giovedì 5 marzo 2015

Budapest ricorda alla Casa del Terrore i 100 milioni di vittime del comunismo


da secoloditalia.it

Si chiama Terror Háza, Casa del Terrore. Quell’indirizzo, Andrássy út 60, a Budapest, evoca torture, stragi, massacri ed eccidi. E’ il simbolo, tremendo, dei 100 milioni di morti ammazzati dalle dittature comuniste in tutto il mondo. 

Ed è qui, attorno a questo palazzetto ungherese a tre piani in stile neorinascimentale costruito alla fine del 1800, che, da 15 anni a questa parte, ogni 25 febbraio, si raccolgono migliaia di persone per celebrare solennemente la Giornata Nazionale delle vittime del Comunismo. Era il 2000 quando il Parlamento ungherese decise che doveva ricordare in maniera tangibile le vittime dell’Olocausto compiuto in nome dell’ideologia comunista, quei cento milioni di morti ammazzati che sono la vergogna dell’umanità.

Fu deciso di fissare una data, appunto il 25 febbraio, a ricordare il primo atto che darà il via a un eccidio di massa. Il 25 febbraio del 1947, infatti, Bélá Kovács, segretario generale del Partito dei piccoli proprietari, fu arrestato dai sovietici e deportato in Russia dove venne incarcerato per otto anni e costretto ai lavori forzati. Da lì in poi la strada fu in discesa per i boia comunisti il cui metodo di pulizia etnica divenne la cifra di quella dittatura determinata e spietata.

E cosa meglio di quel palazzetto poteva restituire tutto il dolore, la sofferenza, le tragedie che le vittime del Comunismo furono costrette a sopportare? Per 11 anni, dal 1945 al 1956, lì, in quell’edificio, che si affaccia sull’angolo dell’alberato viale Andrássy – la strada più bella di Budapest dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco – e via Csengery, si insediò la Polizia politica prima e l’Államvédelmi Hatóság, l’Autorità di sicurezza dello Stato, poi.

Quella casa del terrore dove furono torturati gli ungheresi.

A migliaia passarono di lì: entrarono con i propri piedi, uscirono morti ammazzati. 

Nel peggiore dei modi. Incarcerati, venivano torturati fino allo sfinimento. Morivano così, nelle mani dei propri aguzzini. Le loro foto stampate sulle formelle smaltate in bianco e nero cementate sul bugnato dell’edificio a seguirne il perimetro come un cimitero in mezzo alla città sono una via crucis a perenne testimonianza delle brutalità che milioni di persone furono costrette a subire in nome dell’ideologica comunista. Il cornicione, una lastra scatolata di ferro scuro che aggetta sulla strada sottostante incombendo su visitatori e passanti con quella doppia scritta intagliata, Terror, sta lì a ricordare le responsabilità di un regime mondiale che ha fatto 15 volte più vittime della Shoah e che prevedeva l’eliminazione sistematica di chi non si allineava.

Oggi le sale espositive del museo della casa del Terrore realizzato all’interno di quell’edificio che inghiottì per sempre le vite di migliaia di persone, si snodano su tre piani che ruotano intorno a un cortile centrale dove è collocato un carro armato sovietico T54 che emerge dall’acqua simile a quelli con i quali i sovietici invasero l’Ungheria nel 1956, e le foto di migliaia di vittime. Oltre a filmati d’epoca, testimonianza delle deportazioni, sono stati ricostruiti fedelmente alcuni ambienti del palazzo e ogni sala ha il suo tema: dalla duplice occupazione alla camera delle torture a quella del sarto Gabor Peter, temutissimo capo dell’AVH, la polizia segreta ungherese. 

Ma certo la parte più suggestiva è, soprattutto, quella delle celle sotterranee, un intrico di cunicoli e di labirinti, nel seminterrato del palazzo, dove i prigionieri venivano a lungo torturati e poi uccisi. E’ per loro, per ricordarne le terribili sofferenze fino alla morte per mano comunista, che ogni 25 febbraio si celebra solennemente a Budapest, attorno alla Casa del Terrore, la Giornata Nazionale delle vittime del Comunismo. A monito ci sono quelle parole che, meglio di qualunque altra, evocano cosa ha davvero rappresentato quel luogo: «Quando dalla cantina di via Andràssy 60 venni condotto al primo interrogatorio serio – disse l’abate Vendel Endrédy che ha passato 6 anni in cella d’isolamento – pregai Dio almeno per un’ora, perché cancellasse i nomi dei miei amici dalla mia memoria».