da secoloditalia.it
Si chiama Terror Háza, Casa del Terrore. Quell’indirizzo, Andrássy út 60, a Budapest, evoca torture, stragi, massacri ed eccidi. E’ il simbolo, tremendo, dei 100 milioni di morti ammazzati dalle dittature comuniste
in tutto il mondo.
Ed è qui, attorno a questo palazzetto ungherese a
tre piani in stile neorinascimentale costruito alla fine del 1800, che,
da 15 anni a questa parte, ogni 25 febbraio, si raccolgono migliaia di
persone per celebrare solennemente la Giornata Nazionale delle vittime del Comunismo. Era il 2000 quando il Parlamento ungherese decise che doveva ricordare in maniera tangibile le vittime dell’Olocausto compiuto in nome dell’ideologia comunista, quei cento milioni di morti ammazzati che sono la vergogna dell’umanità.
Fu deciso di fissare una data, appunto il 25 febbraio, a ricordare il
primo atto che darà il via a un eccidio di massa. Il 25 febbraio del
1947, infatti, Bélá Kovács, segretario generale del Partito dei piccoli proprietari, fu arrestato dai sovietici e deportato in Russia dove venne incarcerato per otto anni e costretto ai lavori forzati. Da lì in poi la strada fu in discesa per i boia comunisti il cui metodo di pulizia etnica divenne la cifra di quella dittatura determinata e spietata.
E cosa meglio di quel palazzetto poteva restituire tutto il dolore, la sofferenza, le tragedie che le vittime del Comunismo furono costrette a sopportare? Per 11 anni, dal 1945 al 1956, lì, in quell’edificio, che si affaccia sull’angolo dell’alberato viale Andrássy – la strada più bella di Budapest dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco – e via Csengery, si insediò la Polizia politica prima e l’Államvédelmi Hatóság, l’Autorità di sicurezza dello Stato, poi.
Quella casa del terrore dove furono torturati gli ungheresi.
A migliaia passarono di lì: entrarono con i propri piedi, uscirono morti
ammazzati.
Nel peggiore dei modi. Incarcerati, venivano torturati fino
allo sfinimento. Morivano così, nelle mani dei propri aguzzini. Le loro
foto stampate sulle formelle smaltate in bianco e nero cementate sul
bugnato dell’edificio a seguirne il perimetro come un cimitero in mezzo
alla città sono una via crucis a perenne testimonianza delle brutalità
che milioni di persone furono costrette a subire in nome dell’ideologica comunista.
Il cornicione, una lastra scatolata di ferro scuro che aggetta sulla
strada sottostante incombendo su visitatori e passanti con quella doppia
scritta intagliata, Terror, sta lì a ricordare le responsabilità di un regime mondiale che ha fatto 15 volte più vittime della Shoah e che prevedeva l’eliminazione sistematica di chi non si allineava.
Oggi le sale espositive del museo della casa del Terrore
realizzato all’interno di quell’edificio che inghiottì per sempre le
vite di migliaia di persone, si snodano su tre piani che ruotano intorno
a un cortile centrale dove è collocato un carro armato sovietico T54 che emerge dall’acqua simile a quelli con i quali i sovietici invasero l’Ungheria
nel 1956, e le foto di migliaia di vittime. Oltre a filmati d’epoca,
testimonianza delle deportazioni, sono stati ricostruiti fedelmente
alcuni ambienti del palazzo e ogni sala ha il suo tema: dalla duplice
occupazione alla camera delle torture a quella del sarto Gabor Peter, temutissimo capo dell’AVH,
la polizia segreta ungherese.
Ma certo la parte più suggestiva è,
soprattutto, quella delle celle sotterranee, un intrico di cunicoli e di
labirinti, nel seminterrato del palazzo, dove i prigionieri venivano a
lungo torturati e poi uccisi. E’ per loro, per ricordarne le terribili
sofferenze fino alla morte per mano comunista, che ogni 25 febbraio si
celebra solennemente a Budapest, attorno alla Casa del Terrore, la Giornata Nazionale delle vittime del Comunismo.
A monito ci sono quelle parole che, meglio di qualunque altra, evocano
cosa ha davvero rappresentato quel luogo: «Quando dalla cantina di via Andràssy 60 venni condotto al primo interrogatorio serio – disse l’abate Vendel Endrédy
che ha passato 6 anni in cella d’isolamento – pregai Dio almeno per
un’ora, perché cancellasse i nomi dei miei amici dalla mia memoria».