giovedì 28 febbraio 2013

Mantakas, quel greco “fascista” che venne a morire a via Ottaviano


di Antonio Pannullo

Se fosse vissuto, oggi Mikis Mantakas sarebbe un signore alla soglia dei sessant’anni, forse in procinto di andare in pensione dopo una vita passata in qualche ospedale greco, o italiano, giacché era iscritto a medicina. Era nato ad Atene nel 1952. Ma le cose andarono in maniera molto diversa, e quel 28 febbraio del 1974 fu l’ultimo giorno della sua vita. E gli ultimi istanti della sua esistenza li trascorse sdraiato in un box privato, un garage, vegliato da Stefano Sabatini, un giovanissimo attivista della sezione Prati, che dopo che lo aveva visto cadere colpito da un proiettile, lo aveva trascinato al riparo per sottrarlo alla furia omicida che stava imperversando di fuori. E non sembri un’esagerazione, c’era davvero l’inferno in piazza Risorgimento quel giorno. Quella settimana si stavano tenendo al vicino tribunale di piazzale Clodio le udienze del processo Primavalle, quello in cui si giudicavano gli assassini dei fratelli Mattei, Stefano e Virgilio, bruciati vivi nella notte nella loro casa dagli attivisti di Potere Operaio Lollo, Clavo e Grillo (e forse altri). Gli estremisti di sinistra avevano deciso che i fascisti non avrebbero neanche potuto assistere al processo, e si mobilitarono in maniera massiccia, militare, per dar vita a scontri. Scontri che iniziarono il 24 febbraio mattina e andarono avanti sino a quel 28, quando missini e gruppettari si videro davanti al tribunale alle sei del mattino. La notte prima un commando di Lotta Continua aveva assaltato la “palestra” di Angelino Rossi a volto coperto e con bombe incendiarie: ma ci fu un’altra vittima in quei giorni, un commissario di polizia che fu stroncato da un infarto mentre era lì in servizio, e che nessuno ricorda mai, Pietro Scrifana. Gli estremisti di sinistra erano pesantemente armati: pistole e bombe molotov a decine. E le usarono. Un dirigente del Fronte della Gioventù fu bersagliato da colpi di pistola, ma ebbe fortuna. Dopo alcune scaramucce dentro e fuori il tribunale, nel corso delle quali fu anche identificato Alvaro Lojacono (per uno scontro con un attivista missino del Prenestino), che successivamente sparò davanti la sezione di via Ottaviano 9. Secondo un disegno che a posteriori appare chiaro, alcune centinaia di comunisti ingaggiarono violenti scontri con la polizia, per permettere a un centinaio di loro, armati, di dirigersi verso la sede del Msi di via Ottaviano, presidiata da una trentina di attivisti, quasi tutti molto giovani. A quanto ricordano i testimoni, quelli di Potere Operaio spararono molti colpi di pistola contro il gruppo dei missini, i quali entrarono e uscirono un paio di volte dal portone, e fu nella seconda occasione che Mantakas fu colpito alle testa. Un altro ragazzo, Fabio Rolli, fu ferito a un polmone, ma lì per lì nessuno si accorse di nulla. Ci fu poi il lancio di molotov e l’assalto vero e proprio, sempre pistole in pugno. A quel punto alcuni riuscirono a rifugiarsi dentro la sede, altri rimasero fuori. Per giunta, in quei momenti mancò (o fu staccata) la luce cosicché la porta elettrica della sezione non si poteva più aprire. Un ragazzo che era lì dentro ricorda che al buio si sentivano grida, odore di benzina, terrore di finire come i Mattei, tentativi di armarsi con gambe di sedie e effettuare una sortita. Frattanto il dramma si era compiuto. I gruppettari avevano attaccato il portone dello stabile per entrarvi, così l’esanime Mantakas, nel frattempo colpito anche da una molotov il cui fuoco fu spento con le mani dai presenti, fu trascinato nel box da Stefano e da altri ragazzi, che poi chiuse la serranda. A un certo punto gli estremisti irruppero nel cortile e spararono diversi colpi di pistola contro il box attiguo, che era quello più vicino all’entrata. A quel punto il fumo, il rumore, gli spari avevano attirato l’attenzione delle forze dell’ordine, che peraltro non avevano neanche ritenuto di presidiare la sezione del Msi che era un obiettivo tutto sommato da considerare. Arrivò la polizia, con gran stridore di gomme, ma era troppo tardi: un’ambulanza dei vigili del fuoco portò Mantakas all’ospedale ma poche ore dopo, durante o subito dopo l’operazione alla testa, Mikis morì. Frequentava il Fuan di via Siena da qualche mese. Aveva conosciuto i ragazzi della destra universitaria al bar Penny, lì davanti, tra cui Umberto Croppi, col quale era andato quella fatidica mattina a piazzale Clodio e col quale era amico. Poco dopo fu arrestato Fabrizio Panzieri di Potop, mentre usciva con aria indifferente da un portone poco distante. Testimonianze di giovani missini poi individuarono in Lojacono quello che aveva sparato. Mantakas si era trasferito a Roma perché all’università di Bologna era stato aggredito dagli estremisti di sinistra davanti a biologia, che lo mandarono all’ospedale per quaranta giorni. Ai funerali nella chiesa di Santa Chiara, in piazza della Minerva a Roma, c’erano migliaia di persone, e quasi tutte giovani. Persino in quell’occasione gli estremisti, usciti dalla sede del Pdup, tirarono una bomba molotov contro l’automobile guidata dall’allora segretario provinciale del FdG Buontempo, che riuscì a fuggire. Nel marzo del 1977 ci fu la condanna a nove anni e sei mesi di reclusione per concorso morale in omicidio per Panzieri. Assoluzione, invece, per insufficienza di prove, per Lojacono. Il processo di secondo grado, nel 1980, si concluse con la condanna a sedici anni di reclusione per entrambi. Ma un ricorso in Cassazione bloccò l’esecutività della sentenza per Lojacono che rimase in libertà per poi fuggire in Algeria, e poi in Svizzera assumendo il cognome della madre. Lojacono nel 1978 era nel commando delle Brigate Rosse che rapì Aldo Moro e uccise la sua scorta. Nel 1983, fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Tartaglione. La Svizzera non concesse mai l’estradizione e nel 1999 divenne un uomo libero. Fabrizio Panzieri, approfittando di una scarcerazione, si dette alla latitanza. Nel 1982 fu condannato a ventuno anni di reclusione. Ancora oggi risulta latitante. Forse è in Nicaragua, dove c’è anche Grillo, quello del rogo di Primavalle.

Avanti tutta!


martedì 26 febbraio 2013

Il debutto della destra che va subito in gol 1,91%


da ilgiornale.it

Roma - Ventimila adesioni al giorno, un'alleanza decisiva per l'affermazione del Cavaliere e un 1,9 per cento alla Camera che in soli 40 giorni dalla fondazione del movimento garantisce un rappresentante in parlamento: Giorgia Meloni.
Lei sì, Fini no. Tu chiamale, se vuoi, emozioni. E oggi si riparte anche senza tutti quei gazebo da 558mila voti al Senato (meno di un decimo delle sezioni da scrutinare) e 546mila (stessa percentuale) alla Camera. Al quartier generale di Fratelli d'Italia-Centrodestra nazionale ci si guarda soddisfatti, «in fondo - twitta La Russa - abbiamo racimolato la metà dei voti della Lega, mica male come inizio e in così poco tempo». All'orizzonte l'instabilità politica. «Instabilità che non gioverebbe di certo alla nazione. Ma le facce allibite della sinistra che credeva di vincere facile e invece ha preso la scoppola... che goduria».
A commentare a caldo è Giovanni Donzelli, consigliere regionale in Toscana, tra i fondatori di Fratelli d'Italia e primo a riaccendere il cellulare. È sorpreso, come tutti, dai risultati. Al momento di andare in stampa il movimento è impantanato all'1,9 - Camera e Senato - ma avrà comunque un deputato come primo degli esclusi sotto il 2 per cento. Quanto basta e avanza per promuovere l'esordio. «A due mesi dalla fondazione siamo all'1,9 per cento, come primo step non possiamo lamentarci - continua Donzelli -. È come se fosse nato un bambino che ora deve muovere i primi passi, il progetto di rinnovamento del centrodestra italiano è cominciato». Ma non parlategli di patti allargati, di compromessi, di governi tecnici. «Una nostra adesione a una eventuale alleanza con il PD e il Pdl non è ipotizzabile, non se ne parla. Come non appoggeremmo un altro professore premier. Meglio tornare a votare subito». Nel frattempo i vertici commentano sornioni. Meloni e La Russa si godono i visi pallidi. Ignazio ironizza: «Che soddisfazione le facce della sinistra, avevano lo stesso colorito giallo del 1994, quando la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto si infranse contro un muro. Sono orgoglioso della scelta di fondare Fratelli d'Italia. Questo è stato un vero miracolo, in 40 giorni abbiamo preso più voti dell'Udc e di Ingroia (con Di Pietro). Di Fini, poi, non ne parliamo. Avessimo avuto la visibilità di Fini, Casini e Ingroia avremmo fatto boom».
Ma il vero grande sconfitto di queste elezioni è Mario Monti: «L'uomo che ha mancato di parola agli italiani candidandosi alle politiche». L'ex ministro se la prende anche con la truffa degli exitpoll: «Vorrei proprio sapere chi spende soldi per gli exit poll...». Crosetto, orfano delle sue sessanta sigarette, aveva pronosticato il Grillo-boom: «Sta accadendo quello che si sentiva. Avevo detto che Beppe Grillo superava il 25 per cento, e lo farà alla Camera. Perchè è stato l'alveo in cui si è fermata la rabbia della gente di questo Paese, che è tanta».

mercoledì 13 febbraio 2013

Così il Tg3 cancella il dramma delle foibe: proibito citare Tito

L'edizione di domenica parla soltanto di "collaborazionisti". E da Treviso a Verona il Pd riesuma le teorie negazioniste


ll Tg3 nazionale che manda in onda un servizio sul giorno del ricordo delle foibe e l'esodo senza spiegare bene chi erano i cattivi.
Il Pd, che a livello nazionale parla di «dramma negato», ma localmente dà spazio alle tesi se non negazioniste almeno «riduzioniste». Attorno al 10 febbraio non c'è solo il ricordo di ieri al Quirinale del presidente Giorgio Napolitano, che però si ostina a far finta di niente sulla più alta decorazione italiana concessa a Tito, boia di italiani, mai rimossa.
Nell'edizione serale del Tg3, di domenica, condotta da Maria Cuffaro fanno un capolavoro. Un servizio con immagini struggenti in bianco e nero ricorda il dramma delle foibe e dell'esodo. Peccato che non si spiega mai con chiarezza chi fossero i cattivi. Ad un certo punto si parla di vittime croate e slovene «considerate collaborazionisti dai titini». Poi si sostiene con un colpo di reni che nel 1945 «Trieste e Gorizia» furono consegnate «alla Belgrado comunista». Mai una volta si cita il maresciallo Tito, pur mostrandolo in partano militare, come capo degli infoibatori che uccisero migliaia di italiani.
Nonostante il Giorno del ricordo sia sancito da una legge nazionale che prevede «da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende» molti amministratori di sinistra fanno il contrario. Per di più con la classica «doppiezza» stile Pci. A livello nazionale il candidato premier del centro sinistra, Pier Luigi Bersani, parla dell'esodo e delle foibe spiegando che è stato un «dramma per troppo tempo negato». Gli amministratori del Pd sul territorio, invece, si comportano all'opposto.

A Montebelluna, in provincia di Treviso, il sindaco leghista aveva concesso il patrocinio ed una sala per un conferenza su «Fascismo - confine orientale - foibe» di Alessandra Kersevan. Quest'ultima è la più nota «riduzionista», se non negazionista italiana del dramma delle foibe e dell'esodo. Claudio Borgia, presidente di Azione Giovani di Treviso, esponenti degli esuli e del centro destra spiegano al sindaco la situazione, in vista della giornata del Ricordo. Sala e patrocinio vengono cancellati e l'Associazione nazionale partigiani, che ha spalleggiato l'iniziativa fa il diavolo a quattro. Venerdì scorso il sindaco del Pd di Giavera del Montello, Fausto Gottardo, mette gratuitamente a disposizione Villa Wassermann, una villa veneta di proprietà del Comune.
Il 9 febbraio, nella sede offerta dall'amministratore Pd, la Kersevan snocciola le solite tesi: gli infoibati sono pochi e comunque collaborazionisti nazifascisti. La reazione era giustificata dall'occupazione italiana. Non è mai esistito alcun disegno di pulizia etnica. I giovani del Pdl, armati di fischietti e megafono vengono bloccati da un solerte comandante locale dei carabinieri. Alla fine Borgia prende la parola subissato da fischi e insulti, come Federico Cleva, del Comitato 10 febbraio: «Vi seppelliremo tutti.... Merde fasciste». Ed oggi la negazione della tragedia degli esuli rischia di ripetersi all'Università di Verona. La solita Kersevan ha in programma una conferenza su «Foibe tra mito e realtà».

domenica 10 febbraio 2013

Foibe, il ricordo che aiuta la memoria condivisa



di Antonio Pannullo (secoloditalia.it)

Niente più “pagine strappate” nella storia d’Italia. Sia pure faticosamente, e dopo decenni di oblìo, quella della nostra nazione comincia a essere una memoria condivisa. E’ il Giorno del Ricordo, solennità nazionale istituita nel 2004 per ricordare e commemorare le vittime dei massacri delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata durante l’ultima fase della Seconda Guerra mondiale. Dal 2005 ogni 10 febbraio in tutta Italia si sono svolte commoventi cerimonie dedicate alla memoria da parte dei nostri più alti vertici istituzionali: oggi nella Cappella Paolina del Quirinale si tiene un concerto il cui programma trae spunto dalla tragica vicenda del confine orientale. Lo stesso capo dello Stato celebrerà ufficialmente la ricorrenza. Nel 2007, lo stesso Napolitano definì i massacri delle foibe «un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica».
E fu proprio così: le forze di Tito, volendosi annettere le terre italiane in questione, attuarono uno sterminio con un duplice scopo: quello politico, assassinando non solo i fascisti, ma tutti coloro che non erano favorevoli al disegno annessionistico di Tito, e pragmatico, perché eliminando fisicamente gli abitanti di etnia italiana dal territorio, o uccidendoli o cacciandoli, potevano impossessarsi di tutti i loro beni, cosa che puntualmente avvenne. Uno dei metodi – ma non l’unico – scelto dai partigiani che portavano sul berretto la stella rossa jugoslava – come è ben testimoniato dalla fiction “Il cuore nel pozzo” del 2005 – era quello di far scomparire i morti, ma talora anche i vivi, nelle depressioni carsiche naturali chiamate foibe. I malcapitati, uomini, donne, bambini, anziani, venivano condotti sull’orlo di questi pozzi e fucilati, o semplicemente legati tra loro col filo spinato e spinti giù. Molti vi giungevano dopo torture e sevizie, e le donne dopo stupri brutali. Furono infoibati anche sloveni anticomunisti e molti religiosi. Pochissimi riuscirono a sopravvivere al precipizio, e qualcuno è risalito per raccontare l’incubo. Ma, come spesso denunciato, la storiografia marxista egemone nel lungo dopoguerra aveva completamente silenziato sia i massacri delle foibe sia l’esodo giuliano e dalmata, i cui protagonisti furono trattati dalle autorità alla stregua di intrusi fastidiosi.
I comunisti avevano interesse a non far sapere che tipo di “ordine” volevano istituire in Europa, i democristiani tacquero e nascosero per vigliaccheria, per paura, per non ricordarsi che avevamo perso la guerra. L’Europa non voleva disturbare Tito, perché voleva utilizzarlo in funzione anti-sovietica da quando aveva rotto con Stalin e con Mosca. Solo la destra in Italia continuò, peraltro inascoltata, a denunciare quello che accadde allora ai nostri confini orientali, gli orrori, i massacri, la pulizia etnica, ma la congiura del silenzio fu troppo forte, al punto che i libri di storia dal 1945 al 2005 non citano le foibe se non in modo generico e stravolgendo la realtà. Come accadde peraltro per il massacro di 15mila militari e civili polacchi a Katyn, la cui responsabilità per anni fu addossata ai tedeschi quando invece a compiere il massacro furono i sovietici. Ma la verità storica, sia pure nei tempi lunghi, si impone. Rattrista solo che ancora oggi ci sia chi non solo nega le foibe ma addirittura ne distrugga i simboli della memoria, come è accaduto a Torino nei giorni scorsi. Ma il muro di omertà è caduto, e gli italiani di domani avranno finalmente quella memoria condivisa di cui la nazione ha bisogno.

Ustica: 32 anni e una verità...


di Pier Paolo Corsi

La Suprema Corte stavolta ce l’ha fatta, se non interamente, almeno in parte ha abbattuto il famoso “muro di gomma” creato dalle istituzioni italiane, dal Ministero della Difesa, dei Trasporti e delle Infrastrutture. «Non c’è dubbio – scrivono i giudici – che le amministrazioni avessero l’obbligo di garantire la sicurezza dei voli e che l’evento stesso dimostra la violazione della norma cautelare». Una sentenza che si commenta da sola e che finalmente mette un punto alla vicenda giudiziaria civile su quella che ormai a pieno titolo può esser definita “strage”. “Strage” è una di quelle parole che se pronunciate, in un momento di totale silenzio o di assordante confusione, provocano gli stessi effetti, sempre. Sgomento, insicurezza e in alcuni anche rabbia riferendosi alle reazioni dei comuni cittadini, mentre molto più fantasiose e variopintesono sempre state quelle delle istituzioni e dei loro componenti.

In particolare tra le reazioni variopinte è bene citare una che ebbe davvero un gran successo all’interno degli ambienti militari e che ben si distinse invece dalle confusionarie e caciaronedichiarazioni politiche, questa fu la maldestra quanto sconclusionata attività di eliminazione delle rilevazioni radar, delle comunicazioni con le torri di controllo, di qualsiasi traccia del passaggio dell’aereo di linea DC-9 Itavia nella prima serata del 27 Giugno 1980, in particolare dalle stazioni di rilevamento di Marsala, di Grosseto. Maldestri poi perché con il traffico aereo che imperversava sul Tirreno in quegli anni, si parla di aerei americani, francesi, libici, russi e naturalmente italiani, tutti militari, nonché un satellite russo, le tracce radar dopo un momento iniziale di mancanza di prove, sbucarono da tutte le parti.

A fronte delle suddette reazioni da parte degli organi dello Stato coinvolti parvero sospette e poco attendibili le rilevazioni dei periti di parte, i quali inizialmente supposero guasti tecnici causati da una cattiva manutenzione per poi virare su una bomba nascosta nella toilette. Rilevazioni che finirono per diventare l’emblema del grottesco, quanto poco meticoloso seppur piuttosto vergognoso modo di mettere a tacere le implicazioni degli apparati civili e militari italiani nonché di alcuni internazionali. Grottesche e vergognose poiché sempre materialmente confutate, ma sempre prese in considerazione da più di qualche giudice (un esempio lampante fu quello degli oblò che rimasero intatti o il non rilevamento di ustioni da esplosione sui corpi rinvenuti). Fortunatamente, dopo venti anni di indagini, 4000 testimoni, 115 perizie un’ottantina di rogatorie internazionali e 300 miliardi di lire di sole spese processuali e quasi trecento udienze processuali, sono stati identificati dal Tribunale di Palermo nel 2011 e ieri, 28 Gennaio 2013, confermati dalla Cassazione i civilmente responsabili della vicenda.

Individuati nei ministeri della Difesa, Trasporti e Infrastrutture e ritenuti colpevoli secondo le seguenti motivazioni: «L’omissione di una condotta rileva quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento di cautela imposto da una norma giuridica specifica, ovvero da una posizione del soggetto che implichi l’esistenza di particolari obblighi di prevenzione dell’evento, una volta dimostrata in giudizio la sussistenza dell’obbligo di osservare la regola cautelare omessa ed una volta appurato che l’evento appartiene al novero di quelli che la norma mirava d evitare attraverso il comportamento richiesto, non rileva ai fini dell’esonero dalla responsabilità che il soggetto tenuto a detta osservanza abbia provato la non conoscenza in concreto dell’esistenza del pericolo». Quest’analisi, però non vuole aprire un’ulteriore, un’ennesima inchiesta, ma semplicemente essere solo una fotografia che documenti come in Italia “i panni sporchi non si lavano in casa”, bensì (spesso) in compagnia di amici americani, libici e francesi e chi più ne ha più ne metta.

L’analisi, la fotografia allora si concluderà con due ultime deduzioni, corrette e confermate dalle varie commissioni che negli anni si sono succedute: esiste una responsabilità civile per non aver garantito la sicurezza dovuta ed è attribuita allo Stato Italiano, inoltre è appurato che l’aereo sia stato colpito da un missile, del quale non si sa né la provenienza, né la direzione a cui era destinato, né il motivo per cui avesse dovuto colpire invece il volo DC-9 Itavia.

sabato 9 febbraio 2013

Trent’anni fa moriva Paolo Di Nella, un’altra vittima senza giustizia


di Gloria Sabatini
Trent’anni fa moriva Paolo Di Nella dopo sette giorni di coma, vegliato dai suoi amici che, giorno e notte, nei corridoi del Policlinico Umberto I di Roma, avevano atteso invano che riaprisse gli occhi. Una morte assurda: quando Paolo venne colpito al cranio da due esponenti dell’Autonomia operaia il sapore acre degli anni di piombo, con il suo carico di caduti dall’una e dall’altra parte, sembrava un ricordo del passato. La destra giovanile aveva mosso passi importanti nel superamento delle contrapposizioni ideologiche, parte della sinistra cominciava a fare autocritica e il dialogo generazionale sembrava possibile.
Militante del Fronte della Gioventù, silenzioso, capelli lunghi e occhiali, Paolo era un ragazzo come tanti, lontanissimo dagli stereotipi del fascistello dei primi anni ’80, capelli corti e camperos. Lontano nei modi e nella visione della politica come servizio civile. Testardo. Si era messo in testa di restituire ai cittadini del suo quartiere il parco di Villa Chigi per destinarlo a centro sociale e culturale. E aveva speso gran parte della giornata dell’aggressione ad affiggere manifesti per rendere pubblica una raccolta di firme per l’esproprio. Verso le 11 di sera, mentre affiggeva manifesti in mezzo allo spartitraffico di Piazza Gondar, venne avvicinato da due ragazzi, apparentemente in attesa dell’autobus, e colpito al cranio. Rientrato a casa i genitori lo sentirono lavarsi i capelli, muoversi inquieto e lamentarsi, l’ambulanza arrivò quando ormai Paolo era già in coma. Il giorno dopo gli vennero asportati due ematomi e un tratto di cranio frantumato. Troppo tardi.
Al capezzale di Paolo si presentò l’allora presidente della Repubblica, il partigiano Sandro Pertini,  fu un segnale di grande impatto e di svolta: per la prima volta un antifascista spezzava la vulgata “uccidere un fascista non è reato”. Eppure le indagini degli inquirenti non brillarono per “efficienza”: l’autonomo Corrado Quarra, dopo il riconoscimento di Daniela, la ragazza che era con Paolo quella notte, venne arrestato per concorso in omicidio volontario con l’aggravante dei “futili motivi”. Dopo un secondo riconoscimento, però, la testimone indicò come secondo presunto aggressore un giovane non indiziato,  un amico di Quarra scelto per via della grande somiglianza. Ma quel tentativo di confonderle le idee la fece considerare non credibile dal magistrato. Quarra fu scarcerato e prosciolto da tutte le accuse e la tesi della “faida interna” ebbe la meglio sulla ricerca della verità.
Dal 1983, ogni anno,  Paolo viene ricordato a Piazza Gondar davanti al murales con la scritta “Paolo vive. Nel pomeriggio, dopo un ricordo del sindaco Alemanno, si svolgerà la consueta commemorazione: saranno in tanti, come sempre in questi lunghi trenta anni. Sarebbe un bel segnale se partecipasse anche un pezzo di popolo italiano, senza etichette politiche. Sarebbe una lezione per chi ancora oggi (solo un anno fa) si “diverte” a prendere a martellate la targa commemorativa di Di Nella collocata all’interno di villa Chigi. Che oggi è un parco pubblico e uno dei polmoni verdi della città.

venerdì 8 febbraio 2013

Le giovani coppie vogliono una casa!


di Gloria Sabatini

Due tende da campeggio semivuote: “Ecco tutto quello che possiamo permetterci”. Ore 9, piazza del Gesù, sotto la sede dell’Abi decine di giovani si sono ritrovati per chiedere lo sblocco del Fondo agevolato per l’acquisto della prima casa per le giovani coppie. Il sit in promosso da Fratelli d’Italia denuncia le “distrazioni” del governo Monti e protesta per il mancato rispetto da parte delle banche dell’applicazione del “Fondo di garanzia” per tutti quei soggetti considerati “non bancabili” istituito ad hoc nel 2010 dall’allora ministro della Gioventù Giorgia Meloni. «Le banche nascondono 50 milioni di euro», si legge nel volantino. Secondo un’indagine diAltroconsumo, infatti,  nove agenzie su dieci hanno ignorato il fondo governativo dicendo di “non conoscerlo”, insomma il gruzzolo è rimasto nelle casse degli istituti di credito. Da fondo per i giovani precari  è diventato il “Fondo salva banche” dove i risparmi vengono sbranati per le speculazioni finanziarie e tolti dalle tasche delle giovani coppie». Il professore salvaItalia, oltre ad aver smantellato gli uffici del dipartimento della Gioventù, ha aggravato il quadro «perché – spiega dai microfoni Marco Marsilio, uno dei partecipanti al sit in  – il ministro Riccardi difende le banche che vorrebbero modificare i criteri di erogazione e le garanzie per usare il fondo a favore di categorie già bancabili, mentre l’obiettivo del dicastero della Gioventù era proprio quello di garantire l’accesso alla prima casa per chi non rientra negli attuali parametri di mercato e non può quindi accedere ai mutui». Un governo serio dovrebbe imporre alle banche il rispetto degli impegni e obbligarle a tornare a fare il loro mestiere, invece di bruciare miliardi con derivati, truffe e speculazioni fallimentari.
Nell’ambito del  pacchetto “diritto al futuro” il ministero della Gioventù aveva costituito il fondo per permettere alle giovani coppie, con un reddito sufficiente ma di natura precaria, di ottenere un mutuo per l’acquisto della prima casa, anche se prive delle garanzie abitualmente richieste. Rigidi i requisiti per i beneficiari: giovani coppie coniugate (con o senza figli), età inferiore ai 35 anni, nuclei familiari anche monogenitoriali con figli minori; reddito complessivo non superiore a 35 mila euro, nessuna proprietà di immobili a uso abitativo. L’iniziativa venne accompagnata dalla stipula di un accordo tra il ministro della Gioventù e l’Associazione bancaria italiana (ABI) e la messa a disposizione da parte del  ministero di 50 milioni di euro confluiti nel fondo. Dei quali però si sono perse le tracce.

martedì 5 febbraio 2013

Foibe. Lo spettacolo “Io ricordo” di Emanuele Merlino da venerdì al teatro Morante di Roma



da barbadillo.it
«Quella che cerco di raccontare è una storia che inizia nel 1799 a Perasto, poi prosegue nei vitigni… e arriva alla tragedia di 350.000 esuli e 20.000 infoibati. Ma è un percorso che non finisce, continua a Trieste nel ’53 e, soprattutto, continua nella dignità degli esuli». Così Emanuele Merlino, dirigente del Comitato 10 Febbraio nonché  regista teatrale, presenta “Io ricordo”, che andrà in scena per la prima volta l’8 febbraio p.v. al teatro Elsa Morante (Piazza Elsa Morante, Roma).
La trama esteriore è estremamente semplice:  «Sulla scena ci sono due attori – racconta Emanuele Merlino, che di “Io ricordo” è autore, regista ed attore – uno sono io, che fondamentalmente interpreto me stesso. Per questo il titolo “Io ricordo”. Ovviamente non ho vissuto in prima persona la tragedia dell’esodo e non discendo da persone che l’abbiano vissuta, quindi mi limito a raccontare, esattamente come farei con un caro amico, da cosa nasce l’interesse così profondo per le vicende del confine orientale, vicende passate che, apparentemente, non mi appartengono».
Da cosa nasce questo pathos per la questione italiana sul confine orientale?
«Dall’amore. Quella che racconto è, in qualche modo, una storia d’amore:  per la propria terra, per la propria famiglia, la propria storia, la propria dignità. Credo che non sia il luogo in cui si è nati a fare la storia, la nostra storia, ma il sangue, la lingua, l’appartenenza. In Istria e Dalmazia, ormai settant’anni fa, arrivò qualcuno cercando di bandire una tradizione ed una lingua millenarie per sostituirle con il paradiso socialista ed una nuova lingua, quella slava. Gli esuli hanno scelto di abbandonare la propria terra per conservare un’identità. E al loro arrivo sono stati trattati come fuggiaschi, latitanti, criminali. Eppure hanno scelto comunque  l’Italia e l’hanno fatta grande.  Altri hanno imparato ad avere il rispetto dovuto attraverso il pianto, altri ancora con le bombe sui tralicci. Gli istriani l’hanno fatto raccontando le loro storie, ma soprattutto rimboccandosi le maniche e diventando grandi stilisti, penso ad Ottavio Missoni, o portando i propri pugni sulla vetta del mondo, come Nino Benvenuti. E l’hanno fatto con grandissima dignità. Non ho vissuto il loro dramma, ma ho appreso il loro insegnamento. E mi piace pensare che in modo diverso, anche se non c’entra nulla con l’Istria, c’è chi ancora combatte, come fecero loro settant’anni fa: contro gli americani che vogliono mettere il Muos, contro chi ci vuole convincere che la nostra cultura, la nostra terra e la nostra identità sono sbagliate e vanno sostituite».
Chi è l’altro attore?
«Giuseppe Abramo, giovane e molto preparato, che ha già alle spalle qualche esperienza importante, tra cui una parte nel “Marchese del Grillo”, al fianco di Pippo Franco. Lui, in genere, è un attore comico».
Come mai un comico per un dramma?
«In realtà per una serie di motivi.  Prima di tutto, da un punto di vista professionale,  Giuseppe è straordinario. Poi perché credo che chiunque sappia fare bene il comico sappia molto bene anche cos’è il dramma, la tristezza… Giuseppe secondo me era perfetto. È una persona senza pregiudizi, non impegnata politicamente, e questo status lo trasmette».
Quanto è legato questo spettacolo al Comitato 10 Febbraio?
«Moltissimo, mi piace pensarlo come un manifesto ideale del Comitato, che viene anche citato. Il Comitato 10 Febbraio è formato essenzialmente da giovani , per lo più non esuli e non figli di esuli. Ma riteniamo tutti a modo nostro che, per citare una canzone della Compagnia dell’Anello, un italiano non è tale se non è anche dalmata e giuliano … come anche siciliano o napoletano».
Una buona ragione per venire a vederti?
«Primo perché è gratis quindi un applauso non si nega a nessuno. Secondo perché la questione del confine orientale è stata variamente ripresa, tra i tanti Paolo Logli ha fatto uno spettacolo straordinario, raccontando la storia di un esule. Io invece racconto la storia di uno come tanti che ha deciso di impegnarsi. Forse è meno commovente, ma è una storia che ognuno potrebbe riconoscere come propria».
A cura di Silvia Quaranta

lunedì 4 febbraio 2013

Giù le mani dalla prima casa!


Sulla tragedia delle foibe l’Anpi preferisce schierarsi con Tito


di Gloria Sabatini (Secolo d'Italia)

“Tito Tito maresciallo assassino” era il ritornello di una canzone della compagnia dell’Anello molto amata dai giovani di destra a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Oggi c’è ancora chi nel nome dell’antifascismo militante e della resistenza partigiana, invece, fa il tifo per l’ex presidente jugoslavo. Dalle parte dell’Italia? Meglio Tito. A dieci giorni dalla “Giornata del ricordo” istituita nel 2004 per «non dimenticare» la tragedia dell’esodo giuliano-dalmata e lo scempio delle foibe titine, si riaffacciano qua e là i nostalgici della guerra civile, i negazionisti, gli irriducibili del braccio di ferro ideologico. 

“In fondo se lo sono meritata – è la vulgata della resistenza torinese guidata dall’Anpi – le vittime delle foibe sono criminali di guerra e non meritano il riconoscimento dello Stato italiano”. Complice la campagna elettorale che non risparmia toni duri e colpi bassi, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia ha organizzato proprio per il 10 febbraio a Torino l’immancabile presidio “antifascista per la pace e la democrazia” con una mostra fotografica tutta ispirata all’equazione genocidio italiano uguale reazione legittima alle violenze fasciste. Peggio dell’oblio, siamo alla riedizione dell’odio ideologico contro il male assoluto da estirpare con tutti i mezzi. Tra i primi a reagire il consigliere Maurizio Marrone, classe 1982, capogruppo pidiellino al comune di Torino oggi arruolato in Fratelli d’Italia: «È una provocazione che giustifica il genocidio antitaliano e uccide le vittime per la seconda volta». 

«Quando avremo anche la capacità di rispettare i martiri senza strumentalizzazioni, saremo finalmente un popolo», dice Giorgia Meloni. Non è retorica di parte ricordare la storia di migliaia di italiani, legate col filo spinato, passate per le armi e precipitate ancora vive nelle foibe. E non è la favoletta raccontata dalla destra nostalgica e passatista. Basta andarsi a rileggere le parole pronunciate da Giorgio Napolitano in occasione del 10 febbraio 2006 che attribuiscono l’origine delle foibe a «un moto di odio e furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica». Basta fare tesoro dell’appello alla memoria condivisa di un ex comunista come Luciano Violante quando nel lontano ’96 da neopresidente della Camera disse che «per condiscendenza nella storia scritta dai vincitori gli eccidi titini erano stati cancellati dalla memoria collettiva italiana». 

Da allora molto si è fatto e molto resta da fare per la costruzione di una identità nazionale comune: la provocazione degli ex Partigiani torinesi è un salto all’indietro che non fa bene alla comunità. Le cronache degli scorsi anni sono piene di distrazioni e strane dimenticanze. Il sindaco di Pistoia che interpretò la Giornata del Ricordo distribuendo nelle scuole della città un volume sull’argomento dal vago sapore giustificazionista. E il primo cittadino di Napoli, Luigi De Magistris al quale sfuggì di inserire le celebrazioni nel calendario Comune, salvo poi rimediare con un improvvisato incontro con gli studenti. Immaginate se il sindaco di Roma avesse dimenticato il giorno della memoria nel ricordo della Shoah.