti, fotografati e filmati dai fronti caldi di mezzo mondo: Libano, Afghanistan, Iran, Iraq, Cambogia, Etiopia, Filippine, Angola. «Per raccogliere il primo gruzzolo e partire per l’Afghanistan, invaso dai sovietici - racconta Biloslavo – Almerigo vendeva libri di Ciarrapico, Gian trasportava carta igienica ed io alzavo la sbarra d’ingresso in un campeggio a Grado. Il nostro inno divenne ben presto “Vita spericolata” di Vasco Rossi».

Almerigo Grilz è sempre in prima linea. Con macchina fotografica e videocamera documenta l’orrore delle guerre civili, le crudeltà delle battaglie che nessuno vede, il pugno di ferro dell’imperialismo sovietico. Ma anche singoli atti di eroismo, la speranza di chi non si arrende, la solidarietà. In Italia è semi sconosciuto, così come la sua agenzia giornalistica, ma all’estero Grilz comincia a farsi un nome. Acquistano i suoi reportage le reti americaneCbs e Nbc, la televisione statale tedesca, il Sunday Times, l’Express. Da noi l’Albatross fa fatica a ottenere contratti: il marchio di fascista pesa ancora troppo. Solo il Tg1, Panoramae soprattutto il settimanale ciellino Il Sabato rompono in fronte “antifascista”.

Nella tarda primavera del 1987 parte per il suo ultimo reportage. Il 19 maggio un proiettile vagante lo colpisce in Mozambico, mentre sta filmando uno scontro a fuoco fra i ribelli della Renamo e le forze governative. E’ il primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dalla fine della Seconda guerra mondiale, ma sui giornali la notizia viene data in scarni trafiletti. C’è persino chi aggiunge infamia all’indifferenza: «Ucciso un mercenario» titola un quotidiano di sinistra, mentre altri insinuano che si tratti di una spia o di un mercante d’armi. Aveva 34 anni e secondo le sue volontà viene sepolto in Mozambico. Quindici anni più tardi l’amico Micalessin realizzerà un documentario filmato sui luoghi della sua morte, montando, insieme alle sue, proprio le immagini girate da Almerigo fino all’istante stesso della morte.

Il suo nome è inciso sul monumento che Reporters sans frontières ha voluto dedicare a tutti i giornalisti caduti sul campo sulle spiagge della Normandia, dove il mitico fotografo Robert Capa sbarcò nel 1944 con la prima ondata di truppe alleate. E la sua Trieste gli ha dedicato una via sul lungomare cittadino. Ma non c’è posto per il nome di Grilz sulla facciata del palazzo che ospita la sede dell’Ordine dei giornalisti e dell’Associazione della stampa di Trieste, dove sono collocate le lapidi che ricordano i giornalisti giuliani caduti nell’esercizio della loro professione: Marco Luchetta, Sasha Ota e Dario D’Angelo, della Rai, morti a Mostar durante la guerra civile nell’ex Jugoslavia; e Miran Hrovatin, ammazzato a Mogadiscio assieme a Ilaria Alpi.

Lo denunciava, in un lungo articolo pubblicato su Il Foglio Quotidiano del 19 maggio 2007, proprio Fausto Biloslavo, che di Grilz fu amico, collega e “camerata”. «Nonostante le ripetute richieste, dei suoi amici e colleghi, l’ultima in occasione del ventennale (della morte, ndr) – scrive Biloslavo – non c’è verso di aggiungere una targa per Almerigo, il giornalista dimenticato. Nel 2002 il Comune di Trieste, conquistato dal centrodestra, gli dedicò una via sollevando la levata di scudi del quotidiano locale e di tanti benpensanti. A vent’anni dalla sua morte, solo l’Ordine dei giornalisti sembra aver iniziato a passare il guado, con un timido patrocinio delle iniziative che ricordano Grilz, come “Gli occhi della guerra”. La targa, però, è un tabù difeso a spada tratta dal sindacato unico dei giornalisti, che in passato riuscì a giustificare il suo niet sostenendo che una nuova lapide renderebbe la facciata dello stabile una sorta di orto lapidario».

Insomma, sulla facciata della sede dei giornalisti triestini non c’è posto per Almerigo Grilz. Neanche da morto. Fuori dal coro anche in memoriam, verrebbe da dire. Forse non gli sarebbe spiaciuto poi tanto, visto che “Ruga” – come lo chiamavano gli amici – ha sempre amato remare controcorrente.

giovedì 11 aprile 2013

Non serve uscire dall'euro, basta dichiararlo di nostra proprietà



da rapportoaureo.wordpress.com
Nell’era della grande Depressione nostrana, molto più disastrosa e pericolosa di quella del 1929, imperversano teorie e ipotesi di qualsiasi salsa sul sistema monetario. E’ evidente che l’€uro è stato un fallimento, non serve ricordare la tragedia greca o l’esproprio cipriota per arrivare a capirlo: tutta l’Eurozona è in crisi nera, e noi la stiamo vivendo sulla nostra pelle. Inevitabilmente, dopo anni di malainformazione, si arriva ad identificare nel sistema bancario e finanziario il fulcro del problema. Qualcuno ci ha messo un pochino, ma alla fine la storiella della cattiva gestione della cosa pubblica (cosa verissima e da combattere) come causa di tutti i mali non sembra più reggere: i ladri di polli (politici, sindacalisti, dirigenti della PA e pidocchi di simil fattura) non riescono più a coprire i veri ladri che si nascondono dietro il sistema finanziario internazionale. Lo dicono i numeri: di fronte ai “milioncini” intascati dagli specchietti per le allodole di cui sopra, stanno i miliardi dello scandalo MPS, piccola punta del grande iceberg contro cui la Titanic-a Unione Europea sta andando a sfracellarsi.

Per dirla con le parole di Ezra Pound, la gente comincia a capire che se il piatto piange non è colpa del cameriere ma del padrone del ristorante, che oggi vuole essere pagato anche se fa portare piatti vuoti.
Tra le ricette che le simple minds che cianciano di economia nei giornali e nelle tv, ritorna in auge il caro e vecchio Quantitative easing, ovvero il pompaggio indiscriminato di moneta fresca di stampa che va ad iper inflazionare il sistema. Il caso della Banca Centrale Giapponese sta sontagiando sempre più peronse, come se la Repubblica di Weimar non avesse già fatto scuola il secolo scorso, come se non si sapesse che all'immissione di nuova liquidità creata ex nihilo non conseguirebbe l'aumento indiscriminato dei prezzi e dell'aggravarsi della crisi. E c'è ancora chi dice che se avessimo una Banca Centrale che stampa moneta tutto si risolverebbe con estrema facilità. Giova ricordare che la BCE di Mario "Goldman" Draghi ha stamapto (termine improprio perchè in realtà li ha fatti apparire sui terminali del sistema bancario) negli ultimi mesi più di 1000 MLD di €uro con una manovra chiamata LTRO. Il problema è che questa liquidità è rimasta nella pancia del circuito finanziario con lo schema seguente: la BCE mette a disposizione della banche europee 1000 MLD (al tasso dello 0,75%), le banche europee decidono di investire una parte di questa liquidità nei titoli di debito degli stati (BOT, CCT, BUND, BONOS etc.) con tassi che variano dal 4 al 7 %, questi ultimi non immettono liquidità nel sistema dell'economia reale perchè usano una parte del denaro per pagare gli interessi sul debito, l'altra per versare all'ESM la quota di partecipazione. Così, "semmai dovessimo rischiare il default", l'ESM ci presterà ad interesse quei soldi che gli abbiamo dato e per i quali ci siamo indebitati.
E' la babele dell'usura.

Una soluzione quindi sarebbe quella di adeguarsi al sistema delle Banche Centrali di tutto il mondo per stampare moneta direttamente, con gli effetti già descritti sopra.
L’altra soluzione che si propone, sostanzialmente identica dal punto di vista sistemico, è quella di uscire dal cappio dell’€uro per tornare alla cara e vecchia lira, con la Banca d’Italia che stampa e lo Stato italiano che si indebita. Con conseguenze inimmaginabili: svalutazione galoppante del nostro potere d’acquisto, iperinflazione e un tasso di cambio a dir poco svantaggioso. Certo, non è che rimanendo dentro l’€urosistema le cose migliorino, ma possibile che non ci sia nessuna soluzione che non preveda una catastrofe? Possibile che gli economisti (per mancanza di prove) che frequentano i salotti televisivi non abbiano nessun’altra soluzione?

Eh no signori miei, continuate a girare intorno al problema che si chiama debito.
quiz

Nessuno osa approfondire la natura del debito, tutti si guardano bene dal voler studiare la moneta. E' lì il problema, è lì che nasce il debito. Quindi l’unica vera soluzione non è quella di tornare alla Lira (c’è chi pensa che così si torni alla sovranità monetaria!) con una Banca che finanzia direttamente il debito, e non è quella di trasformare la BCE in una Federal Reserve, ma è quella di attribuire la proprietà della moneta, nell’atto della sua emissione, a chi gli spetta: ai cittadini. La commissione europea, per bocca di Olli Rehn, ha già ammesso che c’è un buco legislativo sulla proprietà dell’euro, non rimane che colmare questo buco giuridico con una legge, come quella presentata nel 1997 da alcuni senatori italiani, ma che il Senato non ha nemmeno mai discusso.
La soluzione è a portata di mano, basta solo far comprendere che fino ad oggi ci hanno indebitato con i soldi nostri. E dobbiamo riprenderceli.
Twitter @francescofilini

mercoledì 10 aprile 2013

Primavera Colle Oppio


Scegliamo il meglio


Per le elezioni amministrative di Roma Capitale del 26 e 27 maggio, Fratelli d’Italia si affida allo strumento delle primarie per dare voce al popolo del centrodestra. 
Dall’11 al 16 aprile, prenderanno il via due iniziative che consentiranno ai cittadini di partecipare direttamente alle scelte politiche del movimento: “Decidi tu” e “Scegliamo il meglio”. I cittadini romani potranno recarsi nei gazebo allestiti in tutta la città e nelle sedi territoriali del movimento o collegarsi sul sito www.fratelli-italia.itper scegliere direttamente “sindaco, idee, candidati”. Due i quesiti a cui rispondere. Il primo riguarderà le scelte che Fratelli d’Italia e il centrodestra dovranno perseguire in vista delle elezioni per il Campidoglio. Il secondo consentirà agli elettori di indicare temi prioritari e caratterizzanti nel programma del futuro Sindaco di Roma. I cittadini potranno proporre proposte e progetti per migliorare Roma. E potranno presentare la loro candidatura per l’Assemblea Capitolina e per i Consigli Municipali nelle liste di Fratelli d’Italia, che saranno all’insegna del merito, della competenza e della trasparenza. Da giovedì 11 a martedì 16 aprile sarà possibile votare attraverso il sito ufficiale del movimentowww.fratelli-italia.it. Da sabato 13 a martedì 16 aprile, dalle ore 10 alle ore 20, si voterà anche presso i gazebo allestiti in 37 piazze romane e nelle 19 sedi territoriali di Fratelli d’Italia, presenti in ogni municipio della Capitale. Potranno votare alle primarie tutti i cittadini italiani e i cittadini di altri Paesi europei che hanno compiuto 16 anni di età, che si riconoscono nel centrodestra e che sono residenti nel territorio di Roma Capitale. Per votare è necessario presentarsi al seggio con un documento di identità valido. Non è previsto alcun tipo di sottoscrizione obbligatoria.