di Fabio Rampelli
Notte fonda. Squilla il telefono di casa, abito ancora con i miei genitori, rispondo io, a quest'ora capitano solo chiamate d'aiuto. Chi finisce in un commissariato, chi in questura, chi in ospedale, chi in prigione. Generazione bella e perseguitata, perennemente in trincea senza che ci sia più una guerra. Stavolta la notizia é un tuono, la voce fioca di Gianni mi dice di andare subito al Policlinico Umberto I, Paolo è in coma. Mi si gela il sangue.
Non ricordo cosa stessi facendo, se stessi dormendo o fossi sul tavolo da disegno a preparare qualche esame, non ricordo nulla. Dalla memoria rattrappita non ho mai cavato granché su quelle ore d'ansia, rammento di essere uscito di corsa e di soppiatto e di aver schiantato la mia Simca Horizon contro un’auto in borghese della polizia, alla stazione Termini. Farnetico qualcosa, estraggo la patente, l'aria che si condensa nel freddo di quella notte ributtante. Giungo al Pronto soccorso, qualcuno già strizza le spalle. Non riusciamo a vedere Paolo, ma lo sorvegliamo per sette giorni e sette notti per proteggerlo, rincuorarlo, resuscitarlo con la veglia e la preghiera. Seduti a terra in un corridoio squallido consumiamo stecche di sigarette, viveri, casse d'acqua, caffè, mentre la folla s'ingigantisce, la processione s'allunga. Quell'ospedale diventa il nostro quartier generale, è da lì che partono manifesti, volantini, murales, cortei nel cuore dell'Africano, il quartiere proibito che Paolo ha osato "violare" affiggendo manifesti e chiedere l'esproprio di Villa Chigi e la sua restituzione ai cittadini, proprio al suo confine. Tutto sembra improvvisamente ridicolo, ma quella dolorosa agonia pare voler dare ancora un senso a ciò che senso non ha.
Guardo Francesco e Giulio, Chicco e Pluto, Enrico, Massimo, Francesca, Roberta, Poldo, Cico, Ringo, Sciattol, Fabio e penso che niente ci potrà più separare, niente potrà mai corromperci ora che altro sangue cementa le nostre vite.
Il coma persiste, gli animi ribollono, la proposta della vendetta riecheggia con la sua logica dell'occhio per occhio, la follia che ha guidato gli anni 70, come un vampiro, ha sete di altro sangue, rifà capolino. Paolo non è un simpatizzante, ma un militante, un soldato. Lo ricordo a Colle Oppio arrivare con la sua moto dopo che una bomba aveva semidistrutto la sede, prendere la scopa d'ordinanza e mettersi a spazzare. Il silenzio era il suo idioma. Mi viene in mente Campo de' Fiori, dove un innocente volantinaggio era diventato la solita "provocazione fascista". Le forze dell'ordine impaurite davanti a una schiera di ultracomunisti ci piantano lì. Noi in venti, con nessuna voglia di scappare e gli altri in corteo ad agitare mazze "democratiche". C'è voluta molta fantasia per tornare a casa sani. E poi le lotte studentesche, le prime emittenti televisive private, le ‘avveniristiche’ autogestioni di destra che fecero tanto rumore, la voglia di scuotere le coscienze dei giovani, appassionandoli alle idee. I primi vagiti di una 'comunità' che avrebbe voluto affermarsi superando le ideologie e rifiutando la guerra tra fazioni. Stop al disegno dei grandi burattinai al potere.
Lavora silenzioso nello sgabuzzino dove scrive i suoi manifesti a mano, ha i capelli lunghi e arruffati, va in vacanza in tenda, è contro la pena di morte e, per questo, viene sbattuto fuori dalla sezione missina di viale Somalia, destino riservato a molti di noi. Quelli che la volevano, che erano anche razzisti e neofascisti, diventeranno statisti e ministri. Scherzi della democrazia.
La richiesta di vendetta prende corpo, alcuni si avvicinano, propongono, fanno finta di essere sicuri dell'identità degli assassini, solito schema, solita filastrocca. No, la risposta è che non si risponde, ci diano pure dei "vigliacchi", il "favore" non sarà restituito. La differenza rispetto al passato, è che stavolta vogliamo dare tutto e non prenderci rivincite, sferrare il colpo di grazia all'ipocrisia di un mondo costretto alle divise, ai saluti e alla difesa disperata del proprio spazio vitale, mettere sulle idee la nostra vita. Meritiamo più di un capriccio, di un gesto isterico, di una giustizia casareccia. Non ci aspettiamo che lo Stato consegni gli assassini alla galera, ancora una volta non accadrà, ma vogliamo fare delsoldato Paolo l'ultima vittima di un conflitto fratricida. Mai più altro sangue innocente, ma profumo di vittoria. Poche ore dopo lo avremmo giurato sul suo corpo esangue su cui un'infermiera aveva apposto un giglio bianco nel giorno del suo ventesimo compleanno:auguri, Paolo, fino alla vittoria. Intenzione velleitaria per l'epoca eppure premonitrice di quanto in una manciata di anni sarebbe accaduto nella società. Sortilegio o presagio. I partiti tradizionali saltano per aria, i vecchi schemi caracollano sotto le pietre del muro di Berlino, la storia si rimette in moto e noi le stiamo sul collo.
In terapia intensiva improvvisamente il tempo inizia a correre, sembrano gli ultimi respiri... il cuore, la testa, la debilitazione. Prima dell'ultima crisi ci riversiamo ancora in strada, tutti insieme, per urlare la nostra rabbia e bagnare di lacrime l'asfalto, in pugno le nostre bandiere. Quanti bambini riempivano quei veicoli. E mentre l'ospedale rimane deserto accade il miracolo. Sandro Pertini, presidente partigiano della Repubblica italiana, fa visita a Paolo, mette fine con un gesto imprevisto a decenni di orride esecuzioni. Sembrava quasi che Paolo lo stesse aspettando, qualche ora muore e ci lascia per sempre alle nostre miserie quotidiane. L'indomani Giuliano Ferrara, allora di osservanza socialcomunista, scrive su un editoriale di Repubblica che "uccidere un fascista era reato", che anche se la vita politica di Di Nella era "deprecabile", occorreva dare la dignità al morto. Parole che oggi giudicheremmo offensive perché qualunque scelta ideale ha una dignità innanzitutto in vita e non solo quando viene sepolta sotto terra, ma un altro tassello al superamento delle contrapposizioni veniva posto dal quotidiano di Eugenio Scalfari.
Ecco il testamento spirituale di Paolo Di Nella, gesti e parole destinati a segnare la fine di un incubo. La cappa di una guerra civile strisciante s'alza con il soffio che spira da questo sacrificio, nuovi fili d'erba si fanno strada in un prato ingiallito. Forse è il segnale che si può andare a scuola e all'università senza patemi, che si possono professare le proprie opinioni, presentare le liste studentesche senza essere linciati, parlare nelle assemblee senza subire spintonamenti o essere ricoperti di monetine, leggere liberamente i propri giornali preferiti, non vedersi irrompere dentro casa all'improvviso e senza motivo agenti di polizia mitra in pugno, parlarsi al di là della destra e della sinistra... da persone a persone. Si schiudono le porte di un'altra era.
Il dolore è un fazzoletto di piombo che t'incappuccia il cuore, ti pesa dentro, le notti non sono più le stesse da allora, inizia la sfida esistenziale per ricostruire una normalità, difendere il diritto all'allegria, per non far vincere i seminatori di miseria e trasformare il ricordo in un sorriso. Turbine di pensieri, emozioni, eventi, decisioni tanto più grandi di quei ragazzi semplici sovraccarichi di responsabilità. La morte di Paolo è un pezzo speciale della nostra storia, un tassello della storia d'Italia, una sinfonia che irrompe all'improvviso con i suoi suoni grassi violando la sua inclinazione al silenzio, come l'avesse preparata in vita per sentirla suonare nell'eternità.
Paolo è morto, camminiamo a testa bassa nei viali del Policlinico, alla ricerca della camera mortuaria, piove. Siamo in tre, uno di noi ha preso un'altra strada e si è perso di vista. Entriamo in un padiglione, c'intrufoliamo e troviamo il letto, c'è il lenzuolo da scoprire... Candido, rasato e col volto così simile a quel giglio bianco s'incastona il corpo magro del nostro fratello. Giuro, giuro che la porteremo sulla tua tomba, sarà guarnita come per le grandi occasioni, ma essenziale, perché la vittoria, quando la conquisti, non ha bisogno di commenti, né di labari, saluti, fronzoli. Lei è così, all'improvviso ti cade in braccio, quando meno te l'aspetti, quasi non ti viene voglia di festeggiare tanto ti appaga... No, non l'abbiamo ancora spuntata.
Non ti muovere da lì. Buon compleanno, soldato Paolo.