di Miro Renzaglia
Ricordarsi del 40° anniversario della morte di Ezra Pound solo perché era fascista, e non per la sua poesia, è roba da destra terminale. Ignorare il monumento letterario che ci ha lasciato in eredità, e per lo stesso motivo, è cosa da sinistra idiota. Chi era veramente e soprattutto Ezra Pound? Lo avessero chiesto direttamente a lui, non avrebbe esitato un attimo a rispondere: io sono un poeta, solo un poeta, e tanto basta. Provate a smentirlo, se vi riesce.
E non fu un poeta qualsiasi ma uno dei massimi del Novecento. I suoi Cantos(ma non solo quelli) sono una tappa fondamentale della poesia di ogni tempo. Chi ha voluto fare poesia dopo di lui, senza ricadere nell’indietro del liricheggiar leggiadro – penso a Edoardo Sanguineti, per esempio – non ha mai negato né misconosciuto il suo debito di formazione con l’americano. Né lo negarono quegli altri mostri della letteratura che sono James Joyce e Thomas Stearns Eliot. Il quale ultimo, non si fece remore di riconoscere il merito “Al miglior fabbro” per il suo capolavoro The waste land. Come dire? I giganti riconoscono i giganti. I nani, al massimo dello splendore, appena i loro simili.
«La poesia si fa con qualsiasi cosa» sosteneva. E allora giù, a montar versi con i titoli dei giornali, con gli scarti delle confezioni pubblicitarie, con le frasi monche orecchiate per strada, al mercato o in qualche cena dove, magari, conveniva Keynes, con le citazioni dotte stralunate dai provenzali, con i passaggi autobiografici rivisitati in chiave onirica, con gli ideogrammi cinesi, con le lingue morte, con l’abbecedario di età sepolte. E, soprattutto, con la musica. Oh! sì: proprio con la musica. Provate ad ascoltare su Youtube qualche sua interpretazione personale: non recita, canta. E perché mai, sennò, avrebbe titolato il suo capolavoro proprio Cantos? Ecco, è proprio nella ritmica che la poesia si ricongiunge alla sua natura primigenia: quella di essere musica fatta con le parole… utilizzare la ritmica delle parole per restituire al termine il suo senso più profondo, al di là del significato e del significante… per raggiungere sfere ulteriori a quelle dell’intelletto puro. Voi chiamatele, se volete: emozioni…
Eppure, è vero: un poeta non è quasi mai “solo” un poeta. Il poeta è “anche”, talvolta, un uomo curioso. Un uomo che cerca il senso delle cose che lo circondano, magari solo per tradurle in versi. E in questa curiosità, a volte coltiva delle manie. Quella di Ezra Pound si chiamava “economia”. Oh! sì: proprio quella materia arida che da qualche decennio governa le nostre vite. Credo che a nessun altro poeta sia riuscito, prima di lui, di trasformare una materia così arida in poesia. Del resto – se ci pensate bene – nemmeno la teologia era materia poetica, prima che Dante Alighieri ne facesse laCommedia. Prima di lui, di Dante, magari si può ritrovare qualche lode al Signore o ai Signori di qualche fervente devoto, pagano cristiano ebreo o musulmano che sia. Ma mai nessuno, prima di Dante, si era spinto tanto in là dal concepire un’intera cosmogonia in versi. Dante lo fece con la teologia, Pound con l’economia. Il risultato è identico: poesia.
“Con usura” il fatidico canto XLV dell’opera, è solo l’epifenomeno altamente concentrato, la sintesi – se volete – del suo pensiero economico. Ma è il quadro d’assieme dell’omnia che eleva l’americano al rango di chi ha saputo vedere meglio e prima il cancro che corrompe la vita di noi, uomini d’oggi. E lo ha fatto usando la chiave a più alta intensità che a noi, uomini, è dato conoscere: la bellezza. Dovremmo ricordarlo e amarlo per questo. Come direbbe lui: «Ciò che veramente ami, rimane / il resto è scorie».