lunedì 15 luglio 2013

Pensioni d’oro, l’ira della Meloni: «Andremo fino in fondo, sarà lotta dura contro le vere caste»


Prima una flashmob di parlamentari e militanti di Fratelli d’Italia all’ ingresso della Consulta per protestare contro la sentenza che ha dichiarato incostituzionale il prelievo di solidarietà sulle pensioni oltre i 90mila euro e lascia di fatto “intoccabili” le pensioni d’oro. Poi una valanga di dichiarazioni, iniziative, post su Fb e poi la “chiamata in causa” del presidente Napolitano. Non si ferma l’indignazione di Giorgia Meloni, capogruppo di FdI alla Camera. «Stavolta vado fino in fondo di fronte a questa sentenza vergognosa».
Una brutta pagina di insensibilità sociale. Siamo alle solite, onorevole Meloni: inconstituzionale è tutto ciò che mette mani sul portafogli dei soliti noti…
Considero scandalose queste sentenze che dichiarano sempre incostituzionali norme che colpiscono i grand commis, i burocrati, i “boiardi” di Stato e tutti quelli che hanno il potere di scrivere le leggi e decidere se sono valide oppure no. Ricordiamo infatti che questa sentenza è stata pronunciata dall’unico organismo che ha il potere di deliberare su se stesso senza appello e i cui componenti sono tutti pensionati d’oro…
Con l’aggravante dei due pesi e delle due misure.
È la casta di chi prende le pensioni d’oro che difende i propri privilegi oltre ogni buon senso, decoro e pudore, nascondendosi dietro il paravento della Costituzione e che si è ben guardata dal dichiarare invece incostituzionali i provvedimenti che toccavano le pensioni della povera gente, come il blocco delle indicizzazioni di quelle da 1400 euro previsto dallo stesso identico provvedimento nel quale era contenuto anche il contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro. Questa inaccettabile differenza di trattamento tra i cittadini viola l’art. 3 e lo spirito della Costituzione. 
Nella “ghigliottina” della Consulta  è finito un provvedimento messo a punto tra 2010 e 2011 dal governo di centrodestra. In cosa consisteva questo prelievo di solidarietà? 
È bene che la gente sappia che stiamo parlando di uno stralcio del 5% della quota eccedente i 90.000 euro delle pensioni. Il che vuol dire che per chi prende 150 mila euro l’anno di pensione, il 5 per cento avrebbe inciso sui sessantamila euro eccedenti. Quella che stiamo portando avanti, senza poter contare sul supporto dei media che non hanno neanche riportato la notizia, è una battaglia di civiltà contro questa insensibilità sociale.
E i grillini tacciono…?
Pressoché assordante è il silenzio dei partiti, compreso il M5S, evidentemente troppo occupato a eleggere il suo rappresentante in Vigilanza Rai.
Si è rivolta a Giorgio Napolitano. Con quale esito ?
Nessuno per ora. Restiamo in attesa. Gli abbiamo chiesto ufficialmente un incontro. Voglio sentire cosa mi risponderà. Riteniamo infatti che solo lui, massimo garante della nostra Costituzione, possa intervenire su una decisione che calpesta il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, sancito dall’art. 3 della Costituzione. E visto che  in passato ha più volte richiamato le forze politiche al rispetto dell’equità sociale…
E se il Capo dello Stato non rispondesse? 
Presenterò una proposta di legge per la revoca delle “pensioni d’oro” che finalmente si fondi sui calcoli contributivi anche delle pensioni in essere. È l’unico modo per garantire la sostenibilità del sistema pensionistico che garantisca anche le giovani generazioni come la mia. Con questi denari si può istituire un fondo per le pensioni di invalidità o per aiutare i giovani. Se verrà giudicata incostituzionale anche questa, chiederò una modifica della Costituzione… Sia chiaro non intendo fermarmi e voglio sapere chi è come me in questa battaglia contro le vere “caste”.
Si spieghi…
Il contributo di solidarietà previsto per le pensioni era l’estensione di un meccanismo identico introdotto nel 2010 per gli stipendi dei manager pubblici, e cancellato dalla stessa Corte costituzionale nell’ottobre scorso con la sentenza 223/2012. Il prelievo è previsto solo per i parlamentari. Il che è giusto ma non è accettabile che si possa eseguire solo su certi tipi di pensionati, rendendo intoccabili altri. Non trova?

domenica 14 luglio 2013

Perdere l’"identità" è perdere la faccia...


di Marcello Veneziani

Ma ha senso, nell'epoca fluida e globale, appellarsi alle identità personali e comunitarie, politiche e culturali? Le identità non sono reperti arcaici, inerti e retorici o, come rozzamente dice qualcuno, cazzate e baggianate? L'identità è un principio fondamentale in filosofia: è di derivazione presocratica ma Aristotele fonderà la logica occidentale sul principio d'identità.

Quella logica su cui ancora ci basiamo per capire e distinguere. Ma è anche un concetto usurato nella pratica se ne consideriamo l'uso e l'abuso per rassicurare le proprie pigrizie, non confrontarsi col mondo, chiudersi nel proprio recinto. Personalmente preferisco riferirmi a un principio più fluido e vitale che è la tradizione, dove la continuità implica il mutamento, il passaggio generazionale di padre in figlio, e dove il senso della trasmissione non riguarda solo il passato ma anche il futuro. Diciamo che l'identità sta alla tradizione come la montagna sta al mare. O, con una formulazione più filosofica, l'identità attiene all'Essere, la tradizione è l'essere in divenire. Comunque riconoscere l'identità è riconoscere in ogni persona e comunità non solo i diritti individuali ma un volto, un'anima e una storia, rispettando nell'identità la sua dignità.

Un'epoca labile e mutante come la nostra, segnata dalla velocità e dalla rapida deperibilità di tutto, principi, legami e consumi, ha bisogno per contrappeso di punti fermi, di fedeltà che sfidano la precarietà e il volgere delle mode. Mai come oggi abbiamo bisogno di riscoprire la gioia delle cose durevoli. È questo, in fondo, il principio che regge il pensiero conservatore e che qualcuno lo banalizzi e lo ridicolizzi mortifica la sua intelligenza e il suo spirito liberale ma non scalfisce la grandezza e il valore di quei principi. È così difficile accettare che ci sia un pensiero conservatore imperniato sull'identità così come c'è un pensiero progressista fondato sull'emancipazione? La Tradizione è un bisogno fondamentale dell'animo umano, almeno quanto lo è il movimento. All'uomo si richiede duttilità e costanza, e non può rinunciare a uno dei due o applicarle all'inverso. Ogni società necessita di assetti stabili e piani mutevoli.

Su queste premesse va fondato il discorso sulle identità politiche. Nessuno può ragionevolmente pensare di imbalsamare destra e sinistra - e magari anche il liberalismo, che non è un'essenza eterna ma una categoria storica come le altre. E nessuno può pensare di fondare oggi un'identità politica sul fascismo o sul comunismo. Sono il passato, fanno parte della memoria. Destra e sinistra si usano solo per capirsi all'ingrosso ma sono categorie residuali. La politica che non ha contatti con la storia e la tradizione, con l'etica e i valori, si riduce a quella cosa miserabile che è sotto i nostri occhi. Se non è animata da passione civile e ideale si riduce a servitù e meschinità, corruzione e affarismo.

La politica ha due compiti fondamentali. Uno è governare un Paese, guidarlo e amministrarlo, affrontare i problemi pratici, decidere. Ma c'è pure un altro compito che non è ridicolo o superato, bensì essenziale: la politica è il luogo in cui le nostre solitudini, le nostre individualità convergono in uno spazio pubblico e in scelte condivise. Nella politica si esprimono e si rappresentano i valori pubblici, le visioni comuni e si fonda la concittadinanza. Intendiamoci, la politica non è l'unico spazio pubblico che esprime valori condivisi, ci sono altri ambiti, altre comunità. E poi, accanto allo spazio pubblico, c'è la sfera privata che riguarda la nostra intimità e le nostre scelte individuali. La politica è il luogo di sintesi in cui masse di individui si sentono popolo, partecipano alla vita pubblica, sentono di appartenere a una polis, pur senza escludere le differenze. Tutto questo non nasce coi regimi dispotici o con le ideologie totalitarie, come pensano i cronisti di corte vedute; nasce con la politica, anzi con il pensiero, nasce con Platone e Aristotele e poi continua nei secoli. Anzi, di più: quel mondo comune è l'essenza della politica e la base di ogni civiltà.

In quella chiave assume significato il richiamo politico alle identità. Identità aperte e non chiuse, mobili e non fisse, identità che si rispettino nelle loro differenze e non pretendano d'imporsi una sulle altre. La più grande rivoluzione, benefica e incruenta del Novecento, fu fatta nel nome dell'identità, della sovranità e della tradizione: dico quella di Gandhi. Da cui non scaturì un ritorno al passato ma una modernizzazione armoniosa dell'India. L'identità francese fu il perno della svolta di De Gaulle e anche la liberale Thatcher compensò il suo liberismo economico con la difesa conservatrice della tradizione e dell'identità inglese. E la riunificazione delle due Germanie non fu fondata sul desiderio di ricucire la ferita di un'identità divisa forzosamente in due?

Che le identità siano preziose e non sterili o nocive lo dimostra a contrario la loro assenza nella nostra politica. Quando non ci sono identità da confrontare, quando non c'è una cultura civica e una tradizione alle spalle, quando non c'è una civiltà come terreno condiviso, inclusa la civiltà delle buone maniere, nasce quello schifo di politica e antipolitica da cui tutti stiamo fuggendo. Le differenze non sono più fondate sui contenuti, sulle diverse sensibilità, sulle idee o sui temi concreti della vita; ma su livori, personalismi, banalità e malaffare. Preferisco dividermi sullo ius soli piuttosto che su Ruby; preferisco una politica che si differenzi sui contenuti politici e non sui contenuti delle intercettazioni telefoniche. E poi non veniteci a raccontare che la tanto invocata rivoluzione liberale è andata a puttane in Italia a causa di quattro gatti che dicevano di tenere alle identità... Suvvia, tornate alla realtà.
Certo, al tema delle identità un liberale è meno interessato e io lo capisco, lo rispetto e non pretendo che si adegui a questa visione. Per un liberale contano di più gli individui, i contratti, i mercati. In politica so distinguere tra la parte e il tutto, so che ci sono culture, e soprattutto inculture, diverse, anche nel centro destra. Nessuna reductio ad unum. Chiedo attenzione alle identità, soprattutto da chi ha fondato la sua ragione politica e il suo consenso su quei temi, ma non per questo irrido e disprezzo chi è refrattario alle identità. Segua la sua strada, che non è la mia, ma non pretenda di ridurre le nostre diversità al suo modo di pensare, ritenendo che sia l'unico moderno, universale, indiscutibile. Alla fine, questo differenzia chi rispetta la libertà da chi dice di essere un liberale.

Belfast, dove un incrocio stradale può diventare un simbolo di lotta


Riportiamo un articolo di Fabio Polese, uscito Venerdì 12 luglio giornata simbolo per i protestanti in Irlanda del Nord, le provocazioni delle marce orangiste, i bonfire notturni, le parate settarie, la disoccupazione, per saperne di più in questa terra martoriata nel cuore d'Europa.


da repubblica.it

Continua ad essere alta la tensione nell'Irlanda del Nord. Il periodo delle manifestazioni dei protestanti culmina oggi, 12 luglio, con la marcia che celebra la vittoria, nel 1690, di Guglielmo III con le forze del re cattolico Giacomo II. I muri di gomma innalzati per una pacificazione di facciata voluta dai politici con gli accordi del '98


ROMA - La tensione è alta nelle "Sei Contee" dell'Irlanda del Nord. La stagione delle marce protestanti culmina oggi, 12 luglio, con la marcia che celebra la vittoria di Guglielmo III d'Orange contro le forze del re cattolico Giacomo II° nella battaglia di Boyne del 1690. Non è solo un incrocio, quello che separa Twaddel Avenue da Crumlin Road, in una Belfast quanto mai divisa in questi giorni. Tra queste due strade finisce la via lealista e inizia il quartiere nazionalista irlandese dell'Ardoyne. In pochi metri finiscono i murales identitari britannici e iniziano quelli irlandesi, ed è proprio in questo incrocio che oggi passerà la parata del "Twelfth" che negli ultimi anni ha portato scontri con molotov, feriti ed arresti.

Bruciate bandiere irlandesi e simboli religiosi. La parata del "Twelfth" viene anticipata dal "Bonfire night" durante la quale i protestanti accendono centinaia di falò per ricordare i fuochi che illuminavano la navigazione notturna delle truppe di Guglielmo d'Orange nel 1690. Enormi piramidi di bancali di legno e ruote di camion vengono allestiti con i simboli repubblicani e cattolici in tutte le città dell'Irlanda del Nord. Appena cala la notte, vengono accesi creando enormi palle di fuoco. Quest'anno un'immagine pubblicata su "Twitter", in cui si vede distintamente una statua della Madonna - poi ufficialmente rimossa - posta sul bonfire pronto ad essere acceso in Lanark Way nella parte ovest di Belfast, ha suscitato l'indignazione dei cattolici repubblicani. 

I bambini in prima fila. Da una parte i supporter inglesi, con i bambini in testa ai cortei, mentre reggono stendardi e bandiere, celebrano la vittoria e la superiorità della propria comunità sulla minoranza irlandese. Dall'altra, i giovani repubblicani incappucciati innalzano barricate per protestare contro le provocazioni lealiste che ogni anno passano nella loro zona. Nel dicembre scorso, durante le lunghe violenze britanniche per la "fleg protest", dopo che il Consiglio comunale di Belfast ha deciso che la bandiera britannica può sventolare sul pennone del municipio soltanto in alcune occasioni prestabilite durante l'anno, il capo delle forze dell'ordine, Matt Baggott, ha lanciato l'allarme: "Agli scontri con la polizia hanno partecipato anche bambini di 10 e 11 anni". 

I più grandi dettano i comandi su come muoversi. "Sono profondamente preoccupata. Persone irresponsabili stanno mettendo a rischio minori che non dovrebbero essere coinvolti in questioni simili". A denunciarlo è Patricia Lewsley-Mooney, commissario all'infanzia dell'Irlanda del Nord. Molto spesso, infatti, durante le manifestazioni e gli scontri, i più grandi, defilati nelle vie laterali, dettano i comandi sul da farsi. "Cos'ì facendo", continua il commissario all'infanzia, "i bambini rischiano di rovinare il proprio futuro".

La disoccupazione giovanile. L'aggravante della disoccupazione giovanile, in crescita giorno dopo giorno, rende il clima ancora più teso e il futuro molto incerto. Secondo l'Istituto di ricerca economica Nevinin uno studio pubblicato lo scorso aprile, i tassi di disoccupazione giovanile in Irlanda del Nord sono aumentati fino ad arrivare al 23,8 per cento. Sempre secondo lo stesso rapporto, le richieste di sussidio al governo dall'inizio della crisi economica sono aumentate del 250 per cento.


Il futuro incerto. In molti si illudevano che gli accordi del venerdì santo del 10 aprile del 1998, portassero alla fine dei disordini, i famosi troubles, e quindi a normalizzare la situazione. Da lontano, per chi non ha vissuto oltre 30 anni di guerra intestina tra occupanti e occupati, la tensione e gli scontri che potrebbero accadere anche oggi sono inspiegabili. In realtà, in Irlanda del Nord, terra martoriata nel cuore d'Europa, un semplice incrocio stradale può diventare rapidamente un simbolo di lotta, che fa cadere i muri di gomma innalzati da una pacificazione di facciata voluta dai politici, ma non da gran parte della popolazione.

giovedì 11 luglio 2013

Donare: un atto eversivo


di Alessandro Lauro

Uno degli aspetti piu’ importanti della logica della decrescita e’ il dono. L’arte del donare – va detto – non e’ un’esclusiva dei decrescenti, questi l’hanno intelligentemente presa a prestito dal comune vivere umano che ci caratterizza tutti.

Solitamente si pensa al dono come a “qualcosa” da donare e non a caso negli scambi tra beni autoprodotti noi conosciamo la regola dell’obbligo di donare, l’obbligo di ricevere e di ridonare il doppio di quello che abbiamo ricevuto. E’ sicuramente un’ottima pedagogia e anche urgente da perseguire per non smarrire gli ultimi barlumi di umanita’.

Si’ perche’ l’atto del donare e’ prima di tutto un atto di umanizzazione importante. E non a caso la decrescita felice lo ha fatto suo in un contesto dove la crescita scriteriata ha causato – tra le altre cose – atti di barbarie e disumanizzazioni a livelli molto profondi.

Ma la logica del dono va approfondita e non va lasciata solo all’ambito dello scambio (ambito importante ma non unico) di beni materiali. Se infatti lo lasciassimo solo in questo frangente resteremmo comunque in superficie e rischieremmo di sciupare la potenza benefica di tale atto.

Sono convinto infatti che il dono sia diverso dal “dare”. In quest’ultimo infatti noi scambiamo beni, oggetti, merci o servizi che presuppongono una vendita, un prestito uno scambio mercantile. Il Dono invece presuppone la persona: non si dona cio’ che si ha ma si dona cio’ che si e’, la propria presenza. In altre parole si dona la propria persona con il proprio tempo e la propria personalita’ e lo si fa senza attendersi per forza una reciprocita’. Questo atteggiamento e’ molto importante perche’ l’unico in grado di generare rapporti e rapporti sinceri basati sulla fiducia nell’altro. E si badi bene che se certamente in una buona maggioranza dei casi a tali gesti nel tempo si e’ ricompensati con altrettante azioni benefiche, questo non sempre e’ garantito e anzi suo prosupposto non deve essere tale garanzia e non sempre deve averne l’obbiettivo. Se cosi’ non fosse dove andrebbe a nascere la fiducia nell’altro diverso da me?

C’e’ dunque un rischio nel donare. Questa infatti e’ un’azione asimettrica e la domanda che potremmo porci e’: perche’ cio’ avviene? Molte possono essere le risposte e principalmente credo che cio’ sia possibile perche’ l’uomo e’ capace di bene e’ capace di amore, e lo sa fare in piena liberta’ assumendosene il rischio. In ogni caso anche nell’ipotesi di un donare non ricambiato o rifiutato, chi ha compiuto tale gesto ha messo in atto una vera azione eversiva: ha donato senza aspettarsi nulla in cambio. E’ uscito fuori dalle regole delle reciprocita’, dello scambio, del mercato, innestando un valore positivo che resta tale e spiazza e pone interrogativi salutari.

Abbiamo detto che il vero dono e’ quello della propria presenza all’altro attraverso la parola, gesto, dedizione, cura, presenza; e tutto questo resta possibile solo quando si decide la prossimità, il farsi vicino all’altro, il coinvolgersi nella sua vita, il voler assumere una relazione con l’altro. Tutto questo ci fa intuire quanto il dono cosi’ inteso, faccia nascere la vera relazione e quindi reti autentiche di relazioni, che se alimentate continuamente dalla logica del donare, generano a loro volta il circolo di un amore autentico perche’ disinteressato.

Il donare non può essere sottoposto alla speranza della restituzione, ma interpella le persone chiamandole a una responsabilita’. Potremmo dire che spira il legame sociale. L’altro diventa colui del quale si è responsabili, una persona che, una volta incontrata nella ua concretezza ha diritto di essere destinataria dell’amore in virtù della prossimità che si è creata.

Si’, la logica della decrescita felice – se approfondita – puo’ davvero portare ad una comune rivoluzione umana, risvegliando in ogni persona la capacita’ di bene e di amore, che passando attraverso azioni concrete, rende ognuno di noi un capolavoro fuori fa ogni logica di mercato.

"L'isola che non c'è, il mio esodo dall'Istria"


"A 10 anni dal “Sangue dei vinti” lotto ancora con le bugie rosse"



da ilgiornale.it

Dieci anni fa un grosso sasso, quasi un meteorite, precipitò da grande altezza nel piccolo stagno della storiografia italiana. Uno stagno dove a gracidare erano, chi meglio chi peggio, più o meno sempre gli stessi, e da un bel po'.

A lanciarlo un «non professionista», in senso accademico, della Storia: il giornalista Giampaolo Pansa.


Con il suo Il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer) riproponeva il tema delle uccisioni sommarie praticate dai partigiani durante la guerra civile, dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. E non solo. Metteva per la prima volta in luce i virulenti strascichi di quello scontro. Le numerosissime esecuzioni sommarie proseguite sino al 1948. Soprattutto in quello che era conosciuto come il «Triangolo della morte» che aveva per vertici Castelfranco Emilia, Piumazzo e Mazzolino. E spesso a morire non erano solo i fascisti, ma chiunque venisse visto come d'ostacolo a una futura rivoluzione comunista.
Il libro, come è noto, fu subito aggredito dai “guardiani della memoria” partigiana. Spesso senza nemmeno una lettura sommaria, a prescindere. Oggi a dieci anni di distanza, seppure molto a fatica, la percezione sul tema è cambiata. Ecco perché a questa nuova edizione (Sperling&Kupfer, pagg. 382 euro 11,90) Giampaolo Pansa ha aggiunto una nuova prefazione in cui si leva qualche sassolino dalla scarpa: «“Arrendetevi siete circondati!”. Urla così Beppe Grillo... Il suo grido di battaglia mi sembra adatto a descrivere una situazione molto diversa. Anche gli avversari dei miei libri sulla guerra civile sono nei guai. Hanno scelto di farsi circondare da se stessi, rifiutando qualsiasi revisionismo sull'Italia tra in 1943 e il 1945. E dovrebbero arrendersi alla sconfitta». Ne abbiamo parlato con lui.

Ma a dieci anni dal Sangue dei vinti che sensazione ha provato a tornare su quelle pagine?
«Io ho scritto moltissimi libri e di norma non li rileggo mai dopo che ho licenziato le seconde bozze... Ho fatto così anche col Sangue dei vinti: l'ho tenuto lì come fosse il libro di un altro. Rileggendolo ora, quando l'editore mi ha chiesto di ripubblicarlo mi sono reso conto davvero di quanto sia gonfio di sangue, di esseri umani citati per nome e per cognome, di morti terribili. È per questo che ho accettato la ripubblicazione, penso possa avere un senso per i giovani, per chi aveva dieci anni quando è uscito la prima volta e ora ne ha venti... Credo possa raccontare molto anche a questa Italia di oggi cosa sia stato quel conflitto civile che è durato sino al '48. Perché io sono convinto che la guerra intestina sia finita con il 18 aprile del 1948 quando De Gasperi, vincendo le elezioni, mise il Paese su un binario di tranquillità».

All'uscita il libro provocò il finimondo. Se lo aspettava?
«No, si fece molto più “rumore” di quanto all'epoca potessi prevedere. Forse in un certo senso perché il mio libro dimostrava che era errato il principio secondo cui la Storia la fanno soltanto i vincitori. Quella dei vincitori è una storia bugiarda. Solo che questo era inaccettabile per molti, e in parte è inaccettabile ancora oggi. C'era e c'è chi pensa che i fascisti avessero un solo dovere: quello di stare zitti, senza nemmeno poter ricordare i propri morti. Ma soprattutto non scrivere. Ma io non volevo una storia di parte, a me interessavano i fatti, raccontare che l'Italia rischiò di diventare l'Ungheria del Mediterraneo».

E Lei arrivava da sinistra...
«Sì, io non mi chiamavo Giorgio Pisanò. Io di Pisanò ho sempre avuto grandissima stima: è stato un pioniere in questi studi. Ma Giorgio veniva delegittimato perché veniva dal mondo del fascismo... era chiaramente un intellettuale di destra».

Alla fine Il sangue dei vinti è diventato un ciclo. Lei è rimasto a lungo in questo filone.
«Il ciclo è iniziato per essere precisi col libro precedente, I figli dell'Aquila, e poi è proseguito con altri titoli come Sconosciuto 1945, La grande bugia, I gendarmi della memoria. E se io sarò ricordato per qualcosa credo che lo sarò proprio per il ciclo del Sangue dei vinti. Me ne accorgo perché le persone mi fermano per ringraziarmi... Certo se vado in una zona dove dominano i centri sociali è l'opposto. Io dovuto smettere di andare a parlare in pubblico. Per fortuna i libri buoni si fanno strada da soli...».

Ecco, allora partendo dal tuo titolo parliamo anche dei “gendarmi della memoria”. Nell'introduzione cita Sergio Luzzatto, che con Lei era stato molto duro, e ora a causa del suo Partigia è finito sotto il tiro incrociato di altri “gendarmi”...
«Già quando presentai I figli dell'Aquila a Genova Luzzatto mi sottopose a un assalto verbale non indifferente... Ora lui ha scritto Partigia. Io l'ho letto e per me non racconta una storia diversa da molte altre... Certo per uno come lui significa rimangiarsi un atteggiamento che prima non ha mai voluto cambiare. Mi ha dato anche atto di aver scritto i miei libri con rispetto della verità... Ovviamente, però, appena si è messo fuori dal giro dei “gendarmi della memoria”, non gliel'hanno perdonata. Infatti cosa è accaduto? Sebbene in modo più soft di come fecero con me, gli sono andati tutti addosso. Ho letto le cose velenose scritte da Gad Lerner, che credo non abbia neppure aperto il saggio. Lo ha demolito senza pietà. Anche con Il sangue dei vinti iniziarono il fuoco di sbarramento sette-otto giorni prima di avere il libro a disposizione. Ne cito due per tutti: Giorgio Bocca e Sandro Curzi... Ma non è elegante far polemica con chi non c'è più. Qualcuno arrivò a dire che avevo scritto Il sangue dei vinti per compiacere Berlusconi che mi avrebbe poi ricompensato con la direzione del Corriere della Sera... Cose deliranti. Provocate da code di paglia chilometriche. Eppure i “gendarmi” sanno bene che queste cose sono accadute. Io ho ricevuto in dieci anni 20mila lettere che provano quei fatti».

Faccio l'avvocato del diavolo. Non hai mai pensato che le sue inchieste siano state sfruttate, a destra, anche politicamente?
«C'è una destra fatta di persone che hanno subìto per decenni il silenzio. Sono contentissimo di averli aiutati. Ma la destra politica non aveva molti mezzi culturali per sostenere queste battaglie. Già nella Prima Repubblica si diceva che la Dc pensava agli affari, mentre il Pci ai mezzi di propaganda culturale. Le cose non sono cambiate di molto. Io non sono mai stato invitato da Fabio Fazio, e sappiamo quanto questo possa contare per un libro. Ma in fondo questo è niente. Contiamo quante cattedre di Storia contemporanea sono affidate a docenti di sinistra... Ed è una materia fondamentale».

Quanti anni ci vorranno per arrivare a un giudizio equanime su questo periodo?
«Prima o poi succederà. La Storia è una talpa che scava, prima o poi esce fuori. La verità emergerà, ammesso che si abbia ancora interesse a cercarla».

martedì 2 luglio 2013

Quando Primo Carnera conquistò la corona dei massimi e gli Usa


da barbadillo.it
Quel “leviatano veneto”, così l’avevano battezzato le riviste americane, quel maciste che sarebbe diventato niente di meno che un Carnera per la storia e per l’immaginario collettivo, chiuse la prima notte da campione del mondo in un club di New York, bevendo latte e analcolici, scortato dal console generale di New York e dall’Ambasciatore d’Italia, cantando ‘O sole mio fino alle cinque del mattino.
Ottanta anni fa, ma come fosse oggi: Carnera è rimasto Carnera. Primo e Carnera. Magari friulano e non veneto, campione del mondo dei pesi massimi, la categoria più prestigiosa, il primo campione del mondo della nostra boxe, un simbolo a dispetto delle maldicenze, un gigante buono che non si è mai smentito, ideale bandiera di successo per l’Italia in camicia nera. L’Italia degli anni Trenta si inebriò del divismo sportivo e di qualche forma di gossip. I giornali sportivi, i cinema, i cinegiornali ci sguazzarono. Carnera fu ideale in tutto, e con lui Binda e Nuvolari, Varzi, Guerra, Bartali, Meazza, Combi. Ma quella di Carnera è stata la più autentica storia a cavallo di due mondi: Stati Uniti e Italia. Eroe o figlio del business? Di tutto un po’. Sfruttato in America, giocando sul credo-non credo di incontri più o meno veritieri. Ammirato in Italia e fra gli italiani d’America: simbolo di una rivalsa sociale che lo sport ha spesso intonato. Il 29 giugno del 1933 Carnera conquistò la corona mondiale contro Jack Sharkey, campione della categoria, americano nato da genitori lituani che, in realtà, si chiamava Paul Zukauskas. Il nickname era composto da Jack come Jack Dempsey, il suo idolo del ring, e Sharkey come il vero talento Sharkey del quadrato che si chiamava Tom ed era irlandese. Jack Sharkey aveva conosciuto mille mestieri e mille miserie, si faceva passare per marinaio di Boston, la città di residenza. Ma il suo soprannome «Sobbing sailor», marinaio piangente, contrastava con la rudezza del tipo. Fuori del ring veniva preso da una iperemotività che non gli faceva trattenere le lacrime. Magari c’entrava il trattamento che gli infliggevano pubblico e critica. Self made man del ring e dotato di notevole autostima, contro Carnera aveva già ottenuto una vittoria feroce, in 15 round, due anni prima. Forse quella che tradì il suo Io nella rivincita. Prima del match mondiale Sharkey si raccontò così: «La mia boxe è boxe, Carnera tira solo pugni. Sarebbe un pugile da ricostruire daccapo». Dopo essere finito ko al sesto round, portato a braccia nell’angolo a causa di un uppercut destro che lo mise faccia a terra si spiegò così: «Ho dimenticato di schivare il colpo».
Nelle parole di Sharkey è anche spiegata la trasformazione di Carnera: dalla strana storia del fenomeno da baraccone all’indimenticabile parabola, magari un salto nel mito, della montagna che cammina. Carnera era un gigante grazie a una ghiandola endocrina, detta pineale, che lo rese smisurato fin da piccolo. Ma divenne un pugile, e non un bluff dai piedi d’argilla come sostenne Budd Schulberg che lo raccontò, migliorando l’arte del combattimento, del tirar colpi e del muoversi. Nacque boscaiolo e sollevatore di pietre, ma prese lezioni di ballo per muover meglio le gambe, affinò i colpi, il sinistro lungo e noioso, una miglior difesa, imparò a tirare l’uppercut che divenne il segreto del suo mondiale.
La storia americana venne costruita da un Sindacato in mano a uomini della mafia, tutta gente gestita da Al Capone. Sul ring Carnera tirò i pugni che uccisero Ernie Schaaf, pugile di origine tedesca: furono altri i colpi che minarono Schaaf, ma la sua morte spinse Carnera verso il mondiale. Quella notte al Garden Bowl di Long Island (arena estiva del Madison Square Garden), Primo fece la sua storia con colpi veri: 26 anni contro i 31 di Sharkey, il campione che aveva conquistato il titolo nel 1932 battendo Max Schmeling. L’italiano, sbarcato tre anni prima in America, pesava 28 kg più, alto 14 centimetri in più. Nel Garden erano presenti 40mila spettatori (i giornali italiani parlarono di 60mila), tanti emigrati italiani, celebrità fra cui Fiorello La Guardia, sindaco di New York, incasso di 184mila dollari. La borsa di Carnera era di 59mila dollari, ma gli rimasero in tasca 360 dollari: solo il manager si mangiava il 33 per cento.
Carnera si presentò sul ring in accappatoio verde, rispondendo agli applausi con saluto romano. Il marinaio di Boston con la cintura di campione alla vita. Sharkey sembrava ansioso di chiudere e sbagliò match, Carnera sfruttò tutto quanto aveva imparato cominciando a far danni dal 5° round. Se ne occuparono anche i grandi giornali americani. Il New York Times dedicò un titolo in prima pagina e una pagina all’interno. Concludendo così la cronaca: «Carnera incrocia un poderoso terrificante uppercut alla mascella che quasi decapita il bostoniano: Sharkey cade sulle proprie orme pancia in giù. Immobile, sembra dormire». Il manager dell’americano comincerà ad urlare come un matto all’arbitro: «Togli i guantoni a Carnera e guarda cosa c’è dentro». Incredulo, cercava il ferro.
La Gazzetta dello sport venderà 600mila copie, un record. I giornali italiani strilleranno l’esito del match in prima pagina. Oggi per quasi tutti i quotidiani è naturale vendere sport in prima pagina. Allora era eccezionale. L’interesse è triplice: per Carnera, per il Paese e gli italiani oltreoceano e per il Duce. La Gazzetta dello sport sottolinea: «Una conquista dell’Italia fascista». Si mischiano retorica e ammirazione. Il Corriere della sera non resta indietro: «Questa vittoria solleva enormemente il prestigio sportivo e riafferma la virtù della razza». Carnera non dimentica di offrire il titolo a quell’Italia. Invia telegrammi a Mussolini e al segretario Achille Starace («Offro il campionato all’Italia fascista inviando a vostra Eccellenza devoti omaggi»). Il primo telegramma, molto più candidamente, è per la madre, Giovanna, rimasta a Sequals: «Devo tutto a te, mamma». Il resto è vita.
Poi ci sarà il nuovo corso americano tra film e dolce vita, il ritorno in patria inseguendo con una barca a vapore il «Conte di Savoia», la nave salpata senza attendere il campione ritardario, l’oceanico entusiasmo italiano e il nuovo mondiale in Italia: il 22 ottobre a Piazza di Siena contro il basco Paulino Uzcudum. Davanti a 60mila tifosi Carnera sale sul ring, seduto in prima fila c’è il Duce con i figli. Primo si toglie l’accappatoio e rimane in camicia nera: nuovo eroe del regime al quale aveva devoluto anche la borsa del match. Vincerà ma poi comincerà il tramonto.

*da Il Giornale