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mercoledì 14 febbraio 2018

Italianità


Quest’anno ricorre il centenario della vittoria della I Guerra Mondiale, in seguito alla quale l’Istria, Zara e poi Fiume entrarono a far parte del territorio italiano, completando il processo risorgimentale unitario.
 
Per ricordare questa ricorrenza abbiamo deciso di interrogarci non soltanto sulla storia del confine orientale ma su quell’elemento che ci rende popolo: l’italianità.
 
Un’identità fatta di lingua, cultura, tradizione, storia comune, comune sentire, che rappresenta il presupposto stesso per l’amore per la nostra terra e per la nostra gente.
 
Un’identità che interessò anche quanti, in Istria e Dalmazia, in seguito alla II Guerra Mondiale, non potendo accettare di sentirsi ospiti in casa propria decisero – anche in conseguenza delle persecuzioni titine – di rifugiarsi nella Madrepatria. Abbiamo perciò voluto sottolineare come sia importante riscoprire questo legame, in virtù del quale centinaia di migliaia di istriani hanno scelto la destinazione del proprio esilio.
 
Abbiamo provato a raccontare tutto questo in un manifesto in cui Nazario Sauro, l’eroe italiano e istriano della Grande Guerra, compare al fianco di Dante Alighieri, simbolo indiscusso e invidiato della nostra grande identità nazionale.
 
Ad accomunare i due personaggi, le cui vite furono temporalmente e geograficamente così distanti, fu proprio la comune appartenenza e dedizione all’italianità, al comune sentire della grande famiglia degli italiani che prescinde dal tempo, dallo spazio e dai confini degli Stati.

"Comitato 10 Febbraio"

giovedì 18 gennaio 2018

Il silenzio degli indecenti su una gag da porcile


 da iltempo.it / di Marcello Veneziani

Claretta Petacci paragonata a un maiale. 
Lei che volle stare a fianco del suo uomo anche nella cattiva sorte.

Ma non provate vergogna, voi della Sette, Floris, Mentana e voi Autorità Vigilanti, Presidenti di Camere, Senato, Anpi, Femministe, davanti alla schifosa, incivile battuta di Gene Gnocchi – se questo è un comico – sulla scrofa che razzola tra i rifiuti romani e che lui ha battezzato con la genialità di un demente malvagio, Claretta Petacci?

Non stiamo parlando della macabra e bestiale macelleria di Piazzale Loreto, che fa vergognare ogni paese civile; non parliamo nemmeno di feroce vendetta contro un dittatore, un regime, una guerra. Qui parliamo di una donna che per amore solo per amore volle stare a fianco del suo uomo anche nella cattiva sorte, fino a condividere la morte, e prima lo stupro e poi lo scempio del cadavere. Non ebbe responsabilità durante il fascismo, Claretta Petacci, non trasse profitto, non consigliò mai Mussolini su nessuna scelta né lo spinse a commettere errori, non fece cerchio magico intorno al Duce. Fu amante appassionata e devota, spesso tradita, sempre ferita dall'essere comunque l'altra rispetto alla moglie e alla madre dei suoi figli. E persino lei, la sanguigna, verace Rachele, non ebbe parole di odio per la donna che restò al fianco di suo marito fino a farsi trucidare con lui, ma si lasciò sfuggire un moto sommesso di affetto e perfino di dolcissima invidia, perché avrebbe voluto essere stata lei al suo posto.

I versi di un grande poeta come Ezra Pound su Ben e Clara appesi per i calcagni resteranno nei secoli. Del resto ognuno ha il cantore che si merita: c'è chi ha Ezra Pound e c'è chi ha Gene Gnocchi. Ricordo anni fa che uno storico divulgatore, di cui per carità verso un defunto taccio il nome, scrisse un libro sugli amorazzi di Mussolini, sulle sue amanti e i suoi figli illegittimi e per promuovere il libro organizzò una cena in tema. Nel menù c'era “petto di tacchino farcito alla Claretta”. Mi parve allora bestiale quell'allusione spiritosa al petto della Petacci e soprattutto alla farcitura che poi nella realtà fu una sventagliata di proiettili. Ma quella spiritosaggine triviale sembra oggi una delicatezza da gentleman rispetto alla battuta da porcile di Gnocchi.

Femminicidio, violenza alle donne, sessismo, che considera l'amante femminile sempre una troia, volgarità in tv, correttezza di linguaggio: vanno tutti a puttane nel silenzio generale, col sorrisino compiaciuto di Floris, davanti a quell'atroce, feroce porcata di Gnocchi. Mi auguro che sia solo un frutto di abissale ignoranza, anche se è difficile pensare che uno anziano come Gnocchi non sappia almeno per sommi capi la storia. Un’ignoranza becera, comunque aggravata dal fatto che insultare i fascisti, calpestare i cadaveri loro e dei loro congiunti, è facile, hai dalla parte tua le istituzioni, i media, il conformismo della cultura, i parrucconi e i maestri censori. Magari ti scappa un contratto, una menzione, un elogio per il tuo intrepido coraggio antifascista. Mi auguro che la gente lo cancelli definitivamente dal novero dei comici; che resti a fare le sue serate comiche nei centri sociali, ma di quelli antagonisti feroci, o all'Anpi che non ha mai un moto di umanità verso i morti, i vinti e i trucidati o nelle sette sataniche. Che racconti a loro le sue troiate. E che finisca lui tra i rifiuti della tv spazzatura, insieme alla scrofa di cui ha meritato la parentela.

martedì 16 gennaio 2018

A Jan Palach


Il 16 gennaio 1969 #JanPalach, patriota cecoslovacco,
si immola dandosi fuoco a Piazza Venceslao nel cuore di Praga, 
una scelta volontaria e consapevole 
per far luce sulla repressione sovietica verso il suo popolo, 
muore dopo 73 ore di agonia. 
Amare la propria terra donando la vita.

martedì 9 gennaio 2018

Strage di Acca Larentia, la Raggi diserta la commemorazione




da ilgiornale.it / di Elena Barlozzari

Il Comune di Roma diserta il quarantesimo anniversario della "strage di Acca Larentia". Fratelli d'Italia: "Assenza grave"

A quarant’anni dalla "strage di Acca Larentia", il Comune di Roma incassa un’altra brutta figura.  

Dopo aver sfrattato la destra romana dall’ex sezione del Movimento Sociale di Colle Oppio ed aver "sbianchettato" il murales di Mario Zicchieri, la storia si ripete.
Davanti all’ex sede del Movimento Sociale di via Acca Larentia, nel quartiere Tuscolano, ci sono solo il cerimoniale del Campidoglio e la polizia locale a deporre la corona che ricorda l’assassinio di Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni. Il presidente dell’assemblea capitolina, Marcello De Vito, che avrebbe dovuto rappresentare il Comune di Roma, non arriva. Ha dato forfait.
A denunciare "la grave assenza" dell’amministrazione Raggi sono gli esponenti di Fratelli d’Italia Fabrizio Ghera e Andrea De Priamo, rispettivamente capogruppo in Campidoglio e consigliere comunale. Sono entrambi lì, per rendere omaggio a quelle giovani vite spezzate, assieme ad una delegazione del partito di Giorgia Meloni. Si accorgono immediatamente che non c’è nessun rappresentante dell’amministrazione grillina.

Sentito da Il Giornale.it, De Priamo, racconta: "Ho chiamato De Vito per sincerarmi se venisse, lui non mi ha risposto, poi mi ha richiamato dicendo che non poteva esserci". Sull'assenza del delegato del sindaco circolano due versioni discordanti. Si mormora che se ne sia letteralmente dimenticato, forse per un errore della sua segretaria che non avrebbe trascritto l'appuntamento. Poi però arriva la versione ufficiale: quella del "malore". Monta comunque il caso. Nel tentativo di gettare acqua sul fuoco, De Vito, parla di "polemiche inutili" e minimizza: "Era presente la polizia locale che ha deposto una corona". Si è trattato del "minimo sindacale", ribatte il consigliere di Fratelli d'Italia e rilancia: "Sarebbe stata doverosa la presenza della Raggi".

E sul perché non si sia provveduto a mandare qualcun’altro in sostituzione di De Vito aleggia il mistero. Sciatteria grillina o volontà politica? Da settimane, ormai, il sindaco di Roma è in campagna elettorale, nel tentativo di ridimensionare l’impatto negativo che le alterne vicende del suo governo rischiano di avere sul voto. La richiesta di giudizio immediato e lo slittamento del processo a suo carico, che si terrà dopo l’apputamento con le urne, sembrano confermarlo. La presenza di un suo rappresentante in via Acca Larentia avrebbe potuto creare altri imbarazzi? Resta una supposizione. Nessuno però ha dimenticato il recente exploit antifascista del primo cittadino.
"La Raggi - conclude De Priamo - non si è mai dimostrata un sindaco equilibrato ed equidistante".
 

domenica 17 dicembre 2017

Il murales per Zicchieri torna al suo posto, la sorella: "Sono commossa"


da ilgiornale.it / di Elenz Barlozzari  

La scritta "sbianchettata" una settimana fa dagli operatori dell’Ama è tornata al suo posto. 
La sorella di Zicchieri è commossa. 

Sono le 19 passate da qualche minuto e il telefono di Barbara Zicchieri emette un suono. 

Le è appena arrivata una foto via WhatsApp: nero su bianco, sul muro di via Gattamelata, si legge “Mario Vive”. La scritta “sbianchettata” nemmeno una settimana fa dagli operatori dell’Ama è tornata al suo posto. Grazie a qualcuno che non si è firmato ma, evidentemente, ha molto a cuore il ricordo di suo fratello. Mario Zicchieri, alias “Cremino”, 17 anni ancora da compiere quando viene freddato a due passi dalla “sua” sezione, quella del Msi del Prenestino. Era un pomeriggio di fine ottobre di quarantadue anni fa. Da allora, sul luogo dell’omicidio, c’è scritto che Mario, per chi lo ama, non è mai morto.

Quando il decoro urbano ha passato un colpo di spugna su quella parete, per Barbara è stato uno choc. Aveva preso carta e penna, e aveva scritto una lettera aperta al sindaco di Roma Virginia Raggi. “Lei che ha la responsabilità di rappresentare Roma” dovrebbe “tener conto della storia”. Anche quella di Mario, “brutalmente assassinato dalle Brigate Rosse”. “Mio fratello – scrive Barbara – è una vittima di Stato” e “l’oltraggio di cancellarne la memoria, mi consenta, è un’offesa allo Stato”. Nessuna risposta.

La foto del “nuovo” murales di Mario rimbalza sui social già dalla prima mattinata di ieri, l’hanno pubblicata i ragazzi della sezione di Fratelli d’Italia di Colle Oppio (chiusa per ordine della stessa amministrazione che poi ha cancellato il ricordo di Zicchieri) e il deputato Fabio Rampelli l’ha rilanciata. A Barbara viene comunicato solo in serata, lo ha scoperto da pochi minuti quando ci risponde al telefono. È un fiume in piena. “Mi sono commossa, ho pianto ti giuro ho pianto, ero sicura che sarebbe stata ripristinata, non ne avevo avuto dubbi”, racconta. “In questo momento non riesco a dire di più, è un sentimento che va oltre le parole, è come se lì ci fosse ancora Mario, gli altri non possono capire, rivederla è stato come rivedere lui, senza non è la stessa cosa”.

Il primo pensiero è quello di avvisare la signora Maria Lidia, che oggi ha ottant’anni e ancora non si dà pace per quello che è successo a Mario. “Mia mamma – commenta – ancora non lo sa, appena glielo dico sarà felicissima”. Ed il secondo va a chi ha rifatto il murales: “Mi rendo conto che è stato un bel rischio, dirgli grazie è poco, ci hanno resi felici, può sembrare niente ma per noi è tanto”. Passata l’euforia, una domanda ricomincia a fare capolino, è sempre la stessa da giorni: “Perché – si chiede Barbara – proprio quella scritta? Sui muri c’è scritto di tutto e di più, io attendo ancora una risposta dalla Raggi, perché proprio la scritta di Mario?”. Alla famiglia Zicchieri, a Barbara, a Maria Lidia e agli altri parenti che da quasi mezzo secolo s’interrogano sulla verità di quel 29 ottobre di tanti anni fa, almeno questa risposta andrebbe data.

venerdì 15 dicembre 2017

Roma avrà una via dedicata a Lando Fiorini


In Campidoglio approvata la proposta di Fratelli d'Italia
per una via a Lando Fiorini al Giardino degli Aranci.
Roma non dimenticherà chi l'ha saputa raccontare come pochi! Ci piace ricordarlo così, con questa foto da giovane insieme all'indimenticabile Alberto Sordi, 2 icone di Romanità.
#fratelliditalia

COMUNE, DA CONSIGLIO OK A MOZIONE PER VIA INTITOLATA A LANDO FIORINI
(OMNIROMA)
Roma, 14 DIC

- Una via nei pressi della zona Aventino-Giardino degli Aranci sarà intitolata a Lando Fiorini, artista romano recentemente scomparso.
E' quanto prevede la mozione, presentata dal gruppo capitolino di Fratelli d'Italia, e approvata all'unanimità in assemblea capitolina questa mattina dopo l'apertura con un minuto di silenzio in memoria del cantante deceduto all'età di 79 anni.

mercoledì 13 dicembre 2017

Lettera alla Raggi: “Lei ha oltraggiato la memoria di mio fratello Mario Zicchieri”



da secoloditalia.it
 
È una vera e propria denuncia al sindaco di Roma, Virginia Raggi, responsabile di un’ennesima offesa alla città. Un’offesa inaccettabile: la rimozione a opera del murale dedicato a Mario Zicchieri, per tutti Cremino, il giovane missino appena sedicenne che fu freddato da un commando di brigatisti rossi il 29 otttobre 1975 a via Gattamelata nel popolare quartiere Prenestino a Roma. A firmarlo è la sorella di Mario, Barbara Zicchieri

“Lei oggi a Roma, grazie al voto dei cittadini Romani, ha il mandato di sindaco e la responsabilità di rappresentare la nostra amata Città Eterna.

La mia città, la nostra città è certamente molto complessa, e so bene la grande complessità che si deve affrontare per gestirla. Comprendo pure la Sua difficoltà nello svolgere il ruolo che ha, e spero che lei abbia compreso che questa città è il risultato di oltre 2.500 anni di sistemi, di eventi di personaggi, che l’hanno fatta crescere nel corso della sua gloriosa Storia.

Lei oggi, ne sono certa, nella gestione di questo sistema estremamente complesso deve tenere sempre e primariamente conto proprio della Storia! Anzi .. Non può non tenerne conto!

Ma così non sembra… Lei è nata a Roma, ma solo nel 1978!

Lei probabilmente a scuola ha studiato, certamente con impegno e solerzia, la Storia di Roma, ma credo che la storia recente (e per intenderci quella degli anni ’70 – ’80) forse le sfugge..!

Ma posso permettermi di rammentargliela. Nel 1975 (e lei ancora non era nata) un ragazzo di 16 anni, impegnato politicamente (il colore politico non conta) lottava per ottenere l’illuminazione pubblica nel suo quartiere (il Prenestino). E solo perché era un ragazzo di destra veniva brutalmente assassinato dalle Brigate Rosse. (sono certa che Lei ha sentito parlare delle BR, le stesse che nell’anno in cui Lei nasceva assassinavano l’onorevole Aldo Moro).

Il vuoto lasciato da quel ragazzo di 16 anni, nel cuore della sua Mamma, dei famigliari, è rimasto incolmabile, ed ancora oggi senza una verità.. E ugualmente incolmabile è, ancora oggi, quel vuoto, sebbene trascorsi 42 anni, nel cuore di chi come lui continua ad amare il proprio quartiere e che ha eletto, quella Vittima innocente (perché a 16 anni si è innocenti), quale simbolo con cui identificarsi nel proprio quartiere. E ciò a prescindere dal “credo politico”.

Il sacrificio di Mario Zicchieri (nella storia del suo Quartiere, nella sua Città di Roma, nella nostra Italia) non potrà mai essere dimenticato, semplicemente cancellando un murale. La memoria di quel ragazzo di 16 anni, continuerà a vivere nei cuori di chi l’ha conosciuto, e di chi ne conosce la Storia!

Mio fratello è stato una “Vittima di Stato”, ma questo forse Lei lo sapeva già. E l’oltraggio di cancellarne la memoria, mi consenta,  è un’offesa allo Stato, quello Stato cui Mario ha donato il sangue!

Barbara Zicchieri

lunedì 11 dicembre 2017

L'oltraggio al caduto missino: la Raggi fa cancellare il murales


da ilgiornale.it / di francesco boezi

Il murale per Mario Zicchieri non c'è più. "Cremino", così come era stato soprannominato, era un militante della sezione missina del Prenestino. 

Venne ucciso da un commando giudicato vicino alle Brigate Rosse il 29 ottobre del 1975, a soli sedici anni. Nella giornata di ieri, gli addetti dell'Ama per il decoro urbano della città di Roma Capitale hanno cancellato la scritta "Mario Vive" dalla facciata del palazzo che ospitava la storica sezione del Movimento Sociale Italiano. Un murale presente nel quartiere da un quarantennio che aveva resistito ai tanti tentativi di "sbianchettamento" operati da certa sinistra nel corso degli anni. Ma quale collegamento c'è tra la rimozione della scritta e l'operato di Virginia Raggi? Secondo i dirigenti di Fratelli d'Italia, la responsabilità è tutta del sindaco di Roma. Senza l' approvazione dell'amministrazione comunale - insomma - la cancellazione non sarebbe stata possibile.

Dopo lo "sfratto" dalla sezione di Colle Oppio, questo sarebbe un altro colpo inferto dalla Raggi alla destra romana. "Virginia Raggi, sprovveduta, ignorante o alla ricerca del voto dell’estrema sinistra? In ogni caso è penoso rimuovere il ricordo di un ragazzo ucciso, a 16 anni, dalle Brigate Rosse", ha scritto su facebook Fabio Rampelli, Capogruppo alla Camera di Fratelli d'Italia. Gli fa eco Maurizio Politi, consigliere comunale di Fdi a Roma che a Il Giornale.it ha dichiarato: "Nessun sindaco si era mai permesso di offendere in questo modo la memoria di un ragazzo. Cinque anni fa - sottolinea Politi - grazie all'approvazione all'unanimità del consiglio municipale, dedicammo a Mario anche il giardino su Piazza dei Condottieri". E ancora: "Riconsegnammo alla storia uno dei periodi più brutti della nostra città e mai ci saremmo aspettati che una forza politica come il M5S distruggesse questo percorso". Il partito guidato da Giorgia Meloni ha annunciato la presentazione di un'interrogazione scritta alla Raggi.

I colpevoli della morte di Mario Zicchieri sono rimasti impuniti. Alcuni brigatisti "indicati come coinvolti" nell'episodio sono stati assolti in appello. Il sindaco Raggi ha più volte espresso la propria soddisfazione per la riqualificazione dei quartieri romani tramite la street art. I giardini sul tetto della stazione Jonio sono stati arricchiti con murales sul film "Ladri di biciclette". E sempre il sindaco di Roma ha incontrato "Maupul", lo street artist che ha raffigurato Papa Francesco intento a giocare a tris sul muro di un palazzo a Borgo Pio. I murales - insomma - come forma artistica in grado di migliorare le zone di Roma. Tranne nel caso di Mario Zicchieri: in questa circostanza l'amministrazione grillina pare abbia preferito usare il bianchetto. La motivazione dell'intervento, forse, è ascrivibile alla presenza di una croce celtica posta di fianco al nome del caduto. La destra romana, intanto, sembra intenzionata a voler riprodurre la scritta.

giovedì 10 agosto 2017

Anniversario disastro di Marcinelle


8 agosto 1956
Anniversario del disastro di #Marcinelle
Tra le vittime 136 italiani emigrati dall'Italia per andare a lavorare nelle miniere del Belgio, italiani che hanno portato sacrifici, forza, sudore al servizio di un'altra Nazione.
C'è stata un'immigrazione che ha aiutato le Nazioni a crescere, e quella di oggi, parassita che chiede vitto, alloggio e connessioni wi-fi.
Paragonare i nostri connazionali morti a Marcinelle con i nuovi figli dell'immigrazione è stupido ed un insulto alla loro memoria.

martedì 23 maggio 2017

A 25 anni dalla scomparsa di Giovanni Falcone


29 anni fa moriva Giorgio Almirante: innovatore, maestro di stile e democrazia



da secoloditalia.it

Ventinove anni fa l’Italia e il mondo della Destra storica e di opposizione di governo davano l’addio a Giorgio Almirante, (scomparso a sole 24ore di distanza da Pino Romualdi) un leader d’alto rango che, per ricordarlo attraverso le parole di Marcello Veneziani, saggista e scrittore che, tra i tanti esponenti politici e culturali che ne hanno omaggiato la memoria e ripercorso le tappe politico-sociali nella Mostra voluta e organizzata nei mesi scorsi dalla Fondazione An dedicata alla storia del Movimento Sociale, di lui ha detto: «Parlava, e nelle sue parole avvertivi una storia, una sensibilità, una cultura. Era il Noi che rappresentava una continuità, non un Io che parlava di sé. Il suo era un dialogo con la coscienza e per questo colpiva chiunque lo ascoltasse. Ha portato l’italianità nella politica, restituito dignità al Tricolore, alla bandiera, recuperato il senso della Patria».

Giorgio Almirante, la grande lezione dell’uomo e del politico

Un uomo che ha incarnato la tenacia e l’onestà intellettuale applicate a una politica di “vecchio stampo”, militante e ideologica, ancora lontana dagli scandali di corruzione e tangenti, compromessi e tornaconto individuali. Un politico capace di coniugare, nell’impegno quotidiano, tenacia e fermezza e indiscutibile capacità di tenere unita una comunità ancora emarginata, discriminata, vittima del terrorismo imperante dei feroci anni Settanta, quando parlare da un pulpito non violento in un momento in cui molti si incamminavano nel tunnel buio della lotta armata contro il sistema, non era facile. Anzi, era quasi impossibile. Eppure Almirante, protagonista assoluto della storia italiana e della Destra nazionale, è riuscito a dispetto di tutto e di tutto a rimanere nell’alveo di una civile competizione democratica. Non per niente, tra i tanti che a lui hanno riconosciuto doti politologiche e lungimiranza strategica, in particolare Montanelli disse che «il leader del Msi era il solo uomo politico cui potevi stringere la mano senza timore di sporcartela».

Giorgio Almirante, ricordi e lezioni di vita e di politica

E non solo: «Era un  uomo schietto, intento a  cambiare radicalmente l’impostazione culturale delle istituzioni che amava profondamente» ha ribadito una volta di più la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, che in un suo personale ricordo dedicato ad Almirante ha anche detto: «Se oggi si può parlare di pacificazione, si può chiudere una pagina della storia nazionale e aprirne una nuova, lo si deve anche al suo contributo politico e morale. Gli piaceva dire “noi possiamo guardarti negli occhi” e l’Italia, soprattutto in questo momento ha un disperato bisogno di persone che possano dire al popolo: “Possiamo guardarti negli occhi». E se  Altero Matteoli esponente di Forza Italia ha a più riprese sostenuto come, «di fronte alla politica attuale ricordare la figura di Almirante mette i brividi. Lui, Berlinguer… sembra di parlare di secoli fa. Erano gli anni del grande scontro di idee, dei confronti sanguigni ma corretti, oggi è tutta una marmellata indistinta», Ignazio La Russa (FdI) lo ha spesso ricordato in questo episodio che molto racconta dell’uomo e del politico: «Ricordo perfettamente un giorno di autunno, pioveva a dirotto, in cui Almirante piombò in sezione: ci avvertirono poco prima, davanti a due-trecento ragazzi iniziò a parlare, parlare, parlare non curante della pioggia battente.  Sapeva bene che l’esempio vale molto più delle parole, così iniziò il invitandoci a “inventare”  un nuovo linguaggio, a svecchiare le vecchie liturgie,  poi si interruppe e disse, “che fate con questi ombrelli, toglieteli”.  Parlò ininterrottamente per cinquanta minuti sotto l’acqua»…

Un esempio ancora oggi insuperato

Anche per questo, allora, in anni in cui la politica sembra aver smarrito progettualità ambiziosa e profondità di pensiero, riveduta e corretta dalla banalità imperante dei talk show divenuti malgrado tutti – addetti ai lavori compresi – la terza Camera dello Stato in cui chiacchiericcio e insulti hanno la meglio; in un momento storico in cui il pensiero di un’Europa che non c’è e di una comunità continentale unita non solo geo-monetariamente ma politicamente è una chimera che svilisce all’ordine del giorno valore e senso della Nazione. In cui gli italiani perdono ad ogni settimana che passa un pezzo di orgoglio e di dignità, autorevolezza e incisività, la lezione di Almirante impartita con passione e sacrificio, si fa più vivida, vibrante e necessaria che mai. I suoi discorsi. Il suo stile. La sua pacatezza e passionalità dialettica, la sua educazione, eleganza e gentilezza, la sua impareggiabile ironia e uno stile da uomo di Stato d’altri tempi (politici) ancora ineguagliabile, svettano in un presente immiserito da una politica politicante intrisa di demagogia e autoreferenzialità.

Un innovatore puro, maestro di democrazia e pacificazione

Un innovatore puro che, come ha detto a più riprese e in diverse occasioni commemorative Maurizio Gasparri proponendo del leader della Destra una diversa lettura, in uno dei suoi appassionati ricordi di Giorgio Almirante rivolto «a quanti lo hanno troppo sbrigativamente giudicato un nostalgico» ha ricordato come, quanto e perché il numero del Msi «fu maestro di democrazia e di pacificazione» che «con il presidenzialismo voleva un coinvolgimento più ampio dei cittadini nelle scelte fondamentali della vita dello Stato e della democrazia governante». E ancora: «Almirante invitò costantemente alla pacificazione tra gli italiani. E lo fece durante gli anni di piombo, in un tempo ancora non sufficientemente lontano dagli odi e dai rancori della guerra civile. Lo voglio ricordare oggi che di pacificazione si torna a parlare in altri contesti, di grande polemica e di scontro politico, ma certamente diversi dai tempi cruenti degli anni di piombo durante i quali parlare della pacificazione era un atto di grande coraggio». 

«Non rinnegare né restaurare» nell’indicazione del futuro

E allora, in conclusione, ci piace rievocarne personalità politica e particolarità personali anche con le parole di Franco Mugnai, presidente della Fondazione An, che ormai qualche tempo fa, in occasione di un convegno tenutosi nella sala della Regina, a Montecitorio, per la chiusura del centenario della nascita di Giorgio Almirante promosso dalla Fondazione che porta il suo nome, richiamando una frase che lo rese famoso, ha detto: «Non rinnegare né restaurare. Era il suo pensiero, il filo conduttore della sua azione, la filosofia politica di una vita intera, il monito rivolto ai giovani. Ai quali Almirante amava indicare il futuro. Un Futuro da costruire con passione e sacrificio, senza mai recidere le proprie radici. Una lezione per tutti. Un esempio di democrazia. Uno stile di vita».

sabato 20 maggio 2017

Le immagini, i filmati e i racconti: omaggio dei compagni d'avventura


da il giornale.it

Trieste. «La sveglia è chiamata poco dopo le 5. (...) Fa freddo, l'erba è umida e c'è una nebbiolina brinosa tutto attorno. Riteniamo opportuno iniziare la giornata con un sorso di whisky, che fa l'effetto di una fiammata in gola» scrive Almerigo Grilz il 18 maggio 1987 sul suo diario di guerra dell'ultimo reportage in Mozambico


«In pochi minuti la colonna è in piedi. I soldati, intirizziti nei loro stracci sbrindellati raccolgono in fretta armi e fardelli. (...) Il vocione del generale Elias (...) li incita a muoversi: Avanza primera compagnia! Vamos in bora!. In no time siamo in marcia». Per Almerigo sarà l'ultimo giorno di appunti. All'alba del 19 maggio, il proiettile di un cecchino gli trapasserà la nuca mentre filma la scomposta ritirata dei guerriglieri della Renamo respinti dai governativi nell'attacco alla città di Caia. Grilz è il primo giornalista italiano caduto in guerra dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Trent'anni dopo Gian Micalessin e chi vi scrive, i suoi compagni di avventura nei reportage, gli dedicano a Trieste, la città dove è nato, la mostra fotografica Gli occhi delle guerra - da Almerigo Grilz alla battaglia di Mosul. Un'esposizione unica in Italia con 90 pannelli su 35 anni di reportage dall'invasione israeliana del Libano nel 1982 fino al caos della Libia, la terribile guerra in Siria e la sanguinosa battaglia contro il Califfo in Irak. La mostra e il catalogo contengono anche le foto scattate da Almerigo nel corso della sua breve, ma intensa attività in Afghanistan, Etiopia, Filippine Mozambico, Iran, Cambogia e Birmania. L'esposizione, che si inaugura oggi alle 18.30 con l'assessore alla Cultura di Trieste, Giorgio Rossi, al civico museo di guerra per la pace Diego de Henriquez rimarrà aperta fino al 3 luglio.

Della mostra fa parte una selezione delle pagine più significative delle agende (Guarda la gallery con le immagini) che Almerigo Grilz utilizzava per annotare con precisione ogni momento dei suoi reportage corredando il tutto con disegni e mappe dettagliate. La futura vocazione e la passione del giornalista emerge pure dalle pagine dei Diari del giovane Grilz con un Almerigo adolescente che disegnava scene di battaglie storiche e descriveva gli avvenimenti della sua Trieste. Il pubblico potrà sfogliare anche le bozze del fumetto Almerigo Grilz - avventura di una vita al fronte (Ferrogallico editore), dalla passione politica al giornalismo, che verrà pubblicato in settembre.

Un percorso nella memoria di un giornalista scomodo e volutamente poco ricordato per il suo attivismo a destra, nel Fronte della gioventù, negli anni Settanta, che non a caso Toni Capuozzo ha definito l'«inviato ignoto». Oggi alle 19.30 Almerigo verrà ricordato a Trieste anche in via Paduina davanti a quella che è stata la sede nel Fronte, l'organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano.

Al museo de Henriquez accanto alle foto scorrono i filmati realizzati da Almerigo con la cinepresa Super 8. E l'invito in studio nel 1986 di Ambrogio Fogar nel programma Jonathan dimensione avventura dove Grilz con Egisto Corradi, storica colonna del Giornale e Maurizio Chierici del Corriere della Sera parlano del mestiere di inviato di guerra e dei suoi pericoli.
I video comprendono anche i reportage di oggi sui Paesi senza pace come Afghanistan, Siria, Libia, Irak realizzati grazie al progetto del giornale.it, Gli Occhi della guerra e al sostegno dei nostri lettori. E non manca il documentario L'Albero di Almerigo (guarda il video) che racconta la ricerca e il ritrovamento in Mozambico dell'antico albero ai piedi del quale riposa Almerigo Grilz.
La mostra nel trentennale della sua scomparsa vuole essere anche un tributo ai reportage in prima linea, in un periodo di media in crisi e un omaggio non solo a Grilz, ma a tutti i giornalisti che hanno perso la vita sul fronte dell'informazione per raccontare le tragedie dei conflitti.

Nel 1986 in Mozambico, un anno prima di morire, Almerigo annotava sul suo diario: «Mi sporgo fuori per filmarli: non è facile, occorre stare appiattiti a terra perché le pallottole fischiano dappertutto. Alzare troppo la testa può essere fatale».

martedì 17 gennaio 2017

Acca Larenzia

Acca Larentia
7-01-1978 / 7-01-2017

Cuori irriducibili rinascono dalle macerie della guerra.

Amore e coraggio sconfiggono gli anni di piombo.

I cuori irriducibili battono qui.
Il sangue vince l'oro, il tempo è polvere.

A Franco, Francesco, Stefano ed Alberto.

sabato 10 settembre 2016

Strage di Vergarolla: quando si usava il tritolo per cacciare gli italiani


da ilgiornaleoff.ilgiornale.it

La strage di Vergarolla, avvenuta domenica 18 agosto 1946, è forse la più sanguinosa (circa 100 vittime) fra quelle dell’Italia repubblicana. Volutamente nascosta per oltre cinquant’anni, viene finalmente portata alla luce in tutti i suoi aspetti grazie al libro del direttore de L’Arena di Pola Paolo Radivo.
Un’esplosione potente squarciò la spiaggia di Vergarolla alle 14:15 di domenica 18 agosto 1946. La terra tremò per una vasta area e i vetri delle case di Pola andarono in frantumi, come le speranze di mantenere Pola in territorio italiano. Sessantaquattro sono le vittime identificate e sepolte, ma circa cento persone furono spazzate via da quello che ancor oggi a fatica viene identificato come un attentato contro la popolazione italiana e, perfino dagli attuali vertici della Comunità italiana di Pola, viene derubricato a semplice incidente. 
Quell’esplosione, tragicamente simile al fungo atomico di Hiroshima, ebbe anche lo stesso effetto di quelle bombe micidiali. Si può dire che l’attentato di Vergarolla, come avvenne in Giappone, costrinse la popolazione alla resa: in quel periodo a Parigi erano in corso i negoziati per definire lo status dei territori italiani in Istria e in Dalmazia. L’italianissima Pola faceva sentire quasi quotidianamente la sua voce per manifestare la volontà di rimanere parte integrante di una ancora acerba Repubblica Italiana, magari sotto forma di enclave. Quella strage fiaccò definitivamente il morale dei nostri connazionali e da allora ci fu un lento e inesorabile abbandono di ogni speranza, fino alla firma del Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) e all’esodo.
A settant’anni di distanza, dopo alcuni libri che hanno riacceso le luci su quel grave e criminale episodio, è stato realizzato finalmente uno studio approfondito che prende in esame tutti gli aspetti della tragedia. Il volume è: La strage d Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive (editore Libero Comune di Pola in Esilio – LCPE), l’autore è il direttore del mensile L’Arena di Pola Paolo Radivo, figlio di istriani. Inoltre è stato realizzato, sempre con il contributo determinante dell’LCPE, il documentario di Alessandro Quadretti L’ultima spiaggia. Pola fra la strage di Vergarolla e l’esodo. Ambedue sono importanti strumenti per capire cosa è effettivamente successo in quella tragica domenica d’agosto. Il corposo volume di Radivo conta ben 648 pagine ed è uno studio completo sulla vicenda, il documentario riporta anche le testimonianze dei pochi testimoni sopravvissuti, forse l’ultima occasione di sentire dalle voci di chi c’era la verità dei fatti.

Ma chi non ha mai sentito parlare di questa strage, per intenderci più sanguinosa di quella della stazione di Bologna, ha necessità di alcuni particolari e di inquadrare i fatti nel periodo storico.
Terminate ufficialmente le ostilità, Pola era rimasta territorio italiano sotto amministrazione alleata. Il maresciallo Tito pretendeva di acquisire anche l’italianissima Pola nella neonata Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia (dal 1963 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia) e la Conferenza della Pace di Parigi era in corso. Va sottolineato che il delfino di Tito Milovan Gilas, poi caduto in disgrazia, in una intervista rilasciata al quindicinale fiumano Panorama (21 luglio 1991) dichiarò: «Nel 1946 io ed Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana… bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.»

In questo contesto si svolsero quella domenica di agosto le gare natatorie della Pietas Julia, evento che attirò sulla spiaggia di Vergarolla buona parte della gioventù italiana di Pola e dintorni, compresa la squadra del Centro Sportivo Proletario, filo-jugoslava, che vinse una delle gare e lasciò la zona verso l’ora di pranzo. Al momento dell’esplosione (14:15) erano presenti sulla spiaggia solo italiani, per lo più giovanissimi con le rispettive famiglie. 
A esplodere furono degli ordigni (di vario genere, per lo più bombe di profondità) che erano stati disinnescati e accatastati sulla spiaggia. Erano 12, 28 o 32, a seconda dei documenti del Governo Militare Alleato, e non potevano assolutamente esplodere da soli. Tanto che i ragazzini vi salivano a cavalcioni e le signore vi stendevano ad asciugare i teli da mare e i costumi da bagno. Per esplodere quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, quindi in nessun modo si trattò di un incidente ma di un vero e proprio attentato. E la testimonianza di Claudio Bronzin, all’epoca un ragazzino, squarcia il muro di silenzio: ricorda che sua zia Rosmunda vide un uomo vestito (cosa un po’ strana d’estate) che aggiuntava dei fili elettrici presso la catasta dei residuati. E’ probabile che quell’uomo, mai identificato, sia stato l’esecutore materiale della strage, magari utilizzando l’attrezzatura delle vicine miniere di carbone dell’Arsa.
Il risultato della strage fu impressionante: oltre ai 64 cadaveri identificati anche se disintegrati (di una signora fu ritrovato solo un dito con la fede, piccolo ma determinante dettaglio, di uno dei figli del dottor Micheletti fu rinvenuta solo una scarpetta) ci furono circa una quarantina di altri sventurati che persero la vita in quello scoppio. Probabilmente uomini e donne che scappavano dai territori istriani occupati dai titini e che non erano mai stati registrati come domiciliati a Pola per paura di ritorsioni contro le loro famiglie rimaste in zona B. Basandosi sulle ossa e i resti umani reperiti, il dottor Micheletti stimò insieme a un dottore inglese che i morti totali avrebbero potuto essere compresi tra 110 e 116. In una relazione ufficiale il dottor Chiaruttini dichiarò che ci furono circa 100 morti.

Pola fu annientata, il suo spirito e quello dei suoi abitanti fu completamente distrutto. Le autorità jugoslave incolparono subito il governo alleato di scarsa sorveglianza, mentre a Pola il muro di omertà ha coperto e continua a coprire mandanti ed esecutori. Da qualche anno spuntano testimonianze che portano inequivocabilmente nella direzione dell’attentato, ma ancora la prova regina non c’è (come non c’è per molte altre stragi più recenti). Il nome che ricorre più frequentemente è quello di Ivan (Nini) Brljafa, un partigiano dell’Istria interna che a Pola ebbe poi anche qualche incarico locale dal governo jugoslavo. Brljafa si suicidò nel 1979 in seguito alla scoperta di un tumore ai reni, ma pare che lasciò un biglietto in cui confessava di aver agito su ordine di Albona (sede all’epoca di un comando dei servizi segreti jugoslavi). Altri testimoni raccontano che il giorno dopo il massacro due polesani avrebbero festeggiato insieme ai due attentatori in una trattoria di Monte Castagner, mentre dieci giorni dopo quattordici polesani brindarono alla strage in un’osteria di Monte Grande. Ma anche qui nessuna pistola fumante.
Però, grazie al libro di Radivo che compara gli articoli dell’epoca con i documenti successivamente rinvenuti e ulteriori testimonianze, sono venuti alla luce numerosi elementi, soprattutto per quello che riguarda i movimenti delle truppe alleate e delle truppe titine in zona subito prima dell’attentato. E anche ciò che avvenne subito dopo viene esaminato in profondità. Inoltre vengono messi a fuoco molti dettagli che riguardano i soccorsi dopo l’esplosione, l’assistenza ai feriti e il penoso momento dei funerali cittadini. Tra tutti emerse la figura del dottor Geppino Micheletti (cugino del noto filosofo goriziano Carlo Michelstaedter) che operò consecutivamente fino a tarda sera tutti i feriti gravi, anche dopo aver saputo che i suoi figli Carlo e Renzo erano stati spazzati via dall’esplosione. Solo a tarda sera si recò a Vergarolla alla ricerca dei resti di uno dei due. Fu decorato con la medaglia d’argento al valor civile. 

Lui rimase a Pola fino al settembre 1947, quando partì per l’esilio, dicendo che mai avrebbe potuto curare qualcuno con il sospetto di curare un criminale coinvolto nella strage.

martedì 1 marzo 2016

A Mikis


"Quel 28 febbraio 1975 la giornata era cominciata presto: già alle sei del mattino gli extraparlamentari di sinistra si erano radunato intorno a piazzale Clodio dove stava per riprendere il processo ai tre assassini di Potere Operaio: Lollo, Clavo e Grillo, che il 16 aprile del 1973 avevano bruciato vivi un ragazzo e un bambino, Stefano e Virgilio Mattei.

Oggi è incomprensibile una mobilitazione, non solo a livello attivistico ma anche e soprattutto di opinione, in difesa di chi aveva commesso un crimine così efferato e gratuito. Ma così andavano le cose negli anni Settanta. Anzi, il 13 febbraio, era stata data alle fiamme a Primavalle l’auto di un testimone al processo. Missino, ovviamente. 

Il 25 c’erano stati altri scontri, sedati dal maggiore dei carabinieri Antonio Varisco, che qualche anno dopo sarà ucciso dalle Brigate Rosse che non gliela avevano perdonata. I quotidiani Lotta Continua e il Quotidiano dei Lavoratori pubblicano le foto del “fascisti” davanti al tribunale e invitano i compagni ad andare il giorno dopo a piazzale Clodio. 

Quella mattina del 28, dunque, già c’erano state alcune scaramucce tra militanti missini e comunisti: questi ultimi avevano riconosciuto e sparato tre colpi di pistola contro un dirigente del Fronte della Gioventù, senza colpirlo ma mandando in frantumi i vetri di alcune autovetture parcheggiate. I gruppi dell’autonomia sono perfettamente equipaggiati per la guerriglia urbana: caschi, spranghe, tascapane con molotov e, scopriremo dopo, anche parecchie pistole. In uno scontro successivo un dirigente del Fronte riporta la frattura di un braccio. 

Dentro il tribunale, si accende una rissa tra un attivista della sezione missina del Prenestino e Alvaro Lojacono, che poi sparerà al giovane greco Mikis Mantakas del Fuan. In favore di Lojacono interviene il senatore comunista Terracini, del collegio di difesa di Lollo. Verso metà mattinata si accendono scontri in tutto il quartiere. Mentre infuriano i disordini, un centinaio di comunisti arriva alla spicciolata nel pressi della sezione Msi Prati di via Ottaviano, incredibilmente non presidiata dalle forze dell’ordine, e la assalta. Le forze dell’ordine erano tutte a presidiare la sede Rai di via Teulada, che infatti viene assaltata dall’autonomia come diversivo. 

Alle 12,45 i militanti dei collettivi individuano e fermano una “civetta” della polizia facendone scendere gli occupanti minacciandoli con sei o sette pistole. Verso le 13,15 il gruppo di fuoco comunista arriva a via Ottaviano, dove ci sono una ventina di giovani missini disarmati. I ragazzi cercano di ritirarsi nella sezione, dal gruppone parte una salva di bombe molotov che alzano un muro di fuoco e fumo davanti al portone dello stabile. Contemporaneamente vengono sparate le prime revolverate contro i missini. A questo punto i giovani della sezione Prati si dividono: una parte rientra in sede e una parte attraverso il cortile va all’altro ingresso su piazza Risorgimento. 

Ma la retroguardia del commando, tra cui Lojacono, li aspettavano e sparano. Testimonianze dicono che furono esplosi centinaia di colpi di pistola, sparati da almeno cinque persone diverse. I comunisti a questo punto arretrano proteggendosi la fuga con altre bombe molotov, e i ragazzi di destra si accorgono che uno di loro è ferito gravemente: è Mantakas, il cui soprabito tra l’altro era stato lambito dalle fiamme di una molotov. 

Tra i soccorritori di Mikis ci sono Paolo Signorelli, Fabio Rolli, che rimarrà ferito da una revolverata, e Stefano Sabatini, che si rinchiuderà dentro un box del palazzo con Mantakas agonizzante. Qualcuno dei difensori aveva una vecchia lanciarazzi, circostanza che induce il commando aggressore a pensare a una trappola e quindi ad arretrare. I giovani riescono a chiudere il portone ma intanto c’è un altro assalto: i collettivi entrano nel cortiletto, sentono un box chiudersi, e sparano attraverso la saracinesca: per fortuna Sabatini e Mantakas erano nel box accanto, quello più lontano dall’entrata. Sono trascorsi 15 minuti dall’inizio dell’assalto e la polizia non c’è ancora. 

I comunisti in fuga sparano contro un poliziotto in borghese, che però ne insegue due e li riesce ad arrestare: sono Fabrizio Panzieri e Lojacono, vicini ai collettivi di via del Volsci e di Fisica. Un’ambulanza dei Vigili del Fuoco porta Mantakas prima al Santo Sprito e poi al San Camillo, dove morirà nel pomeriggio, alle 18,30. Mantakas, Rolli e un passante, anch’egli ferito, sono stati colpiti da tre calibri diversi. All’inizio gli inquirenti dissero che tre persone avevano sparato, ma del terzo poi non si sentirà mai più parlare. 

Il 3 marzo, alla cerimonia funebre per Mantakas, a Santa Maria sopra Minerva, gli extraparlamentari di sinistra aggrediscono i missini che stavano andando verso la chiesa. Davanti ad alcune scuole di Roma compaiono le scritte “10-100-1000 Mantakas”. 

La stampa italiana cerca di imbastire una “pista nera” anche per il delitto Mantakas, ma il tentativo, come tutte le altre volte, naufraga miseramente. Paese Sera addirittura manda un volenteroso inviato in Grecia, ma ovviamente torna senza aver scoperto nulla di compromettente.
Mikis Mantakas era un giovane studente greco, nato ad Atene nel 1952 che sognava di fare il medico".

lunedì 8 febbraio 2016

«Togliatti e il Pci complici delle foibe»



Riportiamo questa bell'intervista di due anni fa alla giornalista e storica dell’arte Carla Isabella Elena Cace, esule di terza generazione, autrice di «Foibe ed esodo. L’Italia negata» (edizioni Pagine)

da iltempo.it

Un libro per «illuminare» l’oblio planato per decenni sulle foibe e sugli esuli istriani, giuliani e dalmati; per riempire le pagine vuote che gli storici «marchiati» con un simbolo a senso unico non hanno mai voluto scrivere; per risvegliare il ricordo di quanti patirono la furia comunista senza che la loro patria, l’Italia, tendesse la mano per accoglierli. Un libro intitolato «Foibe ed esodo. L’Italia negata» (edizioni Pagine), scritto dalla giornalista e storica dell’arte Carla Isabella Elena Cace, esule di terza generazione, che a 10 anni dall’istituzione del «Giorno del Ricordo» ha voluto sigillare la fine di un’epoca: l’epoca del silenzio e della verità negata, della storia fasulla e omertosa e delle menzogne divulgate per decenni. Il libro verrà presentato oggi alle 17 a Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna 355.

C’è un’Italia negata, un’Italia di vittime ignorate e di giovani, donne e vecchi «oscurati» per comodità storica e politica.
«L’eccidio dei connazionali di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia è stato il più grande dopo l’Unità d’Italia. Ed è surreale che sia stato cancellato dalla coscienza nazionale. L’Italia aveva perso la guerra e quelle popolazioni hanno pagato il prezzo di una guerra che era di tutti gli italiani. Vivevano su un terra di confine e sono stati risucchiati dalla potenza del maresciallo Tito. Dobbiamo dire con chiarezza che la strage di questi italiani è avvenuta per mano di comunisti jugoslavi».

Nel dedicare il libro a suo nonno, Manlio Cace, ufficiale medico esule da Sebenico, lei parla di «congiura del silenzio». Da parte di chi?
«Per capirlo basta leggere i carteggi di Palmiro Togliatti con altri funzionari del Partito comunista dai quali si evince chiaramente la linea tenuta dal leader del Pci. Nel 1942 da Radio Mosca, Togliatti invitava gli italiani ad unirsi ai partigiani jugoslavi. Questa cos’è se non complicità nella pulizia etnica e nelle stragi delle foibe? Il Pci fu sempre contrario ad ascoltare le ragioni dei giuliano-dalmati, per motivi ideologici e per non incrinare l’amicizia con i popoli jugoslavi. Il loro silenzio successivo fu assoluto. Il Pci ha avuto il monopolio della cultura italiana, quindi dell’istruzione e della coscienza storica. Sono stati loro, complice l’atteggiamento da Ponzio Pilato della Dc, a decidere il racconto della nostra nazione, che cancellò una strage di proporzioni bibliche non ancora svelata. Della "congiura del silenzio", non va dimenticato, ha parlato anche il presidente Napolitano».

Nel libro le responsabilità vengono assegnate anche a una Dc «consociativamente» silenziosa, agli anglo-americani che «lasciarono fare» in nome della realpolitik, ma anche alla Cgil.
«È innegabile. Quando gli esuli tornarono in Italia vissero un dramma nel dramma. L’accoglienza per loro fu spesso spaventosa, soprattutto in certe zone più ideologizzate, come l’Emilia Romagna. Arrivati a Bologna, ad accoglierli c’erano militanti e simpatizzanti del Pci ma anche del «sindacato rosso», che li definivano "cosiddetti esuli" e li accusavano di fuggire non per evitare di vivere sotto una dittatura comunista ma perché collusi col fascismo».

A dieci anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha cancellato i fondi per i viaggi degli studenti su quei Luoghi della Memoria.
«Io mi vergogno del sindaco Marino. Tagliare completamente i fondi per i Viaggi della Memoria è una scelta di una gravità inaudita. Negli ultimi anni la presenza di studenti interessati e vogliosi di conoscere era in costante aumento. Interrompere questo viaggio di preparazione culturale è un’imperdonabile offesa».

Simone Cristicchi, per aver portato in scena il dramma delle foibe con «Magazzino 18», su cui nel libro ci si sofferma, è stato «assalito» anche da alcuni ragazzi che hanno interrotto il suo spettacolo giudicandolo «revisionista».
«In certi ambienti di radicale militanza politica si vive per dogmi. Non ci si interroga, si vive "contro" ogni cosa. E poi approfondire richiede impegno intellettuale, mentre è molto più semplice scagliarsi contro qualcosa. Non vogliono abbandonare la loro ideologia né riconoscere che questi morti sono morti italiani».

Achille Occhetto, che ha guidato il partito comunista nella sua fase conclusiva, ha «confessato» di non aver mai sentito parlare delle foibe prima dell’89.
«Non credo che Occhetto non sapesse. Probabilmente non aveva compreso col cuore, forse sapeva ma è passato velocemente alla pagina successiva senza comprendere il dramma che gli si stava parando davanti».

Lo stesso Occhetto ha ammesso di essersi commosso assistendo a «Magazzino 18» allo stesso modo in cui si commosse leggendo il diario di Anna Frank.
«L’arte raggiunge il cuore. Possiamo fare mille conferenze e dibattiti, ma i freddi numeri della storia e delle cifre non potranno mai avere lo stesso effetto. L’arte fa commuovere, come fa commuovere Magazzino 18. La storia degli esuli arriverà al cuore dagli italiani quando diventerà spettacolo, romanzo, opera artistica».

Cosa deve cambiare affinché non accada più che migliaia di vittime innocenti vengano dimenticate dalla storia?
«Non bisogna mai stancarsi di raccontare, scompaginare questi lunghi anni di silenzio. Oggi siamo al punto di partenza, non di arrivo. Solo battendosi e lottando, la verità sulle foibe e sugli esuli verrà a galla. Il mio libro è parte di questa battaglia».