martedì 19 agosto 2014

PATER PATRIAE


Vergarolla, la strage dimenticata.


da futuroquotidiano.com
Ci sono molte vicende oscure della storia che il potere ha voluto paludare. 
Esistono ingiustizie che ancora gridano verità. Non si contano i morti cancellati per calcoli internazionali. Per molti si tratta di inevitabili “corsi e ricorsi della storia” che non ci toccano da vicino. Eppure tutto questo – e molto altro – hanno vissuto i nostri connazionali sul confine orientale d’Italia prima e dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

Istria, Fiume e Dalmazia: nomi di regioni e città che forse non dicono molto alle giovani generazioni ma che, fino a pochi decenni fa, sono state parti integranti dello Stivale. 
Grazie all’istituzione della “Legge del Ricordo”, nel 2004, si è in parte fatto luce sulla loro storia e, soprattutto, sono stati riconosciuti dalle Istituzioni gli eccidi delle foibe ed il conseguente esodo di circa 350.000 italiani. Ma oltre sessant’anni di silenzio sono difficili da colmare e le drammatiche “storie nella Storia” – completamente dimenticate – sono tutt’oggi numerose. Una in particolare. Della più grande strage di connazionali in tempo di pace della storia della Repubblica italiana, infatti, finora se ne è parlato pochissimo e soltanto in specifici ambienti culturali. 

L’innegabile e recente merito di averlo portato alla ribalta nazionale è di Simone Cristicchi e Jan Bernas, attraverso un toccante brano dello spettacolo “Magazzino 18”.

La storia


Domenica 18 agosto 1946. La Guerra è da poco finita e l’Istria è occupata dai comunisti del maresciallo Tito. Da anni è in atto la stagione del terrore e della pulizia etnica ai danni degli italiani. Il “lungo esodo” è già iniziato. Ma non da Pola che, ancora, è amministrata dalle truppe britanniche. La morte in questa città viene portata a Vergarolla, una famosa spiaggia gremita di partecipanti in occasione delle locali gare di nuoto. Inizia tutto con un grande boato: scoppiano alcune mine antinave incustodite. Vengono letteralmente polverizzate intere famiglie, il mare si tinge di rosso al punto che per molto tempo nessuno mangerà più pesce: più di un centinaio i morti, di cui solo 64 identificati. Altrettanti i feriti. 
Non mancano gli atti di eroismo: il dottor Micheletti perde i due figli, ma continua a prestare soccorso per oltre 48 ore. Sarà poi esule, per non trovarsi un giorno a “curare gli assassini della sua prole”.

Le ragioni dell’attentato

Raccontata così, la tragedia potrebbe sembrare una di quelle tante sciagure che avvengono di tanto in tanto. La guerra è cessata da oltre sedici mesi e le mine potrebbero essere esplose per caso. Ma non è la sorte a decidere in questa circostanza. Documentazioni e prove inconfutabili dimostrano che si è trattato, infatti, di una azione delle squadre di sabotatori dell’Ozna, la polizia segreta di Tito. L’intera Pola ha sentimenti italiani, infatti, e la cittadinanza aspira a restare legata alla Madrepatria. Tutti confidano sulle dichiarazioni di principio degli americani, secondo le quali ogni popolo dovrebbe avere “il diritto di poter decidere in piena autonomia del proprio destino”. La riunione di tanta gente sulla spiaggia, al momento della deflagrazione, non è dovuta solo alla gara tenuta della Società “Nautica Pietas Julia”, ma è l’occasione di una manifestazione di italianità. 
La stessa “Arena di Pola”, il quotidiano cittadino, reclamizza l’evento come filo-italiano.

Le indagini mancate e i documenti ritrovati


All’epoca, sul reale movente e sugli esecutori del vile attentato terroristico si indagò poco e male. Nessuno, forse, aveva la reale intenzione di individuarne con chiarezza le dinamiche. Ci sono volute decine di anni perché dagli archivi inglesi uscisse una documentazione capace, da sola, di fare piena luce. Il comando inglese diede mandato ad una Commissione d’inchiesta di individuare le responsabilità della strage. Quest’ultima giunse a concludere che le mine erano in stato di sicurezza, poiché disattivate e che alcuni testimoni, fra i quali anche un inglese, asserivano che poco prima dell’esplosione avevano udito un piccolo scoppio e visto un fumo blu correre verso le mine. Pertanto, nella relazione finale fu espresso il parere che “gli ordigni sono stati deliberatamente fatti esplodere da persona o persone sconosciute”. Esistono carte, poi, tratte dal “Public Record Office” di Londra tali da togliere ogni dubbio su quei fatti. Della documentazione fa parte una dettagliata informativa, datata 19 dicembre 1946, in cui si imputa chiaramente all’Ozna la paternità della strage. Il messaggio per gli italiani di Pola doveva essere chiaro e forte: restare e accettare il regime comunista, oppure lasciare da esuli l’Istria. 
E ottengono il risultato voluto. Ne consegue, infatti, il tristemente celebre esodo dalla città, culminato nel febbraio del 1947 con i viaggi del piroscafo “Toscana”.

Conoscere per costruire un futuro migliore

Solo il 18 agosto 2011 è stata posta una stele con i nomi e l’età di quegli innocenti che ancora gridano una giustizia che è stata a loro negata. 
A tanti anni di distanza dalla strage è un nostro dovere ricordare. 
E bisogna farlo non solo per la dignità delle vittime, ma per costruire un futuro migliore, impossibile senza la piena consapevolezza del nostro passato.

Carla Cace

lunedì 11 agosto 2014

«L’isola che c’è». Dal 17 settembre torna Atreju. Cambiano le sigle ma la kermesse della destra under trenta resiste alle tempeste


da secoloditalia.it

Cambiano le sigle, si disperdono i partiti, si frammentano le coalizioni ma la festa nazionale dei giovani di destra (provenienti da percorsi diversi) nel cuore della capitale sopravvive alle bufere. Anche quest’anno, a partire dal 17 settembre, si svolgerà Atreju, il tradizionale appuntamento che di fatto inaugura la stagione politica nazionale. Per la prima volta dal 1997 la più grande kermesse giovanile nazionale si svolgerà nella suggestiva cornice dell’Isola Tiberina: il titolo della manifestazione giunta alla 16esima edizione è emblematico: L’Isola che c’è. «In un’epoca nuova della politica italiana, tra stravolgimenti continui che disegnano una mappa del tutto diversa da quella degli ultimi vent’anni – si legge nell’invito – l’isola di Atreju vuole essere un approdo sicuro da cui ripartire e nel quale confrontarsi per tracciare la rotta del futuro». Quattrocentocinquantamila visitatori, 1200 volontari, 24 mostre, 50 spettacoli, 350 dibattiti con oltre 400 relatori, più di 8 mila pagina di rassegna stampa e 2 mila servizi filmati nelle più rilevanti televisioni d’Italia e d’Europa: sono i numeri che hanno consacrato Atreju come l’evento di apertura di ogni nuova stagione politica italiana. A calcare la scena della manifestazione saranno anche quest’anno i più grandi nomi della politica, della cultura, del giornalismo e della società italiana.
Il villaggio di Atreju sarà suddiviso in zone diverse destinate a ospitare le conferenze, gli spettacoli serali, i ristoranti e gli stand culturali e sociali. Patron della manifestazione, come ogni anno, Giorgia Meloni che in una lettera aperta ha sintetizza lo spirito dell’evento rivolgendosi all’enorme platea che ha partecipato al raduno nazionale a titolo diverso. «Per quelli che hanno consumato le proprie estati facendo su e giù dal soppalco di Via della Scrofa o nelle stanze dei palazzi istituzionali, telefonando a chi già da settimane se ne stava al fresco sotto un ombrellone. Per quelli che non hanno mai mollato, anche nel fango, quando la pioggia non ci dava tregua per giorni. Per quelli che erano sempre presenti quando c’era da montare la festa, sotto il sole. O quando c’era da rimontarla di nuovo, distrutta da un temporale notturno. Per gli impertinenti che non hanno avuto paura di alzarsi in piedi per una domanda scomoda, anche se ad ascoltarla era il Presidente del Consiglio. Per chi ha vissuto sulla propria pelle il brivido della storia che cambia, quando sotto un tendone al riparo dalla pioggia Nietzsche e Marx, finalmente, si sono dati la mano. Per i curiosi che non si sono persi neanche uno dei dibattiti in programma, senza bisogno di essere “consigliati” dai ragazzi dello staff. Per quelli che hanno riso, e pensato, quando uno scherzo ben riuscito ha strappato il velo dell’ipocrisia sulla politica italiana. Per chi pianse quella notte nel ricordo di Lucio Battisti, appena scomparso. Giusto in tempo per non morire mai più…». E ancora: Per quelli che aspettavano ore fuori ai cancelli, pur di essere in prima fila, a pochi metri da Max Pezzali, Irene Grandi, gli Zero Assoluto, Max Gazzè, Edoardo Bennato, Mario Biondi, Umberto Tozzi eccetera, eccetera. Per tutti quelli che c’erano nel settembre del 1998 e per quelli che ci saranno nel settembre del 2014, Atreju c’è. «Perché – conclude la leader di Fratelli d’Italia-An  – a destra d’Italia una comunità, ancora, c’è».

martedì 5 agosto 2014

A dieci anni dalla morte di Alessandro Vicinanza diciamo ancora “ciao Macedone, non abbiamo perso le tracce”


di gloria sabatini
Lui è Alessandro Vicinanza. Lui non c’è più da dieci lunghi anni.  Tanti ne sono trascorsi dalla morte del “Macedone”, quel maledetto 1 agosto 2004, quando a 39 anni se n’è andato via in punta di piedi a causa di una brutta malattia trascurata, lasciandoci tutti con un nodo alla gola e una carrettata di sensi di colpa per non aver capito, per non aver fatto abbastanza. Sulle scalinate della Sapienza, lungo il corridoio che collega Giurisprudenza a Scienze politiche (culla sicura la prima, terra dei lupi la seconda), in mezzo agli  occupanti dalla “parte sbagliata”, Carpe diem contro la Pantera, a Sommacampagna con il sedicente “gruppo cultura” a macinare distici e distillare frammenti di vita per i nuovi arrivati, ai “campi” in montagna, silenzioso, attento e pungente. E poi a presidiare via di Villa Lauricella e via Muzio Attendolo, quadrante sud della Capitale, sedi disordinate della sua acerba e straordinaria creatura: la casa editrice il Bosco e la Nave. Messa in piedi con la testardaggine di un capitano coraggioso in erba (pochi soldi e tutti buttati lì dentro), sulle tracce di Jünger per diffondere la cultura della tradizione, politicamente scorretta e mai arroccata nella torre d’avorio della destra autoreferenziale. Di Alessandro, classe ’64, romano, militante del Fronte della Gioventù, dirigente di Fare Fronte, pioniere della destra di fine anni ’80 (quella delle incursioni in campo nemico, quella di Morbillo prurito e avventura - la rivista underground che bucò gli stereotipi del post-fascismo vetero-missino –  quella dei convegni alla Sapienza pieni di studenti veri – non le comparse di partito – ad annusare D’Annunzio, il poeta soldato, il futurismo rivisitato da Pablo Echaurren e Claudia Salaris,) uomo di cultura, editore, non c’è  traccia nelle rassegne stampa, nei saggi sulla destra, poche righe sul web, solo qualche timido accenno della sua attività editoriale troppo a lungo ignorata.
Sconosciuto al “grande pubblico” per la sua indole riservata fino al limite dell’anonimato, Macedone è stato un gigante invisibile. Per lui il sapere non era sfoggio accademico, né amore per la citazione, ma un mezzo, il più importante, per contagiare il mondo e costruire una realtà capace di inverare la visione del mondo improntata alla tradizione. Profondo conoscitore della cultura europea, fondò il centro studi Il Bosco e la Nave e poi la casa editrice omonima. Vocazione nazionalpopolare, per il suo battesimo la casa editrice scelse la pubblicazione di una collana di magliette firmatatipidicarattere, un distillato di immagini, autori (Nietzsche, Céline, Pound, Lawrence d’Arabia) e frammenti  significativi di un modo di essere e di stare al mondo. I pochi anni di vita, l’innata incapacità manageriale e la maniacale precisione non permisero ad Alessandro di realizzare la sua missione, il progetto di fare de Il Bosco e la Nave un punto di riferimento di primo piano per la cultura della tradizione in Italia. Quel poco che fece, però, ha lasciato il segno per chi lo sa vedere. Fiore all’occhiello della casa editrice la pubblicazione di un testo dedicato all’architettura liturgica dal titolo Riconquistare lo spazio sacro e quella sulla mostra internazionale di arazzi e opere d’arte, sempre di matrice religiosa, del maestro rumeno Camilian Demetrescu, ancora oggetto di dibattito in diverse università europee.
Ad Alessandro Vicinanza è dedicato un premio letterario dal titolo “Un viaggio lungo un’emozione”, giunto alla quarta edizione. Solo uno strumento per non smarrire la memoria, la statura culturale,  il coraggio e, soprattutto, per contribuire, come la tessera di un mosaico, a diffondere un modo non conformista di pensare e di vivere.