da barbadillo.it
La collezione completa delle storie
di Tintin, personaggio dei fumetti di estrazione patriottica e
anticomunista, è in vendita come allegato opzionale del Corsera. Stenio
Solinas descrive in questo articolo il profilo culturale di Tintin e del
suo autore, Hergé
Nell’ottava tavola di Tintin au pays des
Soviets, il giovane reporter parte in tromba al volante di una potente
Mercedes decappottabile e il suo ciuffetto di capelli incollato alla
fronte si solleva sotto l’effetto del vento e della velocità. «E voilà!
Un gioco da ragazzi… E adesso dritto a Mosca!» recita la «nuvoletta» che
accompagna il disegno.
Tintin nasce allora, è il gennaio del 1929, il giornale che ne pubblica
la storia si chiama Le Petit Vingtième, supplemento per ragazzi del
quotidiano Le Vingtième Siècle e il suo autore è un giovane ventenne,
George Remi. Hergé è il suo nome d’arte e trent’anni dopo il generale de
Gaulle, che si ritiene l’incarnazione novecentesca della Francia,
dichiarerà: «Ho un solo rivale internazionale: è Tintin»… L’imponente
mostra retrospettiva appena chiusasi al Grand Palais di Parigi, che ne
ha celebrato il genio a 110 anni dalla nascita, suona come una conferma e
insieme una smentita: Charles de Gaulle è sempre più in un rimpianto,
Tintin resta ancora una realtà.
Belga come Georges Simenon, il Tintin di
Hergé è però uno e bino rispetto a un Maigret francese fin da subito.
Nel 1930 il settimanale parigino Curs vaillants comincia infatti la
pubblicazione delle avventure sovietiche dello spericolato reporter,
nell’album Parigi sostituisce Bruxelles e nel viaggio di ritorno dal
Paese dei Soviet il treno non passa più per Liegi, Tirlemont e Louvain,
ma per Saint Quentin e Compiègne… Il successo è clamoroso e
nell’immaginario dell’epoca, complice la lingua, Tintin diviene
tipicamente francese, come la baguette e il camembert…
Se l’esposizione «Hergé» appena
ricordata, ha fatto entrare per la prima volta il fumetto in uno dei
templi dell’arte ufficiale, l’importanza dell’album da cui siamo partiti
ci dice tuttavia qualcosa di diverso rispetto alla materia in sé, al
genere, al genio del suo autore. Fermiamoci un momento sulle date di
pubblicazione, il biennio ’29-30, sull’età del disegnatore, ventidue
anni appena, sul tema, la Russia di Stalin, leggiamone poi la storia e
ci accorgeremo che rispetto ai «pellegrini politici» che prima, durante e
dopo andranno a raccontare un comunismo mai esistito nella realtà, ma
idealizzato nella loro fede di «compagni di strada», Hergé aveva già
capito tutto. Questo provinciale ragazzino belga, insomma, vedeva meglio
e più in profondità di tanti intellettuali accreditati e ferrati, in
anticipo persino sui reportages, questi sì critici, di un Céline o di un
Gide…
Prendiamo la visita alla fabbriche,
fatta andando dietro a un gruppo di «comunisti inglesi» pronti ad
ammirare «le meraviglie del bolscevismo» con tanto di commenti:
«Beautiful, very nice»… Tintin si intrufola dalla porta di servizio e
scopre che si tratta di «fondali di teatro», il cosiddetto «effetto
Potëmkin», dal nome di quel primo ministro di Caterina II che costruiva
interi villaggi finti affinché l’imperatrice ne potesse ricevere una
sensazione di benessere, un Paese apparecchiato, insomma, per sbalordire
gli ospiti di rango, un potere intento a fare la propaganda di se
stesso. Allo stesso modo, la scoperta dell’export di vodka, grano e
caviale, stoccati per servire da elemento di propaganda all’estero, gli
rivela la miseria economica del comunismo in patria. Ora, due anni dopo
l’immaginario eppure veridico reportage di Tintin, George Bernard Shaw
fa il suo ingresso trionfale in Russia: un vagone frigorifero, colmo di
viveri, viene agganciato al treno per convincerlo che nel Paese regna
l’abbondanza, e nei ristoranti di Mosca tutte le cameriere dimostrano di
conoscere i suoi libri. Commenta deliziato: «Le domestiche in
Inghilterra non sono tanto colte quanto le loro colleghe sovietiche».
Della serie, quando il socialismo reale diventa il socialismo
immaginario e narcisista…
Prendiamo ancora la scoperta che Tintin
fa dei minori in Russia, mendicanti e vagabondi nelle campagne come
nelle città. Cinque anni più tardi la Pravda pubblicherà in prima pagina
il decreto con cui si stabiliva che, a partire dai dodici anni, si era
passibili «di tutte le misure della giustizia penale», inclusa la pena
di morte. Era una legge che si poneva un duplice obiettivo: sociale,
nell’accelerare l’eliminazione della moltitudine di orfani
inselvatichiti e allo sbando nata dal regime; politico, nell’applicare
una forma barbara di pressione sui vecchi oppositori, i Kamenev, gli
Zinovev, che avevano figli di età idonea. Il Partito comunista francese
dell’epoca, dovendo commentare quella legge, ne sosterrà la giustezza:
sotto il socialismo, infatti, i bambini crescevano più in fretta…
Tintin non ignora nemmeno il problema
dei kulachi, i cosiddetti «contadini ricchi», la requisizione forzata
del grano, la cosiddetta dekulachizzazione che significherà la
distruzione del patrimonio agricolo, l’eliminazione fisica diretta di
centinaia di migliaia di persone, indiretta di qualche milione per
carestia e deportazione. È quella che Walter Benjamin scambia invece per
il nuovo corso industriale, i piani quinquennali che sostituiscono il
comunismo di guerra: «Adesso, compagni, è scoppiata l’era della
moderazione utile e disciplinata. A questa Russia i geni non servono, e
men che mai i letterati. Ha bisogno di fabbriche e non di poeti». Sarà
preso talmente in parola che Esenin si impiccherà usando le cinghie di
una valigia, Majakovskij si brucerà il cuore con un colpo di pistola,
Mejerchol’d, il padre del teatro moderno, sarà massacrato con un tubo di
gomma e poi finito con un colpo alla nuca, la moglie sgozzata fra le
quattro mura di casa, Babel’ fucilato, Mandel’tam seppellito in un
lager… Come ha scritto Josip Brodskij, «il regime sfornò vedove di
scrittori con una tale efficacia che verso la metà degli anni Sessanta
ce n’era in circolazione un numero sufficiente per organizzare un
sindacato».
Si badi bene, Tintin è un fumetto per
ragazzi, con tutti gli eccessi, le semplificazioni e la superficialità
che esso comporta e l’album di cui stiamo parlando era scritto da uno
che aveva pochi anni di più dei suoi potenziali lettori. Per formazione e
per cultura, Hergé era un anticomunista e fra le letture che formano il
terreno su cui la storia prende forma c’è fra le altre quel Moscou sans
Voiles (Neuf ans de travail au pays des Soviets) che un diplomatico
belga, Joseph Douillet, aveva pubblicato l’anno prima. E tuttavia ciò
che lo separa dai Toller, i Dreiser, i Sinclair, i Barbusse, i Wells, i
Malraux e i già citati Shaw e Benjamin di quegli anni era proprio la
disposizione a volersi fare ingannare, la delusione individuale nei
confronti delle nazioni di origine che li spingeva a credere nelle
illusioni di un Paese che si voleva vedere come fratello. Inoltre, non
c’era nulla in lui, come forma mentis, di quello che resta un elemento
fondamentale per spiegare il successo e l’appeal che per quasi
sessant’anni accompagnò il comunismo in patria e all’estero:
l’esperimento in corpore vili di un’avanguardia intellettuale, una setta
di rivoluzionari di professione, in guerra contro un’intera società. Il
comunismo in Russia eliminò l’intera Russia: gli intellettuali, ovvero
in realtà i professionisti, ingegneri, professori, impiegati, i
proprietari terrieri e i contadini, i commercianti, tutti quelli che,
indipendentemente dalla loro estrazione sociale, potevano essere
considerati, o si rivelarono, ostili e/o estranei al nuovo corso.
Fu un’eliminazione ottenuta con la
violenza, la delazione, l’inganno e resa altresì possibile dalla più
totale mancanza di pietà. Non ci si accontentava del corpo, si voleva
l’anima. Le «confessioni», i «processi», quelli che Bertolt Brecht
definirà le prove «delle attive cospirazioni contro il regime», miravano
a questo, al riconoscimento dell’errore, all’espiazione e alla
riaffermazione della giustezza della causa: non solo sono colpevole, ma
mi faccio schifo in quanto tale ed esigo il castigo che la mia
colpevolezza comporta… Come ha scritto Solgenicyn, alla base della lunga
sopravvivenza del regime c’è «la sua forza disumana, inimmaginabile
nell’Occidente».
Di fronte all’offerta del funzionario
della Gpu, «100mila rubli o la morte», per divenire complice del regime,
Tintin dice semplicemente «no». Lo può fare perché è un fumetto e il
suo cane Milou lo salverà dalla fucilazione travestendosi da tigre… Ma,
come ha raccontato nelle sue memorie Jacques Rossi, uno che a vent’anni
era già comunista e a trenta, sempre da comunista, ne avrebbe passati
altri venti nei gulag: «Vittima? Non sono stato una vittima. Io sono
stato un complice di quel sistema. È come mettere una pentola piena
d’acqua sul fuoco, accendere il gas e quando l’acqua bolle ficcarvi la
mano dentro. Non bisognava mettercela». (da Il Giornale)