domenica 22 gennaio 2017

Il caso. Tintin con il Corsera: il successo senza tempo del fumetto anticomunista


 da barbadillo.it

La collezione completa delle storie di Tintin, personaggio dei fumetti di estrazione patriottica e anticomunista, è in vendita come allegato opzionale del Corsera. Stenio Solinas descrive in questo articolo il profilo culturale di Tintin e del suo autore, Hergé

Nell’ottava tavola di Tintin au pays des Soviets, il giovane reporter parte in tromba al volante di una potente Mercedes decappottabile e il suo ciuffetto di capelli incollato alla fronte si solleva sotto l’effetto del vento e della velocità. «E voilà! Un gioco da ragazzi… E adesso dritto a Mosca!» recita la «nuvoletta» che accompagna il disegno.

Tintin nasce allora, è il gennaio del 1929, il giornale che ne pubblica la storia si chiama Le Petit Vingtième, supplemento per ragazzi del quotidiano Le Vingtième Siècle e il suo autore è un giovane ventenne, George Remi. Hergé è il suo nome d’arte e trent’anni dopo il generale de Gaulle, che si ritiene l’incarnazione novecentesca della Francia, dichiarerà: «Ho un solo rivale internazionale: è Tintin»… L’imponente mostra retrospettiva appena chiusasi al Grand Palais di Parigi, che ne ha celebrato il genio a 110 anni dalla nascita, suona come una conferma e insieme una smentita: Charles de Gaulle è sempre più in un rimpianto, Tintin resta ancora una realtà.

Belga come Georges Simenon, il Tintin di Hergé è però uno e bino rispetto a un Maigret francese fin da subito. Nel 1930 il settimanale parigino Curs vaillants comincia infatti la pubblicazione delle avventure sovietiche dello spericolato reporter, nell’album Parigi sostituisce Bruxelles e nel viaggio di ritorno dal Paese dei Soviet il treno non passa più per Liegi, Tirlemont e Louvain, ma per Saint Quentin e Compiègne… Il successo è clamoroso e nell’immaginario dell’epoca, complice la lingua, Tintin diviene tipicamente francese, come la baguette e il camembert…

Se l’esposizione «Hergé» appena ricordata, ha fatto entrare per la prima volta il fumetto in uno dei templi dell’arte ufficiale, l’importanza dell’album da cui siamo partiti ci dice tuttavia qualcosa di diverso rispetto alla materia in sé, al genere, al genio del suo autore. Fermiamoci un momento sulle date di pubblicazione, il biennio ’29-30, sull’età del disegnatore, ventidue anni appena, sul tema, la Russia di Stalin, leggiamone poi la storia e ci accorgeremo che rispetto ai «pellegrini politici» che prima, durante e dopo andranno a raccontare un comunismo mai esistito nella realtà, ma idealizzato nella loro fede di «compagni di strada», Hergé aveva già capito tutto. Questo provinciale ragazzino belga, insomma, vedeva meglio e più in profondità di tanti intellettuali accreditati e ferrati, in anticipo persino sui reportages, questi sì critici, di un Céline o di un Gide…

Prendiamo la visita alla fabbriche, fatta andando dietro a un gruppo di «comunisti inglesi» pronti ad ammirare «le meraviglie del bolscevismo» con tanto di commenti: «Beautiful, very nice»… Tintin si intrufola dalla porta di servizio e scopre che si tratta di «fondali di teatro», il cosiddetto «effetto Potëmkin», dal nome di quel primo ministro di Caterina II che costruiva interi villaggi finti affinché l’imperatrice ne potesse ricevere una sensazione di benessere, un Paese apparecchiato, insomma, per sbalordire gli ospiti di rango, un potere intento a fare la propaganda di se stesso. Allo stesso modo, la scoperta dell’export di vodka, grano e caviale, stoccati per servire da elemento di propaganda all’estero, gli rivela la miseria economica del comunismo in patria. Ora, due anni dopo l’immaginario eppure veridico reportage di Tintin, George Bernard Shaw fa il suo ingresso trionfale in Russia: un vagone frigorifero, colmo di viveri, viene agganciato al treno per convincerlo che nel Paese regna l’abbondanza, e nei ristoranti di Mosca tutte le cameriere dimostrano di conoscere i suoi libri. Commenta deliziato: «Le domestiche in Inghilterra non sono tanto colte quanto le loro colleghe sovietiche». Della serie, quando il socialismo reale diventa il socialismo immaginario e narcisista…

Prendiamo ancora la scoperta che Tintin fa dei minori in Russia, mendicanti e vagabondi nelle campagne come nelle città. Cinque anni più tardi la Pravda pubblicherà in prima pagina il decreto con cui si stabiliva che, a partire dai dodici anni, si era passibili «di tutte le misure della giustizia penale», inclusa la pena di morte. Era una legge che si poneva un duplice obiettivo: sociale, nell’accelerare l’eliminazione della moltitudine di orfani inselvatichiti e allo sbando nata dal regime; politico, nell’applicare una forma barbara di pressione sui vecchi oppositori, i Kamenev, gli Zinovev, che avevano figli di età idonea. Il Partito comunista francese dell’epoca, dovendo commentare quella legge, ne sosterrà la giustezza: sotto il socialismo, infatti, i bambini crescevano più in fretta…

Tintin non ignora nemmeno il problema dei kulachi, i cosiddetti «contadini ricchi», la requisizione forzata del grano, la cosiddetta dekulachizzazione che significherà la distruzione del patrimonio agricolo, l’eliminazione fisica diretta di centinaia di migliaia di persone, indiretta di qualche milione per carestia e deportazione. È quella che Walter Benjamin scambia invece per il nuovo corso industriale, i piani quinquennali che sostituiscono il comunismo di guerra: «Adesso, compagni, è scoppiata l’era della moderazione utile e disciplinata. A questa Russia i geni non servono, e men che mai i letterati. Ha bisogno di fabbriche e non di poeti». Sarà preso talmente in parola che Esenin si impiccherà usando le cinghie di una valigia, Majakovskij si brucerà il cuore con un colpo di pistola, Mejerchol’d, il padre del teatro moderno, sarà massacrato con un tubo di gomma e poi finito con un colpo alla nuca, la moglie sgozzata fra le quattro mura di casa, Babel’ fucilato, Mandel’tam seppellito in un lager… Come ha scritto Josip Brodskij, «il regime sfornò vedove di scrittori con una tale efficacia che verso la metà degli anni Sessanta ce n’era in circolazione un numero sufficiente per organizzare un sindacato».

Si badi bene, Tintin è un fumetto per ragazzi, con tutti gli eccessi, le semplificazioni e la superficialità che esso comporta e l’album di cui stiamo parlando era scritto da uno che aveva pochi anni di più dei suoi potenziali lettori. Per formazione e per cultura, Hergé era un anticomunista e fra le letture che formano il terreno su cui la storia prende forma c’è fra le altre quel Moscou sans Voiles (Neuf ans de travail au pays des Soviets) che un diplomatico belga, Joseph Douillet, aveva pubblicato l’anno prima. E tuttavia ciò che lo separa dai Toller, i Dreiser, i Sinclair, i Barbusse, i Wells, i Malraux e i già citati Shaw e Benjamin di quegli anni era proprio la disposizione a volersi fare ingannare, la delusione individuale nei confronti delle nazioni di origine che li spingeva a credere nelle illusioni di un Paese che si voleva vedere come fratello. Inoltre, non c’era nulla in lui, come forma mentis, di quello che resta un elemento fondamentale per spiegare il successo e l’appeal che per quasi sessant’anni accompagnò il comunismo in patria e all’estero: l’esperimento in corpore vili di un’avanguardia intellettuale, una setta di rivoluzionari di professione, in guerra contro un’intera società. Il comunismo in Russia eliminò l’intera Russia: gli intellettuali, ovvero in realtà i professionisti, ingegneri, professori, impiegati, i proprietari terrieri e i contadini, i commercianti, tutti quelli che, indipendentemente dalla loro estrazione sociale, potevano essere considerati, o si rivelarono, ostili e/o estranei al nuovo corso.

Fu un’eliminazione ottenuta con la violenza, la delazione, l’inganno e resa altresì possibile dalla più totale mancanza di pietà. Non ci si accontentava del corpo, si voleva l’anima. Le «confessioni», i «processi», quelli che Bertolt Brecht definirà le prove «delle attive cospirazioni contro il regime», miravano a questo, al riconoscimento dell’errore, all’espiazione e alla riaffermazione della giustezza della causa: non solo sono colpevole, ma mi faccio schifo in quanto tale ed esigo il castigo che la mia colpevolezza comporta… Come ha scritto Solgenicyn, alla base della lunga sopravvivenza del regime c’è «la sua forza disumana, inimmaginabile nell’Occidente».

Di fronte all’offerta del funzionario della Gpu, «100mila rubli o la morte», per divenire complice del regime, Tintin dice semplicemente «no». Lo può fare perché è un fumetto e il suo cane Milou lo salverà dalla fucilazione travestendosi da tigre… Ma, come ha raccontato nelle sue memorie Jacques Rossi, uno che a vent’anni era già comunista e a trenta, sempre da comunista, ne avrebbe passati altri venti nei gulag: «Vittima? Non sono stato una vittima. Io sono stato un complice di quel sistema. È come mettere una pentola piena d’acqua sul fuoco, accendere il gas e quando l’acqua bolle ficcarvi la mano dentro. Non bisognava mettercela». (da Il Giornale)

martedì 17 gennaio 2017

Hiroo Onoda, «l’ultimo giapponese della giungla», è morto a 91 anni


da corriere.it

Il leggendario soldato dell’esercito che non riconobbe la resa del 1945, aveva ceduto solo nel 1974 nelle Filippine

PECHINO - È morto in pace, a 91 anni, un uomo che aveva combattuto per 29 anni una guerra che per il mondo intero era finita. Il tenente giapponese Hiroo Onoda era uno di quei soldati dell’esercito imperiale che non uscirono dalle giungle dell’Asia quando Tokyo si arrese, il 15 agosto 1945. La sua avventura cominciò nel maggio del 1945: il generale americano Douglas MacArthur aveva mantenuto la sua promessa, era tornato nelle Filippine e le aveva liberate dai giapponesi. L’esercito del Sol Levante perse decine di migliaia di uomini in quella campagna, meglio la morte della resa. Ma quando ormai era chiaro che la battaglia era persa, il tenente Onoda aveva ricevuto l’ordine di condurre azioni di guerriglia. Si nascose nella giungla dell’isola di Lubang, vicino a Luzon, ed eseguì la sua consegna. Per 29 anni, fino al 1974.

LA GUERRA INFINITA - «Ogni soldato giapponese era pronto a morire, ma io ero un ufficiale dell’intelligence, e l’ultimo ordine che ricevetti fu di condurre imboscate e azioni di guerriglia», raccontò in un’intervista nel 2010. Dopo quell’ultimo messaggio Onoda e tre suoi soldati furono tagliati fuori. Rimasero soli nella giungla.
 
LA VOCE DELL’IMPERATORE - Venne il 15 agosto del 1945. Una voce che i giapponesi comuni non avevano mai sentito parlò alla radio. Era l’imperatore Hirohito che annunciava l’impossibilità di continuare la lotta, ordinava al suo esercito di «sopportare l’insopportabile»: la resa. Una voce sconosciuta, parole colte, frasi contorte. Il tenente Onoda non le capì o comunque non ci volle credere.
 
GLI UOMINI PERDUTI - Onoda e i suoi tre soldati continuarono ad eseguire l’ultimo ordine certo ricevuto a maggio. Attaccarono villaggi, contadini. La storia dei giapponesi isolati e irriducibili che rifiutavano la fine della Seconda guerra mondiale o non ne erano a conoscenza cominciò a emergere, diventò leggenda. Ce n’erano alcune decine in diverse zone del Pacifico, fino all’isola di Guam. Furono lanciati volantini nella giungla per spiegare che era tutto finito. Onoda ne trovò più d’uno: «Ma c’erano degli errori, pensai che fosse un trucco degli americani».
 
DA SOLO - Passarono i mesi e gli anni. Uno degli uomini di Onoda fu catturato nel 1950. Altri due morirono in combattimento, l’ultimo nel 1972. Il tenente Onoda attaccava e uccideva: 30 filippini caddero nelle sue imboscate in quei 29 anni.
 
LA FINE - Tokyo aveva ospitato le Olimpiadi nel 1964, aveva firmato trattati per riallacciare le relazioni diplomatiche con tutti gli Stati della Seconda guerra mondiale. Bisognava mettere fine anche alla guerra privata del tenente Onoda. Il comando delle nuove Forze di Difesa capì che solo un uomo poteva dare il contrordine all’ultimo dei giapponesi: quell’uomo era il suo comandante del 1945, il superiore che gli aveva detto di resistere. Il vecchio ufficiale fu mandato a recuperarlo. Era il marzo del 1974. Dalla giungla filippina uscì un uomo che aveva ormai cinquant’anni, lo stesso berretto del 1945, una giubba logora, lo sguardo d’un fantasma. Ma ancora fiero: andò fino a Manila a consegnare la sua spada al presidente delle Filippine. Salutò la bandiera e si arrese. Il governo filippino gli garantì il perdono, nonostante Onoda si fosse lasciato dietro una scia di morti. In patria fu accolto da eroe. Emigrò in Brasile, aprì una fattoria, poi tornò a casa e tenne corsi di sopravvivenza. È morto ieri in pace. Dopo di lui, l’ultimo combattente a uscire dalla giungla fu il soldato semplice Teruo Nakamura, trovato in un’isola dell’Indonesia nel dicembre 1974.

Verso la manifestazione del 28 gennaio a Roma!

Acca Larenzia

Acca Larentia
7-01-1978 / 7-01-2017

Cuori irriducibili rinascono dalle macerie della guerra.

Amore e coraggio sconfiggono gli anni di piombo.

I cuori irriducibili battono qui.
Il sangue vince l'oro, il tempo è polvere.

A Franco, Francesco, Stefano ed Alberto.