Il primo pomeriggio di quel 23 maggio
studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto
commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso
universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come
solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo,
nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla
telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni
Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.
Ricordo bene che mio padre, ancora con
tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di
casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la
televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto.
Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli
nulla né lui proferì parola.
Si cambiò e raccomandandomi di non
allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da
qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale
dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero
spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia
segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre
che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio,
salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo
dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti
conoscevamo.
Ho iniziato a piangere la morte di mio
padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera
ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai
dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico
fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi
già piangendo la sua. Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai
ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la
mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e
soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio
era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni
immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami
di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e
diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale
distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo
attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che
lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre
Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché
gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci
abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo
“preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e
collega Giovanni.
La mattina del 19 luglio, complice il
fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni
universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario
in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni
giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo
con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti,
come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia,
Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva
anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la
residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla
nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli,
titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di
Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande
spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno
spensierate stagioni estive.
Mio padre, in verità, tentò di scuotermi
dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare
strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente
insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata
impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui
avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa
che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era
in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo
tre giorni dopo la morte di suo padre. Non era la prima estate che, per
ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano
state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e
Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno
precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di
pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del
trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti
mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi
all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo
avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi
figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni
precedenti era riuscito ad assicurarci.
Così quell’estate la villa dei nonni
materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i
momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta”
per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata
protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando
arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo
amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non
posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via
D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi
quel sole e quel mare. Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento
piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle,
crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa
contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le
immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande
appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era
risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi
in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un
minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di
sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.
Dopo quello che fu tutto fuorché un
riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il
costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda
rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e
dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata
sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre
lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io
l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva
l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non
ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri
entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con
gli zii. Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel
pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo
di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio.
Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci
preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai
miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia
che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.
Non vidi mio padre, o meglio i suoi
“resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto
dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti,
che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo
fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi
successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era
rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno
della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo
la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando
incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo,
sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha
intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza
di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da
quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare
un’ultima volta.
La mia vita, come d’altra parte quella
delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19
luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da
subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia
sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in
particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci
trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che
noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi
proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e
gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare
mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso
immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007,
quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico
nipote maschio.
Oggi vorrei dire a mio padre che la
nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che
lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben
conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il
nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito
le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre
attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”,
rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere
un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei
anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è
stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe
stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce
l’avrebbe fatta.
Mi piace pensare che oggi sono quello
che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che
nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una
dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre,
indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la
morte di mio padre, una persona che in un modo o nell’altro avrebbe
“sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento
traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o
assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa
Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre,
per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che
non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che
chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle
condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il
favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma
condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il
favore o la raccomandazione ricevuta.
Ai miei figli, ancora troppo piccoli
perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere
proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma
significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti
della sua vita.
Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.
( La testimonianza del figlio del
giudice – pubblicata per gentile concessione dell’editore – chiude il
libro “Era d’estate”, curato dai giornalisti Roberto Puglisi e
Alessandra Turrisi)
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