lunedì 30 dicembre 2013

Reportage. Nell’Istria dell’esodo rimosso ormai solo le pietre parlano italiano


da barbadillo.it

L’ingresso nell’Unione europea non ha provocato grandi entusiasmi popolari, almeno in apparenza. Un paio di bandiere blustellate, un mega cartellone dedicato all’Ue (ma con una incongruente bandiera americana) e i manifesti pubblicitari con i quali banche e società di carte di credito danno il benvenuto alla Croazia. Fin troppo facile ipotizzare che siano loro, i banchieri, i più felici dell’arrivo di “carne fresca” nel grande mercato di Eurolandia. I croati, da parte loro, sembrano già rassegnati: «Come primo effetto aumenteranno i prezzi, lo sappiamo», dice sconsolato Piero, un pensionato di origine italiana di Rovigno, in Istria.
Dobrodosli, benvenuti in Croazia! Anzi, in Istria, paradiso estivo per centinaia di migliaia di turisti del Nord e di molti Paesi dell’Est Europa, per i quali la penisola dell’alto Adriatico rappresenta il più vicino sbocco al mare. Ma le coste rocciose e incontaminate di Rovigno (Rovinj), Pola (Pula), Promontore (Premantura) e Abbazia (Opatija) rappresentano una delle mete preferite anche per gli italiani, al secondo posto dopo i tedeschi nella classifica dei villeggianti che approdano in Istria e Dalmazia.
Ad attirare i nostri connazionali sono le acque cristalline, le centinaia di isole e isolotti, la bellezza della natura incontaminata e i prezzi ancora abbordabili, anche se ormai molto vicini a quelli dell’Europa occidentale. Pochi turisti italiani, invece, sembrano attratti dall’incredibile viaggio nella nostra storia e memoria collettiva che può regalare anche un soggiorno di pochi giorni nelle terre istriane. Ai vacanzieri distratti potrà sembrare curioso il bilinguismo ufficiale che regna nei principali Comuni della penisola, così come la bandiera tricolore affiancata sulle facciate dei municipi a quelle di Croazia, Unione europea e della provincia dell’Istria.
Ma si tratta appunto di bilinguismo di facciata, introdotto da alcuni anni proprio per evitare guai in vista dell’ingresso in Europa. La tutela delle minoranze è uno dei requisiti richiesti da Bruxelles ai nuovi Stati membri.Così in molti Comuni istriani ora l’italiano viene insegnato anche a scuola ed è facile, nelle località turistiche, imbattersi in camerieri, baristi e negozianti che parlano la nostra lingua con diverse gradazioni: dalle dieci frase indispensabili per condurre una trattativa commerciale auna conoscenza quasi perfetta dell’idioma di Dante. Al quale, per inciso, è dedicata una bella piazza di Pola.
Tuttavia, grattando appena la lucida patina di superficie, è possibile percepire tracce di un’antica ostilità anti-italiana. Dal cameriere che ostentatamente ti dice di non parlare la nostra lingua, all’operatore del parcheggio che risponde in inglese anche alle domande più facili, alla panettiera che finge di non capire e si rifiuta di tagliare in due un trancio di pizza, alle edicole che non tengono copie de La Voce, il quotidiano della minoranza italiana stampato a Pola e Fiume. «Sold out», esaurito, ti dice in inglese l’edicolante del corso principale del capoluogo istriano: il sospetto è che non lo voglia nemmeno tenere. Del resto anche in tempi recenti il giornale ha ricevuto minacce e intimidazioni, così come la sede della Comunità degli italiani di Pola, più volte oggetto di vandalismi; mentre a Parenzo (Poreč) e Rovigno sono stati date alle fiamme le bandiere tricolori.
Girovagando per Pola, tra l’Arena romana, il tempio di Augusto e le le strette vie del centro storico, è facile imbattersi in lapidi bilingui che ricordano, in italiano e croato, i partigiani uccisi dalle truppe “nazifasciste”, le redazioni dei giornali filo-titini, la rivolta degli operai comunisti dei cantieri navali polesi. Non una parola, però, sulle decine di migliaia di italiani costretti a lasciare la città nel 1946 a causa delle violenze dei partigiani jugoslavi, tutte vittime – così come migliaia di altre famiglie italiane di Fiume e della Dalmazia – di uno dei più gravi casi di “pulizia etnica” in Europa. Senza contare quelli finiti nelle foibe, sfuggiti alle liste degli esuli imbarcati sul piroscafo “Toscana”.
Su quella nave, insieme a migliaia di persone che abbandonavano tutto e che non sarebbero mai stati risarcite, c’era anche uno dei figli più illustri di Pola, il cantautore Sergio Endrigo. Al quale oggi è intitolato un bel giardino nel centro della città, per ironia del destino non distante da quello dedicato al carnefice delle genti italiane, il maresciallo Tito.
Al viaggiatore sprovveduto l’Istria croata propone una visione fittizia e deformata della storia, che poi è quella che per oltre cinquant’anni ha regnato incontrastata anche in Italia. Il che, a ben vedere, è pure peggio. Così può capitare, passeggiando nei pressi della cattedrale di Pola, di imbattersi in un piccolo giardino nel quale si incontra una targa piuttosto enigmatica: «Vergarola 18.08.1946 13 h.». Per scoprire l’arcano è sufficiente una ricerca su internet e si viene a sapere che la lapide, posta solo nel 1997 dopo molte insistenze da parte della comunità italiana e altrettante resistenze da parte della maggioranza croata, anche se non lo dice esplicitamente commemora le ottanta vittime della strage di Vergarola, avvenuta il 18 agosto del 1946 su una spiaggia di Pola.
In una città posta sotto l’amministrazione militare angloamericana, nella quale gli italiani erano ancora in schiacciante maggioranza, quel giorno era in corso la tradizionale gara natatoria organizzata dalla società canottieri Pietas Julia, che il quotidiano locale L’Arena di Pola definiva come una sorta di manifestazione di italianità. All’improvviso ventotto mine antisbarco accatastate ai bordi dell’arenile esplosero, provocando il crollo dell’edificio della società canottieri e la morte di decine e decine di persone. L’inchiesta delle autorità britanniche non individuò i responsabili, ma stabilì che i residuati bellici non avrebbero mai potuto esplodere da soli.
Il messaggio alla comunità italiana arrivò forte e chiaro: l’esilio o la morte. E a quel punto più dell’80 per cento dei polesani di origine italiana scelse di abbandonare la propria città. Sul piroscafo “Toscana” c’era anche l’adolescente Sergio Endrigo, che molti anni dopo dedicherà all’esodo forzato degli italiani d’Istria una popolare canzone, in apparenza rivolta al pubblico dei bambini: L’arca di Noè, che giunse terza al Festival di Sanremo del 1970. «Partirà la nave, partirà. Dove arriverà, questo non si sa. Sarà come l’arca di Noè, il cane, il gatto, io e te». Ad ascoltare bene il testo, tuttavia, la disperazione dell’esilio emerge in tutta la sua drammaticità.
Storie lontane, che forse interessano pochi. Anche se di recente la stampa croata ha bollato come «provocazione irredentista» la presenza dei rappresentanti del “Comune di Pola in Esilio” alla celebrazione delle vittime di Vergarola. Il futuro è nell’Europa, nel crescente turismo sulle coste croate, negli scambi commerciali. E quel che resta della comunità italiana dell’Istria sembra tutt’altro che attratta dalle tentazioni revansciste che invece, bisogna ammetterlo, ancora animano le associazioni dei profughi in Italia. Anche perché i non molti italiani che nel 1946-47 scelsero di restare lo fecero per ignavia o convinzione politica nel comunismo jugoslavo, e in entrambi i casi furono indotti a tagliare le proprie radici e a subire un intenso processo di slavizzazione.
Difficile pensare che a sessantacinque anni di distanza, oltretutto in Paese democratico benché fortemente nazionalista, riemerga oggi una forte coscienza italiana. A Pola solo il 5 per cento si dichiara di madrelingua italiana, a fronte dell’88 per cento di croati. E nell’intera Istria la comunità italiana non supera il 10 per cento della popolazione totale. Rispetto ai tempi della Jugoslavia di Tito sono stati fatti molti passi avanti: esiste un formale bilinguismo, in molti paesi della costa l’italiano viene insegnato a scuola, l’associazionismo ha ripreso a funzionare e un Comune importante come Rovigno, fulcro del turismo istriano, ha un sindaco di origine italiana, Giovanni Sponza.
Però non c’è da farsi illusioni: a dispetto di quanto cantava anni fa La Compagnia dell’Anello, nell’Istria del 2013 “solo” le pietre sembrano ancora parlare italiano.

domenica 29 dicembre 2013

Massacro di Wounded knee, 29/12/1890


Riportiamo di seguito un breve passo riferito al massacro di “Wounded Knee” (nel quale persero la vita 144 indiani , di cui 44 donne e 16 bambini) nel ricordo di una popolazione sterminata brutalmente dall’esercito statunitense. Una falcidiazione di cui si parla troppo poco…

da aurhelio.it

Chankpe Opi, nella lingua dei Sioux Oglala, vuol dire “ginocchio ferito”. “Wounded Knee”, nella lingua degli invasori. E’ il nome di un torrente del South Dakota.
E’ il 29 dicembre 1890. In una piana coperta di neve, poche miglia a ovest del torrente, l’esercito degli Stati Uniti uccide a colpi di cannone centocinquanta Sioux, quasi tutti disarmati, in gran parte donne e bambini. I soldati se ne vanno, i cadaveri rimangono a cielo aperto, i feriti che riescono ad allontanarsi muoiono assiderati.
Gli ufficiali responsabili della strage sono ricompensati con venti medaglie al valore militare. Lo scrittore L. Frank Baum, autore de Il Mago di Oz, applaude al massacro e scrive: “La nostra sicurezza dipende dallo sterminio totale degli indiani. Dobbiamo cancellare dalla faccia della terra queste creature non addomesticate né addomesticabili”.
Quel giorno del 1890 i Sioux furono uccisi perché danzavano. Ballavano la “danza degli spiriti”, ghost dance, un rituale sacro diffuso in tutto il West dal profeta Wovoka, della tribù dei Paiute.  Due anni prima, durante un’eclisse di sole, Wovoka aveva avuto una visione. Il Grande Spirito gli aveva mostrato una terra di sogno, ricca di vegetazione e piena di selvaggina. Wovoka aveva incontrato i suoi antenati, parlato con loro, giocato e scherzato insieme a loro. Il Grande Spirito gli aveva detto: “Torna dal tuo popolo e raccontagli quello che hai visto. Danzate tutti insieme, danzate, predicate la pace e l’armonia. Questa terra è per voi e per i bianchi, ditelo anche a loro.”  La danza era un rituale non-violento, danzando si accettava l’invito in quel nuovo mondo di concordia e prosperità. Solo che, passando da una tribù all’altra, laghost dance si era trasformata. Per i Sioux, il compiersi della profezia comprendeva l’allontanamento degli invasori. La danza avrebbe reso gli indumenti invulnerabili, a prova di proiettile. Vista l’inutilità delle loro armi, i bianchi avrebbero rinunciato a ogni pretesa e sarebbero tornati nell’Est. Speranza e protesta, superstizione e delirio mistico: tutto quanto era rimasto a un popolo ridotto alla fame, costretto a rinunciare al nomadismo e alla caccia.
I bianchi avevano sterminato i bisonti, li avevano uccisi tutti, per le pellicce o per il semplice gusto di farlo, in un’insensata carneficina “sportiva”. Le carcasse erano lasciate a decomporsi nella prateria, migliaia di tonnellate di carne, uno spreco mai visto prima, incomprensibile agli indiani. La fine di un’antica economia di sussistenza. Si calcola che in pochi anni furono uccisi quasi quattro milioni di bisonti.  Nel frattempo, recinzioni e concessioni minerarie avevano – letteralmente – tolto l’erba da sotto i piedi degli indiani. Cavallo Pazzo era morto nel ’77, l’epoca delle rivolte e della resistenza armata volgeva al termine e il governo segregava le tribù nelle riserve, definitivamente. Toro Seduto era stato ucciso appena due settimane prima, insieme al figlio Zampa di Corvo. Restava solo la ghost dance
I danzatori si muovevano in cerchio, saltavano, cantavano, urlavano, toccavano vette di estasi e perdita della coscienza. I bianchi non capivano quelle movenze, ne erano terrorizzati, orripilati. Credevano fosse una danza di guerra. Paranoia e malafede facevano interpretare ogni gesto come messaggio in codice, segnale di rivolta, istigazione ad attaccare. I bianchi si aspettavano di vedere spuntare, da un momento all’altro, armi nascoste chissà dove. Fermatevi, smettetela, mi fate girare la testa, mi fate paura, fermatevi, non vi capisco, fermatevi o dò l’ordine di sparare!
Tra il 28 e il 29 dicembre 1890 il 7° Cavalleria, agli ordini del colonnello George A. Forsyth, intercettò e radunò più di trecento Sioux guidati da capo Grande Piede. Gli indiani sospettavano che Forsyth volesse caricarli su un treno e deportarli a Omaha, Nebraska, quasi seicento chilometri più a est. Come se l’esercito italiano decidesse, da un giorno all’altro, che dieci-quindici famiglie di Siena vanno spostate a Crotone, subito, è un ordine, salite sull’interregionale senza fare storie.  In realtà pare che Forsyth, dopo avere radunato e disarmato i Sioux, non sapesse bene che fare. Secondo altri osservatori, invece, c’era fin da subito l’intento di compiere una strage, o almeno la propensione a compierla: tredici anni prima, a Little Big Horn, Cavallo Pazzo e Toro Seduto avevano sconfitto e umiliato proprio il 7° Cavalleria, allora comandato da un altro “George A.”, il tenente colonnello Custer. Forse c’era voglia di chiudere i conti.  “Chiudere i conti”? Vendicare una sconfitta limpida, subita sul campo di battaglia, con un massacro vigliacco di civili inermi? Sì, certo, perché Little Big Horn non era considerata una sconfitta, ma un oltraggio alla civiltà. Come cantava Johnny Cash: “Non la chiamano vittoria indiana / ma sanguinoso massacro / Forse ci sarebbe stato più entusiasmo / se noi indiani avessimo perso.” (“Custer”, dall’album Bitter Tears, 1964).
Accadde tutto molto in fretta. I Sioux erano stanchi, infreddoliti e nervosi, fermi e tenuti sotto tiro da tante, troppe ore.
Qualcuno di loro cominciò a danzare. Altri seguirono l’esempio. 
I bianchi si agitarono. L’ordine di smettere di danzare rimase inascoltato. Forsyth fece puntare contro la piccola folla quattro cannoni Hotchkiss.
Al margine della scena un ragazzo, Coyote Nero, teneva in mano il fucile che era riuscito a nascondere il giorno prima. Un soldato cercò di strapparglielo di mano. Scoppiò un tafferuglio.  Proprio in quel momento lo sciamano Uccello Giallo, che guidava la danza, gettò in aria una manciata di polvere. Era parte del rituale, ma ai soldati sembrò un ordine di attacco.  I cannoni fecero fuoco. 
Dissolvenza.
fonte: http://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/ghostdance.htm

sabato 21 dicembre 2013

Rinnova te stesso.


Rinnova te stesso,
sul lavoro
negli studi
in amore
con gli altri.

SIATE ESEMPIO.

Con ogni Sole,
RINNOVATEVI.

Dormitorio per senzatetto e luogo di bivacchi, il Parco di Colle Oppio divorato dal degrado

da: lungotevere.org
Roma, 21 dic 2013 – Appena dieci giorni fauna fiaccolata dei residenti ne aveva denunciato le gravi condizioni di degrado. Oggi al Parco di Colle Oppio poco è cambiato: nessun pronunciamento è arrivato dall’amministrazione e le misure a tutela della pubblica fruizione dell’area verde sono ancora insufficienti.
Per questo, i cittadini sono tornati a ‘manifestare’ questa mattina nei giardini di Colle Oppio, “armati” di scope, rastrelli e secchi a volontà per “fare il primo passo”: cioè pulire il parco, anche con la collaborazione di Ama. “E’ una manifestazione spontanea di chi vive questo parco ed è esausta del degrado che è sotto gli occhi di tutti “, ha commentato Silvia Iorio, residente in zona.
Ad appoggiare l’iniziativa, promossa da comitati e associazioni del Rione Monti, anche il gruppo Fratelli d’Italia del I Municipio con il consigliere municipale, Stefano Tozzi.“Oggi è la seconda giornata di protesta, come anticipato nella fiaccolata dell’11 dicembre, per proseguire nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica riguardo lo stato in cui versa questo parco – ha dichiarato il consigliere - cerchiamo di ripristinarne il decoro, raccogliendo secchi di rifiuti, in attesa che venga risolto il problema dell’affidamento alla cooperativa che fino a questa estate ha ben gestito il parco”.

La situazione nell’area verde di Colle Oppio è infatti degenerata proprio lo scorso luglio, quando il contratto della cooperativa affidataria è scaduto, senza poi essere rinnovato.
Risultato? Le foto parlano da sé. Fontane storiche adibite a dormitori, con cartoni e coperte lasciati da chi la sera tonerà ad utilizzare lo stesso giaciglio di fortuna. Acque torbide, insozzate dai resti delle cene e dai vetri di bottiglia accumulati di giorno in giorno. Altrettanto nelle aree giochi, dove le mamme portano ancora i figli, tra vetri rotti, lamette e rifiuti di ogni genere.
Di manutenzione ordinaria quindi non se ne parla, ma anche la sicurezza lascia a desiderare. Perché il parco, non più gestito dalla cooperativa, non viene neanche regolarmente chiuso. “Riqualificare l’area è ora la priorità, - ha aggiunto Tozzi –restaurando le fontane storiche, i cigli e i giardini, ma attendiamo anche una presa di posizione da parte dell’amministrazione - che ancora non c’è stata - in merito ai rifugiati politici che vivono nel parco”.
Isabella Foderà

venerdì 20 dicembre 2013

Domani pulizia del Parco!


Dopo la splendida e riuscitissima fiaccolata svolta dieci giorni fa proprio all'interno del Parco di Colle Oppio, scendiamo di nuovo in strada armati di scope, palette e secchi, 
diamo un'ulteriore risposta concreta ai problemi del nostro Rione!
Se le istituzioni continuano a latitare, saremo noi cittadini a rimboccarci le maniche  per risolvere i problemi di degrado e pulizia all'interno del Parco! 
Per tutti quelli che non vogliono stare a guardare ed aspettare che le cose cambino da sole, ci vediamo domattina dalle ore 10 al Bar "Da Nunzia" all'interno del Parco.

domenica 15 dicembre 2013

Concerto per Carlo 2013 • Serata Comunitaria


Omaggio della musica alternativa a Carlo Venturino e agli Amici del Vento
14 gruppi, 30 canzoni per 30 anni di militanza 
Ci ritroveremo Lunedì sera tutti insieme ad assistere a questo evento speciale
con quel senso di Comunità che la musica alternativa ci trasmette.

sabato 14 dicembre 2013

Fiaccolata contro il degrado del Parco di Colle Oppio


da ilmessaggero.it

Fiaccole contro «il degrado del Parco di Colle Oppio». È l'iniziativa che si è svolta questa sera nella zona del parco, dopo il reportage-denuncia del Messaggero. Al corteo hanno preso parte, oltre ad abitanti della zona, anche Federico Mollicone, dirigente nazionale di Fratelli d'Italia. «Vi hanno partecipato centinaia di residenti - riferisce -, contro il degrado e l'insicurezza del parco». In una locandina di annuncio dell'evento, sottoscritta da diverse associazioni e comitati si legge: «Il problema del Parco di Colle Oppio è anche la sua generale riqualificazione. Quali progetti sono previsti?».


In una nota congiunta con il vice capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera Fabio Rampelli, Mollicone scrive: «Da mesi il parco di Colle Oppio a Roma vive una situazione di degrado senza precedenti: una tendopoli a cielo aperto nel quale più di 100 immigrati bivaccano all'interno di un'area di alto pregio architettonico e paesaggistico. Uno scempio a due passi dal Colosseo e nella totale indifferenza del ministro dell'Integrazione Kyenge e del sindaco di Roma Marino, che oltre a solidarizzare fintamente, lasciano circa 80 richiedenti asilo politico, quasi tutti di origine africana, in un'area archeologica e nemmeno espellono i clandestini. Kyenge e Marino non hanno alzato un dito per trasferire in adeguati centri d'accoglienza queste persone, molte delle quali accampate in rifugi di fortuna e in condizioni di estrema precarietà soprattutto in questi giorni di grande freddo. Tale stato di abbandono del parco provoca non solo problemi di igiene e di sicurezza, ma anche di tensione sociale visto che alcuni immigrati godono peraltro dello status di rifugiati politici».

«Oltre ad esprimere vicinanza e solidarietà ai residenti annunciamo la partecipazione alla fiaccolata di questa sera contro il degrado - concludono -. Fratelli d'Italia presenterà un'interrogazione parlamentare al ministro dell'Interno Alfano e al ministro dell'Integrazione Kyenge per chiedere il ripristino della legalità all'interno dell'area, l'espulsione dei clandestini e il trasferimento degli immigrati in centri di accoglienza».

da ilquotidianodellazio.it

Cento fiaccole contro il degrado: è questa l'iniziativa promossa dai residenti e comitati di quartiere che hanno sfilato oggi. La lunga serpentina ha compostamente percorso Viale del Monte Oppio per protestare contro lo stato d'abbandono in cui versa uno dei parchi storici più belli e centrali di Roma

La protesta si è conclusa con un comizio in cui tutte le realtà hanno preso la parola e descritto le criticità cui odiernamente i residenti sono esposti. Gli iscritti del centro anziani, le mamme e i frequentatori dell'area verde hanno focalizzato i loro interventi su igiene e sicurezza.
"Le fontanelle emanano odore di urina e a terra è pieno di siringhe": così afferma una mamma che ha protestato insieme al proprio figlio "nonostante il freddo, perchè la situazione è progressivamente diventata insostenibile e va denunciata".
"Peggio del terzo mondo", sostiene invece un atleta che tutte le mattine è costretto a fare lo slalom tra rifiuti e avanzi di pic nic sparpagliati ovunque.
"Bisogna riqualificare il parco, l'unica discarica a cielo aperto che ospita le meraviglie più belle del mondo", afferma un altro.

Per fortuna sul tema c'è un'interrogazione parlamentare, come comunica Federico Mollicone di Fratelli d'Italia, e in particolare sulla questione immigrazione e sulla maxi-tendopoli abusiva presente all'interno del parco.
Ancora da Fratelli d'Italia si solleva la voce del consigliere del I Municipio Stefano Tozzi, che fa riferimento al grosso investimento sostenuto dalla nuova amministrazione di Roma Capitale per valorizzare i beni monumentali e i Fori Imperiali: "A 100 metri dalle attenzioni del Sindaco - sostiene Tozzi - c'è il parco storico di Colle Oppio con le sue fontane monumentali, i ruderi romani e la stupenda Domus Aurea". "Eppure - prosegue il consigliere di Fratelli d'Italia - quest'area di indiscutibile pregio archeologico è stata inspiegabilmente esclusa dal piano di valorizzazione cittadina".

In attesa di ottenere risposte, i cittadini mantengono accesa la loro fiaccola, facendo luce sulle realtà dimenticate di Roma.

giovedì 24 ottobre 2013

La popolarità di Marine Le Pen


Giampaolo Rossi

Marine Le Pen entrò in politica all’età di 8 anni, come ricorda lei, “nel modo più violento, più crudele, più brutale”; c’entrò quando la notte del 2 Novembre del 1976 venti chili di dinamite fecero saltare in aria il palazzo dove abitava con la sua famiglia e solo per un miracolo non ci furono vittime. La bomba seguiva di pochi giorni il congresso del Front National di cui suo padre era il presidente. Ed è lei stessa a ricordare che “fu quella notte di orrore a farmi scoprire che mio padre faceva politica”.

Per 35 anni il Front National è stato un ciclico protagonista della politica francese. Ghettizzato come espressione di una destra razzista e xenofoba (e in parte lo è stata), è sopravvissuto all’emarginazione, all’isolamento e all’odio sia della gauche francese e dei suoi inutili intellettuali, sia di quelli che Marine Le Pen definisce con disprezzo “i borghesi dell’Ump”.
Ha ottenuto risultati eccezionali, come quando alle elezioni presidenziali del 2002 suo padre Jean Marie escluse i socialisti dal ballottaggio costringendoli a votare compatti l’odiato Chirac per impedire che un Le Pen diventasse Presidente della Repubblica.
Da due anni Marine ha preso il posto del padre ed il Front National gode di una nuova ed incredibile popolarità. Sui media europei ha fatto scalpore il recente sondaggio di Nouvelle Observateur, che lo dà primo partito in Francia; confermato qualche giorno fa dalla vittoria a Brignoles, nel sud della Francia, dove il candidato lepenista ha stravinto con il 40%, doppiando il partito di Sarkozy e azzerando la sinistra.
Perché la novità è questa: Marine Le Pen pesca il consenso a piene mani non solo nel tradizionale bacino elettorale di destra ma ora anche e soprattutto nelle classi popolari più esposte al dramma della crisi e più consapevoli, perché vissuto sulla propria pelle, dell’imbroglio di un’Europa che ha imprigionato le economie nazionali nella schiavitù del debito.
Suo padre, Jean Marie, fu il primo leader politico europeo a porre con forza il problema dell’immigrazione: il mito del multiculturalismo non avrebbe dato vita ad un mondo arcobaleno ma avrebbe messo in crisi le società europee sfaldandone identità, coesione sociale e generando conflitti irriducibili. Oggi ci accorgiamo che l’analisi di Le Pen aveva un suo fondamento: dai tribunali della Sharia in Inghilterra che mettono in discussione la laicità del diritto britannico, alle rivolte nelle periferie islamizzate delle città del nord Europa, al crescere di un integralismo in casa nostra che produce manovalanza per il terrorismo internazionale.
Ora Marine somma alla lotta all’immigrazione, la battaglia contro Euro e Unione Europea: “io non combatto l’Europa, ma l’Ue, le sue politiche, la sua architettura, il suo Dna, i suoi progetti”, al servizio “non dei popoli ma dei mercati, dei banchieri e delle lobby”.
Marine fa più paura di suo padre. Il Front National di ieri era un partito che si baloccava tra i ricordi dell’Algeria e i reduci di Vichy, mentre quello di oggi, ripulito dai soggetti più reazionari e dagli ambienti più estremisti, ha rinnovato a tutti i livelli la sua classe dirigente ed ha aperto alla società civile, ai giovani e alle donne; reclama la piena laicità dello Stato; sfonda persino tra i francesi immigrati di seconda e terza generazione. Ha promesso che quando (non se) vincerà le presidenziali farà un referendum sull’Euro. Quanto basta per terrorizzare i padroni della moneta. Nei giorni in cui i sondaggi francesi facevano tremare i circoli di Bruxelles, Mario Draghi è intervenuto precisando che “l’Euro è irreversibile”. Più o meno come la morte.
Marine Le Pen dimostra una cura ossessiva per la parola e il potere evocativo che essa racchiude. Qualche giorno fa ha affermato che è disposta a querelare i media e i giornalisti che useranno il termine “estrema destra” per definire il suo partito: “noi non siamo né di destra né di sinistra. Noi siamo un movimento nazionale”.
Alla demonizzazione del mainstream lei risponde con una strategia di de-diabolisation (de-demonizzazione) chiara ed efficace: ha capito che un politico non deve parlare ai media, ma ai francesi. E loro la stanno ascoltando.

martedì 22 ottobre 2013

A Ustica fu un missile (e ci fu depistaggio): storica sentenza della Cassazione


Fabio Rampelli
Ministri, militari e civili asserviti agli interessi stranieri vanno processati per altro tradimento.
Trentatré anni fa un missile fu sparato contro un aereo dell'Itavia da un caccia non identificato uccidendo 81 persone innocenti. Il governo dell'epoca depistò le indagini assecondando i voleri di potenze straniere invece di difendere la sovranità italiana e i diritti delle vittime e delle loro famiglie. Questa la verità accertata oggi dalla Cassazione, la stessa che Il 'Fronte della Gioventù' dell'epoca divulgò tra mille ostacoli. Ci fu nei cieli di Ustica una vera azione di guerra. Ora la verità emerga fino in fondo: il nostro popolo deve sapere se quel caccia era francese o americano, l'Italia deve reagire e processare per alto tradimento ministri, militari e civili protagonisti dei depistaggi, affinché tutti sappiano che chi tradisce l'Italia viene punito.

giovedì 17 ottobre 2013

Identità di genere: la libertà di educazione a rischio in Europa


CC, Notizie ProVita

Come genitori leggiamo  con viva preoccupazione l’intenzione del Dipartimento delle Pari Opportunità di  promuovere le ideologie di genere e l’indifferenza dell’orientamento sessuale nelle scuole italiane di ogni ordine e grado sin dagli asili nido.
Mi riferisco alla “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (2013-2015)” pubblicata il 30 aprile 2013 sul sito dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, Dipartimento per le Pari Opportunità).
Lo scopo di queste linee guida vorrebbe essere quello di contrastare la discriminazione, ma di fattocolpiranno il cuore della famiglia, nella sua componente più  innocente e indifesa, i bambini.
Leggendo le Linee Guida si coglie  l’intento di modellare le coscienze degli studenti sin dalla più tenera età, incidendo in profondità nei loro valori, nella loro formazione morale.
Possiamo dire di conoscere queste ideologie in base alle quali si auspica di indottrinare i nostri figli?
Papa Benedetto XVI afferma che la teoria di genere  è una delle forze che stanno dietro all’attacco al matrimonio, alla famiglia, alla verità della persona umana  e alla fede.
Le ideologie di genere post-moderne sostengono che il sesso biologico è irrilevante, ciò che conta è quello che voglio essere. L’umanità non è divisa tra maschi e femmine, ma  è fatta di individui che scelgono chi vogliono essere.  L’idea è che i sessi non sono due, ma molti. Non nasciamo maschi o femmine, ma possiamo essere maschi e femmine, cioè  in una dimensione di confusione, fluida, tra una sessualità e l’altra. Strettamente legata è l’idea che anche l’orientamento sessuale è indifferente, l’omosessualità, l’eterosessualità ma anche la bisessualità sono indifferenti, non c’è una scelta migliore o peggiore, tutto si equivale.
Le teorie di genere negano la realtà della differenza sessuale. Affermano ad esempio che il sesso viene “assegnato” ad un bambino alla nascita, come se l’identificazione del sesso di un bambino fosse un atto arbitrario,  arrivando ad affermare che il bambino ha la libertà di scegliere il proprio genere  già a 5 anni.
La “Strategia Nazionale” auspica di promuovere queste teorie  attraverso la principale Agenzia educativa che è la Scuola, a cominciare dagli asili nido.
“..A tal fine, sarebbe auspicabile un’integrazione e un aggiornamento sulle tematiche LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali) nei programmi scolastici..Occorre altresì progettare percorsi innovativi di formazione in materia di educazione alla affettività che partano dai primi gradi dell’istruzione, proprio per cominciare dagli asili nido e dalle scuole dell’infanzia..”
(CAPITOLO 4. GLI ASSI DELLA STRATEGIA paragrafo 4.1. EDUCAZIONE E ISTRUZIONE, pag 17)
In diversi Stati europei si assiste ad un tentativo di manipolare le coscienze degli studenti secondo ideologie e valori non condivisi dalle famiglie.
Bimbi buttati nelle sabbie mobili del relativismo.
Bambini a cui viene insegnato ch
e non si nasce maschi o femmine, ma di un genere malleabile, che non esiste una realtà certa…
Curriculum scolastici che promuovono come indifferente qualunque tipo di unione. Non più la famiglia, ma le famiglie.
In Inghilterra qualche anno fa,  il ministro per l’Istruzione e l’Infanzia Ed Balls è arrivato a pretendere  che le parole  mamma e papà non venissero più utilizzate nelle scuole primarie perché gravemente offensive nei confronti degli omosessuali.  (“Inghilterra, vietato dire mamma e papà a scuola”, il Giornale.it 31/01/2008)
Tutti abbiamo un padre e una madre, e questa è semplicemente la realtà.

…“Nella paternità e maternità umane Dio stesso è presente” (Evangelium  Vitae, Giovanni Paolo II, nr.43)
Il processo di delegittimazione della famiglia è  in corso in buona parte d’Europa, dove dalla Spagna di Zapatero, alla Francia di Holland, si vanno adottando nuovi codici della famiglia che aboliscono i termini di madre e padre, sostituendoli con genitore 1 e genitore 2.
Con la famiglia anche la libertà di educazione è oggi drammaticamente ferita in Europa.

Anche in Italia, se verrà deliberata la legge sull’omofobia,  temiamo che sarà limitata la libertà di parola, di religione e di coscienza dei genitori e quindi il diritto ad educare i figli secondo le proprie convinzioni, diritto garantito dalla Costituzione Italiana e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

In Francia in questi giorni il ministro dell’istruzione Vincent Peillon ha reso obbligatoria in tutte le scuole pubbliche  la “Carta della laicità”, sono 15 articoli in cui si afferma tra l’altro che “Nessun allievo può invocare una convinzione religiosa o politica per contestare a un insegnante il diritto di trattare un tema che fa parte del programma”.

In Germania dal 2006 al 2011 si sono contati 35 genitori incarcerati  per essersi rifiutati di mandare i propri figli, frequentanti le primarie, ai corsi di “educazione” sessuale previsti obbligatoriamente dall’ordinamento scolastico. (Zenit, 08/03/2011)
Questi corsi erano ritenuti dai genitori immorali anche per l’uso di immagini e situazioni giudicate pornografiche.
Il governo spagnolo ha introdotto nel 2006 un curriculum scolastico denominato “Educazione alla cittadinanza”.  I contenuti obbligatori  includono temi come ” Identità personale”, ” Educazione emotiva ed affettiva” o” La costruzione della coscienza morale ” . Questi argomenti sono affrontati dal punto di vista del relativismo  mentre idee come la verità, il bene e il male non sono nemmeno considerati come una possibilità. In poco più di tre anni , i genitori spagnoli hanno presentato 55.000 obiezioni di coscienza , rifiutandosi di permettere ai loro bambini di frequentare le lezioni CEF. Creando più di 70 associazioni , sia a livello regionale che locale, per informare, sostenere e aiutare i genitori che hanno obiettato. (“Spanish education for citizenship: an assault on freedom of education and conscience”,  Profesionales por la etica, www.profesionalesetica.org)

Croazia. Nel primo semestre 2013 i bambini croati hanno subito nelle scuole primarie corsi di sessualità, in cui si rappresentano situazioni di sesso esplicito e la pornografia viene utilizzata come strumento didattico (“ I programmi di educazione sessuale per i bambini in Croazia sono stati redatti da pedofili” La nuova Bussola Quotidiana, 04/04/2013) Improntati alle ideologie di genere, si insegna ai bimbi che non nascono né maschi, né femmine..Sospesi a maggio 2013 dalla Corte Costituzionale, leggermente modificati, verranno riproposti anche nel corrente anno scolastico. I genitori croati hanno costituito una associazione  “Vigilare” per chiedere al governo la libertà di non mandare i propri figli a queste lezioni,  la libertà di educare i propri figli.

Papa Benedetto XVI, nel discorso rivolto il 10/01/2011 al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, affermava di non potere “passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione”
Sempre il Magistero del Santo Padre afferma “..in Europa, e non solo, si è ormai affermata una visione che vede necessario “espropriare” i genitori dalla funzione di educatori per promuovere un insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole fin dall’infanzia secondo una visione edonistica, che riduce la persona a puro istinto, oggetto di piacere e pulsioni sessuali”

Stati Uniti. Lo Stato del Massachusetts  impone alle scuole di permettere ai bambini che pensano di essere dell’altro sesso di decidere da sè se sono maschi o femmine sin dai 5 anni di età. I bambini, anche piccolissimi, che non si prestano a questa menzogna, di considerare e trattare da maschio un compagno femmina o viceversa, vengono tacciati di bullismo. I terapeuti che vogliono aiutare i bambini che presentano un disturbo dell’identità di genere vengono citati in giudizio. I medici sono incoraggiati a fornire a questi bambini trattamenti che inibiscono la pubertà  e prepararli per il cambiamento di sesso. (Dale o’Leary, La teoria Gender, alienata dalla realtà, 13/04/2013)

“La coscienza morale, sia individuale che sociale, è oggi sottoposta,..,a un pericolo gravissimo e mortale: quello della confusione tra il bene e il male”… “Quando la coscienza questo luminoso occhio dell’anima, chiama “bene il male e male il bene” (Is 5, 20), è ormai sulla strada della sua degradazione più inquietante e della più tenebrosa cecità morale.” (Evangelium Vitae, Giovanni Paolo II, nr .24)
“E’ l’esito nefasto del relativismo che regna incontrastato: il diritto cessa di essere tale, perché non è più solidamente fondato sull’inviolabile dignità della persona, ma viene assoggettato alla volontà del più forte. In questo modo la democrazia, ad onta delle sue regole, cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo. Lo Stato non è più la “casa comune” dove tutti possono vivere secondo principi di uguaglianza sostanziale ma si trasforma in Stato tiranno” (Evangelium Vitae, nr. 20)

La “cultura della  morte” che si è accanita  contro i bimbi nel grembo con le leggi sull’aborto, ora si volge contro i nostri figli già nati.

Guardo negli occhi i miei figli, e resto quasi intimorita di fronte al loro mistero. Li contemplo così come si contemplano le cose di Dio, che non riusciamo ad afferrare compiutamente ma ne intuisci la meraviglia, li guardo  e sento dentro le parole di Gesù: l’angelo di ognuno di questi piccoli in cielo guarda incessantemente la faccia  del Padre Mio che è nei cieli.
“Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi? Lo hai fatto poco meno degli angeli di gloria e onore lo hai coronato” (Sal 8,6)
Come contrastare questa cultura relativistica, che nega la bellezza e la dignità dell’Uomo?
La realtà attuale chiede ai genitori una sempre maggiore consapevolezza e vigilanza.
Chiamati ad essere  testimoni della Verità,  a difendere la realtà.
Chiediamo alle Istituzioni il rispetto della famiglia, il rispetto dell’innocenza e della dignità dei nostri figli.
Saldi nella Fede e nella Speranza ricordiamo infine le luminose parole del beato Giovanni Paolo II: “E’ certamente enorme la sproporzione che esiste tra i mezzi, numerosi e potenti, di cui sono dotate le forze operanti a sostegno della “cultura della morte” e quelli di cui dispongono i promotori di una “cultura della vita e dell’amore”. Ma noi sappiamo di poter confidare sull’aiuto di Dio, al quale nulla è impossibile (cfr. Mt 19,26). Con questa certezza nel cuore e mosso da accorta sollecitudine per le sorti di ogni uomo e donna, ripeto oggi a tutti quanto ho detto alle famiglie impegnate nei loro difficili compiti fra le insidie che le minacciano: è urgente una grande preghiera per la vita, che attraversi il mondo intero. Con iniziative staordinarie e nella preghiera abituale, da ogni comunità cristiana, da ogni gruppo o associazione, da ogni famiglia e dal cuore di ogni credente, si elevi una supplica appassionata a Dio, Creatore e amante della Vita.” (Evangelium Vitae, nr 100)

domenica 6 ottobre 2013

Norma Cossetto, una storia da ricordare...


Norma Cossetto era una splendida ragazza di 24 anni di Santa Domenica di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l'Università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i comuni dell'Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo "L'Istria Rossa" (Terra rossa per la bauxite).

Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone. Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici.

Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, quindi gettata nuda nella Foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani. Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio urla e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udì, distintamente, invocare pietà.

Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate.

Emanuele Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite di armi da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri. Norma aveva le mani legate in avanti, mentre le altre vittime erano state legate dietro. Da prigionieri partigiani, presi in seguito da militari italiani istriani, si seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti.

La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier. Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l'ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima,nell'attesa angosciosa della morte certa. Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all'alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra.

giovedì 26 settembre 2013

Cultura. La modernità di Boccasile artista che mise la sua vita nel vortice della storia


da barbadillo.it
Tragico settembre  1943.   L’Italia brucia.   Un’ artista,  una famosa firma,  decide di aderire alla Repubblica Sociale Italiana.   E’  una scelta  gravosa.  Ma sembra la sua:  la scelta  che  dice che  la patria  non cambia  il  nome,   che la patria  ha  sempre  lo stesso volto,  il volto dell’onore  e della difesa dei valori dei padri.
Lui è Gino Boccasile, il grande interprete della comunicazione  novecentesca di massa.   L’inventore di  immagini moderne popolari.  Un pittore, che si  fa tenente  di una divisione granatieri delle SS italiane,  senza essere un persecutore, senza  essere condannato nel 1945.   Un artista che,  sotto una luce elettrica nervosa,  in caserma, continua     a disegnare  quei soldati con  gli occhi  gonfi  e  fieri,  mentre la  guerra  è  perduta  in ogni caso.
 G. B.  è lontano da noi.  Ma resta  vicino con l’ esempio.  Egli   mette la sua  vita nel vortice della storia.  Senza  nascondersi dopo  tutto il  successo  raccolto per il  suo ingegno.
Per i suoi notevoli meriti artistici. Per la sua  parabola da italiano. Oggi,  più che mai,  meriterebbe  una grande retrospettiva nazionale. Ed è  questo il  periodo giusto  per costruire un  evento  utile al  ricordo di  un  italiano   e   alla valorizzazione  della sua opera. Con dei costi  accessibili,  i suoi quadri sono in vendita nel web,  ma meriterebbero il museo!  E  meriterebbero l’attenzione delle istituzioni culturali.
I suoi lavori  nella comunicazione pubblicitaria ci parlano.  Ecco  Le signorine grandi firme  degli anni trenta. Ecco le collaborazioni con i più importanti editori italiani. Ecco  il  suo impegno, a favore delle grandi industrie nel dopoguerra, per il rilancio dell’economia  nazionale.
Ma,  da anni, la ricerca storica tace.  Tace su questo creatore di miti moderni. Perché? Forse a causa dell’idea critica, tutta superata,  per cui il disegno e la grafica sono  espressioni artistiche secondarie? O ci sono altre ragioni? Forse pesano ancora le  scelte di Boccasile  che  lo spingono a realizzare  i  manifesti  infiammati della Rsi,  dal 1943  al 1945?
Le memorie pittoriche  italiane  non devono essere  trascinate nel  dimenticatoio della storia.  Ci  fu un tempo  in cui gli artisti  innocenti  furono processati  dai vincitori. Un  tempo in cui,  nei libri  e nelle scuole d’arte,  si tacevano i nomi  di artisti come  di  Sironi,  Funi,   Maccari ,  Boccasile… E  le giovani  generazioni non  devono  pagare per la  lunga  stagione dell’oblio,  l’ oblio forzato.
E’  facile  processare  un  intellettuale,  un disegnatore, un artista. Oggi,  tuttavia,  sono  comuni   gli infinti dimenticare e sprecare:  dimenticare e sprecare la memoria storica a causa di un   presente liquido  di un  uragano televisivo interminabile   che  non sa ripercorre  i passi  degli  italiani.
Per riflettere sull’ arte di Gino Boccasile,  un’arte   che mirava ad accrescere  l’idea di benessere sociale,  qui,  a voce alta,  chiediamo  una  Mostra  nazionale su  Gino Boccasile.   Una mostra sulla  sua  arte  novecentesca  e  italiana.
Le istituzioni culturali  rispondano…  Per  favore,  rispondano!

Alto Adige: l’Italia va contro se stessa


di Giampaolo Rossi
Se Graziano Delrio, ministro degli Affari Regionali, avesse letto Johann Gottfried Herder, avrebbe evitato di far arrabbiare i “montanari” del Cai (lo storico Club Alpino Italiano fondato da Quintino Sella). Ma cosa c’entra un ministro del governo Letta, con un filosofo tedesco del ‘700 e con gli appassionati della montagna? Ora provo a spiegarlo.
Johann Herder è stato uno dei massimi teorici della nazione nel tempo in cui le nazioni dovevano prendere forma compiuta. Personaggio eclettico e allievo di Kant, era convinto che lo spirito di un popolo e la sua identità fossero intimamente legati alla lingua. Per Herder, la lingua non era solo un mezzo per comunicare ma “il legame delle genti” e l’impronta di un preciso carattere nazionale; “la lingua è ciò che individua una Nazione”, scriveva nel 1764.
Graziano Del Rio, al contrario, è convinto che la lingua di un popolo sia una sorta d’incidente di percorso, una specie di merce di scambio per accordi politici improvvisati e concessioni d’interesse. E così, agli inizi d’Agosto, ha pensato bene di stipulare un accordo con l’altoatesino Luis Durnwalder, Presidente della Provincia autonoma di Bolzano, che prevede la cancellazione di 135 toponimi italiani dalla cartellonistica dei sentieri di montagna, che rimarranno solamente in lingua tedesca. In pratica da oggi, le montagne italiane dell’Alto Adige non saranno più italiane, ma tedesche.
Questo ha fatto arrabbiare le guide alpine del Cai, gente tosta, che della “conoscenza delle montagne” fa la base della sua attività, della sua passione ed anche dell’amore per il nostro paese; già in passato si erano impegnate in prima linea nella difesa del bilinguismo, trovando accordi con la comunità di lingua tedesca, meglio di quanto ha saputo fare Delrio.
Il ministro si è affrettato a spiegare che “questa intesa va nella direzione di una conquista della convivenza e del bilinguismo”. Ora, come possa il bilinguismo essere “conquistato” eliminando una delle due lingue (e guarda caso proprio quella della nazione a cui la provincia di Bolzano, fino a prova contraria, appartiene) questo Del Rio non ce lo spiega.
Il problema  è ovviamente complesso e attiene a questioni storiche e giuridiche. Proviamo a semplificarle.
Finita la seconda guerra mondiale il destino dell’Alto Adige,  che apparteneva all’Italia pur avendo una popolazione a maggioranza tedesca, fu risolto a margine della Conferenza di Parigi; la stretta di mano tra Alcide De Gasperi e il ministro degli esteri austriaco, Karl Gruber, sancì, almeno apparentemente, la fine del contenzioso su questa regione: l’Alto Adige rimaneva all’Italia, ma l’Italia s’impegnava a tutelare la popolazione di lingua tedesca introducendo il bilinguismo, consentendo l’insegnamento del tedesco nelle scuole e autorizzando il rientro degli Optanten, quei tedeschi che durante il nazismo avevano rinunciato (optato) alla cittadinanza italiana trasferendosi in Germania. Ma la questione altoatesina continuò negli anni successivi a fronte del sorgere del terrorismo dei gruppi oltranzisti sudtirolesi e delle accuse austriache di non rispettare l’accordo di Parigi; accuse che arrivarono persino a scomodare l’Onu che all’inizio degli anni ’60 dovette emanare due risoluzioni (la 1497 e la 1661) per dire sostanzialmente ad Italia ed Austria: “vedetevela da soli e non disturbate troppo”.
La questione sembrò trovare una sua definiva mediazione nel 1972, quando è stato promulgato lo Statuto speciale di autonomia per il Trentino Alto Adige (divenuto Legge Costituzionale nel 2001) che ha sancito “l’obbligo della bilinguità nel territorio della provincia di Bolzano”e ha specificato che “nella regione la lingua tedesca è parificata a quella italiana che è la lingua ufficiale dello Stato”.
E’ possibile che il ministro Delrio e coloro che lo hanno consigliato a firmare l’accordo, non fossero a conoscenza di tutto questo?
La cancellazione di 135 nomi italiani è un atto di gravità assoluta che genera un precedente pericoloso nei rapporti con la comunità tedesca. Attraverso di esso il governo Letta riconosce un diritto di monolinguismo (tedesco) in Alto Adige. Paradossalmente, il governo italiano ha violato i patti di Parigi contro se stesso. Ora potrebbero essere i cittadini di lingua italiana a rivolgersi all’Onu affinché l’Italia rispetti il loro diritto al bilinguismo. Una follia che rasenta il comico, nella tragicità di un atto anti-costituzionale che non rispetta la nostra identità nazionale.
L’endocrinologo di Reggio Emilia diventato Ministro degli Affari Regionali, così come l’oculista del Congo che vuole lo “ius soli” (ma paragona il burqa islamico al velo delle suore cattoliche), sono due facce di una stessa medaglia: quella di una classe politica che sembra incapace di comprendere la differenza tra interessi nazionali e  battaglie ideologiche.
Il paradosso è che mentre il governo Letta rinuncia all’italiano in Alto Adige, l’Europa riconosce la nostra lingua a livello continentale accogliendo il ricorso italiano contro l’uso esclusivo di inglese, francese e tedesco, nei bandi pubblici Ue; uno smacco per un governo che fa dell’obbedienza cieca all’Europa, la sua ragione d’esistere. Il Tribunale del Lussemburgo ha imposto in futuro che l’italiano e le altre lingue comunitarie siano inserite nei bandi dei concorsi, per evitare “una disparità di trattamento sulla base della lingua” vietata dalla Corte dei Diritti fondamentali. Disparità di trattamento che, invece, Delrio e il governo Letta hanno imposto agli italiani in Alto Adige.