martedì 3 settembre 2013

Da Parigi. In piazza con i cinquemila veilleurs: la controrivoluzione “silenziosa”


a cura di Federico Campoli
Dopo alcune difficoltà con la lingua, riusciamo finalmente ad incontrare Jean e Claire, due degli organizzatori della Grande Marcia dei Veilleurs. Ci ritroviamo sotto l’Arch de la Defense e, da dove siamo noi, si vede perfettamente l’Arc de Triomphe. Quello è il nostro percorso. Anzi, a dire il vero, dobbiamo andare ancora oltre, fino a Place de la Concorde, dove è prevista la Grande Veglia di fine marcia. Dobbiamo camminare per oltre sette chilometri. Jean ci dice che la Prefettura ha interdetto la manifestazione. Nonostante ciò, nessuno tra iveilleurs ha intenzione di tornarsene a casa. In ogni caso, spiega che non si tratta di una novità.
I “veglianti” non chiedono mai autorizzazioni, per il semplice motivo che non organizzano delle vere e proprie manifestazioni. Sedersi in un giardino o ai margini della strada, leggendo passi di libri e intonando canzoni può effettivamente essere considerata una “manifestazione”? Se la risposta è “sì”, allora la prossima volta che farete un pic-nic con i vostri amici chiamate prima la Questura per avvertirla.
In ogni caso, la Prefettura, anche qualora giunga la richiesta per manifestare, non darebbe comunque il via libera ad alcuna iniziativa. Jean dice che la polizia proverà a bloccare la nostra avanzata e che le cose potrebbero non finire bene. Per questo ci consiglia di scriverci sul braccio il numero del nostro avvocato e dell’Ambasciata italiana. Si tratta di una pratica comune, ormai, per i manifestanti che si oppongono alla legge Taubira del governo Hollande. La polizia, infatti, priva i fermati di telefoni cellulari e qualunque altro oggetto possiedano al momento del fermo. Jean spiega anche che, visti i presupposti poco rassicuranti, la marcia fino a Place de la Concorde si svolgerà principalmente in piccoli gruppi, così da rendere più difficile la cattura. Inizia così, in piccoli raggruppamenti di sei o otto persone  alla volta che camminano silenziosamente verso la meta. Dopo poco bisogna attraversare il ponte sulla Senna. Da lì in poi, tutte e 5mila le persone che stavano tentando di non dare nell’occhio si ritrovano in fila, attaccati l’uno all’altro.
polizia
In pochi minuti, una decina di camionette della polizia cominciano a sfrecciare avanti e indietro sull’Avenue Charles de Gaulle. Addirittura, una barchetta delle forze dell’ordine ci sorveglia dal fiume parigino. Terminato il ponte, il corteo si divide. Alcuni continuano sulla strada principale, il nostro gruppo e altri, invece, prendiamo una parallela. Presto la polizia blocca entrambe le strade. C’è tensione nell’aria. Lo spirito notoriamente pacifico e silenzioso dei veilleurs viene messo a dura prova. Dopo qualche secondo, la polizia decide di indietreggiare, lasciando spazio alle sentinelle. A questo punto, come già era ovvio, non c’è più motivo di rimanere nascosti. Usciamo tutti allo scoperto, nuovamente sull’Avenue Charles De Gaulle. Nel frattempo, cominciamo a fare qualche domanda qua e là. Chiediamo come mai la polizia si dia tanto da fare per bloccare una manifestazione pacifica. La risposta è semplice e disarmante. “Il nostro ministro dell’Interno (Manuel Valls n.d.r.) ci odia. Non ci vuole” rispondono Jean e Claire. In realtà, spiegano i nostri interlocutori, una gran parte dei poliziotti sostiene e appoggia la lotta dei manifestanti. Purtroppo, però, devono seguire degli ordini imposti dall’alto. Ci spiegano poi che le caratteristiche fondamentali dei veilleurs sono “silenzio e discrezione”.

Riusciamo a parlare anche con alcune persone che semplicemente partecipano alla marcia. Questi chiedono come vanno le cose in Italia e si dimostrano tutti entusiasti della nostra presenza in Francia per l’evento. Poi raccontano di come la lotta francese sia tutt’altro che finita. Anzi, forse è proprio ora che iniziano i tempi più duri. Dopo qualche minuto, arriviamo a Place de la Port Maillot. Lì veniamo nuovamente ostacolati dagli agenti. Un grande cordone di poliziotti e camionette bloccano la strada. Così decidiamo ancora una volta di prendere una via parallela. Da quel momento in poi, ci avventuriamo per le vie interne di Parigi, lontani dalle grandi strade. Entro poco tempo, il corteo si divide nuovamente. Ci ritroviamo praticamente soli con Jean, Claire e altri due veilleurs. Arriviamo sull’Avenue de Ternes e arriviamo fino all’Avenue de Wagram. Da lì, prendiamo stradine sempre più lontane dal traffico e dalla polizia. Nel frattempo, troviamo la tranquillità necessaria per fare due chiacchere con le nostre “guide”. Ci spiegano tutto. Claire dice cosa sta succedendo in Francia. Racconta di come le nuove generazioni si stiano ribellando ai diktat del maggio del ’68 e che, adesso, è in atto una vera e propria controrivoluzione. Un termine che ormai non si sentiva più dai tempi della Vandea. Ma questa volta, non è semplicemente una guerra tra cattolici e giacobini. Per rispondere alla domanda su quali siano le formazioni da battaglia, bisogna citare le parole di un vegliante ai giornalisti: “Non so quanti veilleurs ci siano oggi, qui ci sono solo uomini liberi”. Continuiamo ad addentrarci tra le varie vie parigine. Chiedo a Jean se sia mai stato fermato dalla polizia. Mi risponde di sì, e mi racconta delle sue 23 ore di “garde a vue” (stato di fermo), per aver semplicemente partecipato ad una veglia.
veille
Per sciogliere un po’ la tensione cominciamo a parlare del più e del meno. Uno di noi nota il rosario che una ragazza del gruppo porta legato alla cintura, e che accuratamente finisce nella sua tasca. Anche qualcuno tra noi italiani ne ha uno. Entrambi mostrano il proprio e si scambiano i vari convenevoli sul dove lo aveva preso o se appartenesse a qualche associazione cattolica. Jean, però, dopo aver osservato il rosario, ci consiglia di rimetterlo in tasca o sotto la maglietta. Scherzando, gli chiediamo se la polizia possa creare qualche problema anche sul simbolo religioso. Risponde una smorfia, per farci capire che sarebbe meglio così. Non si sa mai. Mentre camminiamo, gran parte della manifestazione arriva a Place de la Concorde. Lì, ad attenderli, c’è un importante dispiegamento delle forze dell’ordine. Jean e Claire vengono continuamente aggiornati telefonicamente. Ci dicono che la polizia ha chiuso la piazza e che, adesso, ci sono ben sessantaquattro camionette a presidio della zona. Gli agenti hanno sgomberato l’area sotto gli occhi dei turisti. I veilleurs non possono entrare. Tramite Twitter, riusciamo ad apprendere che un’intera compagnia di poliziotti è stata mobilitata per noi. Ma ancora, non è volata una sola parola storta da parte dei manifestanti. Nessun incidente. Nessuno slogan. Silenziosi e pacifici. Ma determinati.

I nostri accompagnatori chiamano la Prefettura chiedendogli di liberare la piazza per far entrare i veilleurs. Avviano un negoziato. Alla fine le forze dell’ordine liberano l’ingresso. Alle 22:00, dopo ben quattro ore e mezza di cammino (per un percorso che ne richiede al massimo due), riusciamo anche noi ad arrivare in piazza. La veglia è cominciata da pochi minuti. Appena mettiamo piede a Place de la Concorde vediamo le camionette della polizia, con lampeggianti e sirene accese, circondare l’area. I mezzi sono anche di più di quanti ci avevano detto. In piazza c’è sia la polizia, che la Gendarmeria (che in Francia sono un po’ come i nostri carabinieri). Nonostante tutto, prendiamo parte alla veglia. Quasi 3000 persone sono sedute per terra, al freddo e circondati da agenti in tenuta anti-sommossa. Davanti a ciascuno di loro una candela. A turno, gli organizzatori, in piedi davanti alla piazza, declamano passi di un libro, o raccontano la propria testimonianza. “Questa è una rivoluzione che parte dalla cultura” ci spiega Gaultier Bés, uno dei ragazzi che hanno dato vita ai Veilleurs. Gli chiediamo se, prima di dare vita a questa organizzazione, si aspettava un simile successo. “Assolutamente no, – dice Bés – noi non combattiamo per ottenere un risultato. Combattiamo perché dobbiamo”.
La veglia rimane in piazza ad oltranza. L’obiettivo è di trovare un accordo con la polizia e lasciare la postazione solo nel momento in cui siano gli agenti stessi a sgomberarla. Una vera e propria resistenza pacifica. Alla fine la veglia si conclude senza incidenti. Ma dopo tutto, mentre da un lato ci sono giovani che, sempre più numerosi, agognano a nient’altro che ai valori dei propri padri, viene sempre più da chiedersi cosa in questa Europa sia andato (e continui ad andare) storto.

lunedì 2 settembre 2013

Cultura. I quarant’anni dalla morte di Tolkien genio creatore del mondo hobbit

da barbadillo.it
Quarant’anni fa il creatore dell’epopea del Signore degli Anelli ci lasciava. Usando la terminologia del suo mondo fantastico, abbandonava la Terra di Mezzo partendo dai Rifugi Oscuri diretto, forse, a Valinor, il Reame Beato. Dove avrà potuto ricongiungersi con i suoi amici Frodo, Bilbo e Gandalf.
John Ronald Reuel Tolkien si spense il 2 settembre del 1973 a Bournemouth, sulla costa meridionale dell’Inghilterra, alla veneranda età di ottantun’anni. La sua fortuna letteraria e l’incredibile avventura che coinvolgerà i suoi milioni di fan in tutto il mondo era invece cominciata trentasei anni prima, sempre nello stesso mese: era esattamente il 21 settembre del 1937 quando venne dato alle stampe Lo hobbit, il romanzo di Tolkien che nel corso del tempo avrebbe rivoluzionato la letteratura d’evasione (come si definiva a suo tempo) e creato il genere fantasy, liberandolo dagli angusti confini della narrativa per ragazzi. E che iniziava con il celebre incipit: «In un buco del terreno viveva uno hobbit».
Come spesso accade, la prima opera di Tolkien venne concepita un po’ per caso, alla fine degli Anni Venti: l’autore racconterà di aver trovato il foglio bianco di un alunno e di averlo riempito, quasi per scherzo, con la frase che diventerà poi l’incipit della più famosa “saga” moderna. Poco a poco la storia venne fuori da sé, anche grazie alla fantasia sviluppata dalle favole che il professore di Oxford inventava per i suoi figli.
Lo hobbit non era propriamente un racconto per l’infanzia, ma è curioso il ruolo giocato dai bambini nella sua creazione e diffusione:  a convincere la Allen & Unwin a pubblicare il libro fu infatti la “recensione” del figlio di uno degli editori, Rayner Unwin, che aveva appena dieci anni: il padre gli faceva spesso leggere i manoscritti dei romanzi per l’infanzia, in modo da tastare il polso dei piccoli lettori, ricompensandolo poi con uno scellino. E il giudizio su Tolkien fu estremamente positivo. La prima edizione fu stampata in 1500 copie, illustrata da disegni in bianco e nero dello stesso autore, ma già a dicembre era andata esaurita. L’anno successivo venne pubblicata un’edizione di The Hobbit negli Stati Uniti, con illustrazioni a colori, ma lo stato di crisi pre-bellico e la scarsità della carta in quegli anni ne rallentarono la diffusione. Fu solo nei primi Anni Cinquanta che il romanzo di Tolkien conobbe un robusto successo di pubblico nei Paesi anglosassoni, amplificato e moltiplicato dall’uscita della trilogia Il Signore degli Anelli.
Per leggere la versione integrale in italiano bisognerà invece aspettare il 1970, quando il direttore editoriale della Rusconi, Alfredo Cattabiani, decise di pubblicarlo su consiglio di Elémire Zolla e affidò la cura del volume a Quirino Principe: tre nomi che in quegli anni iper-politicizzati erano considerati “reazionari” dall’intellighenzia di sinistra. Basterà ciò per metterlo all’indice. Il fatto poi che si trattasse di un romanzo “fantastico” e non sociale o realistico o intimistico, e che fosse ambientato in uno pseudo-medioevo, come si disse, fornì altri spunti per condannarlo.
Tant’è vero che da noi a contribuire al grande successo di Tolkien furono i giovani di destra, che ne fecero una sorta di bandiera culturale e ideologica da contrapporre ai tanti miti rivoluzionari sfornati dai coetanei di sinistra.  Come dimenticare i “Campi Hobbit”, organizzati a fine Anni Settanta dai giovani dell’ala rautiana dell’Msi? Oppure i gruppi musicali alternativi che si richiamavano al mondo tolkieniano (La Compagnia dell’Anello, La Contea, Hobbit)? Ad affascinare i ragazzi neofascisti non era solo lo straordinario mondo alternativo creato dallo scrittore inglese, ma anche gli ideali forti che restano sullo sfondo dell’opera: eroismo, sacrificio, dedizione, cameratismo, patriottismo. Curiosamente, invece, negli Stati Uniti l’epopea tolkieniana ha conquistato soprattutto gli hippy, che ne hanno sottolineato il carattere libertario, il tema del viaggio, la lotta contro il potere.
Ma torniamo indietro di oltre settant’anni. Nel 1937 John Ronald Reuel Tolkien, nato in Sudafrica nel 1892 ma di nazionalità britannica, era solo un tranquillo docente universitario di filologia inglese ad Oxford, dove gli era stata affidata la cattedra di lingua inglese e letteratura medievale. In realtà Tolkien aveva avuto la sua parentesi d’azione: scoppiata la Prima Guerra mondiale, nel 1916, subito dopo aver sposato l’amata Edith, si era arruolato volontario nei Lancashire Fusiliers. Venne mandato in sul fronte occidentale  e partecipò anche alla Battaglia della Somme, dove alcuni fra i suoi migliori amici persero la vita; in seguito si ammalò e gli fu concesso il ritorno in patria. Da allora la sua vita fu contrassegnata da una serena routine: casa, università, libri, famiglia e passeggiate nella campagna inglese.
Nella sua testa, però, fin dai primi Anni Venti, comincia a manifestarsi e a crescere un mondo fantastico fatto di gnomi e fate, elfi e guerrieri, orchi e creature fiabesche. Quasi inconsciamente Tolkien dà vita ad una vera cosmogonia, immaginandosi un universo parallelo, simile ma al tempo stesso diverso dal nostro, dai suoi albori fino a una specie di medioevo. Il suo desiderio, spiegherà in seguito, era da un lato di dare all’Inghilterra una vera e propria mitologia, simile a quella del mondo greco-romano o dei popoli nordici; dall’altro sviluppare una letteratura epica e fiabesca da attribuire ai popoli che parlavano le sue lingue inventate.
Non pura e semplice  letteratura d’intrattenimento, quindi. E tanto meno fiabe per bambini. Il mondo de Lo hobbit e de Il Signore degli Anelli è prima di tutto un meta-racconto, in cui il variopinto e composito universo tolkieniano è contrassegnato da una mitologia simbolica che offre al lettore qualcosa che va al di là dell’avventura di un gruppo di personaggi inventati.
«Tolkien si può legittimamente definire e considerare un autore tradizionale – ha scritto Gianfranco De Turris, uno dei più importanti critici di letteratura fantasy e fantascientifica – Ma di quale tradizione? (…) Senza ombra di dubbio la sua formazione è cattolica, ma – lo disse in modo chiaro – scrivendo Il Signore degli Anelli non volle farne esplicitamente un’opera religiosa: non si parla mai di riti, di divinità, di espressioni evidenti di spiritualità, tanto meno di quelli cristiano-cattolici. Tutto è invece implicito nella sostanza dell’opera, tutto sta nel retroterra, nel sottofondo. E questo retroterra, questo sottofondo è un amalgama inestricabile di tutta la sua formazione interiore: di cattolicesimo e di paganesimo, di Vangelo e di Edda, così come di romanzi arturiani e di saghe islandesi, di mitologia germanica e di riferimenti celtico-irlandesi. (…) Per questo Il Signore degli Anelli, e gli altri testi che gli fanno da contorno, è importante: proprio per l’originale amalgama di tradizioni diverse portate a dignità di romanzo adatto ai moderni in pieno Ventesimo secolo».
Al di là delle interpretazioni politiche che hanno dato critici e lettori, Tolkien non prese mai una posizione ideologica chiara. Era un moderato conservatore, antimoderno e amante della natura: nella sua descrizione di Mordor taluni hanno voluto vedere la Germania nazista, altri l’Unione Sovietica; ma potrebbero esserci ancora altre interpretazioni. Lui stesso ha più volte stigmatizzato gli eccessi del capitalismo moderno e dell’industrializzazione, nonché il ruolo degli Stati Uniti quale guida del mondo. In una delle sue lettere agli amici, poi pubblicate, dichiarava di appartenere «alla parte dei sempre sconfitti, mai sottomessi».

mercoledì 28 agosto 2013

Siria. Da Meloni ad Emergency i “no” alla guerra. A sinistra? Sì alle bombe se c’è l’Onu


da barbadillo.it
C’è chi dice “no”. Dinanzi alla crisi siriana – e alla cappa di disinteresse che la politica ufficiale italiana sta dimostrando sulla vicenda – c’è chi il problema dell’eventuale coinvolgimento militare dell’Italia se lo pone. Se da una parte, infatti, sono i “problemi” di natura interna (“cade o non cade il governo?”) a interessare i maggiori partiti della coalizione di larghe intese (che quindi delegano le faccende di politica estera agli “addetti ai lavori”, vedesi ministero degli Esteri della Bonino, come se la questione sia “diplomatica”), dall’altra esistono realtà che non rinunciano a ragionare politicamente sui perché di una crisi regionale e internazionale allo stesso tempo che l’intervento militare potrebbe peggiorare e rendere cronica invece che risolvere.
Attenzione però. Questa volta – a differenza dell’intervento in Afghanistan e in Iraq – il fronte degli scettici rispetto all’opzione militare non vede più in prima linea movimenti, sinistra radicale e quotidiani nazionali della gauche. Così come le tematiche: non più un pacifismo di maniera si contrappone alla guerra in Siria, ma ragionamenti che mettono in mezzo il rispetto per la sovranità, opportunità politica e geopolitica. Un chiaro “no”, ad esempio, è arrivato da Fratelli d’Italia che ha spiegato come il partito «non intenda avallare alcun intervento militare in Siria». Il no al coinvolgimento militare, come ha spiegato Giorgia Meloni, coincide con il fatto che «l’Italia ha già pagato il sostegno ai suoi alleati quando è stato necessario e giusto farlo, come nei conflitti in Iraq e in Afghanistan, esattamente come già contribuiamo attivamente a numerose missioni Onu, come in Libano e in Kosovo». Il punto è che adesso non è chiara «quale sia la strategia che Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti vogliono adottare in Nordafrica e in Medio Oriente». Secondo Fratelli d’Italia, allora, ci sarebbe un disegno (nel quale l’Italia non viene oltretutto coinvolta, tutt’altro) dietro l’accelerazione unilaterale a sostegno dei “ribelli” siriani, lo stesso già eseguito sul Maghreb: «Con l’intervento militare in Libia e il sostegno alle cosiddette “primavere arabe” si è fin qui ottenuto solo il risultato di destabilizzare l’area e rafforzare l’integralismo islamico. È quello che accadrebbe anche con un intervento militare in Siria. Il sospetto che queste grandi e piccole potenze militari siano mosse dalla volontà di accrescere la propria influenza geopolitica nell’area e che in nome di questo trascurino le conseguenze di medio e lungo periodo del loro agire è purtroppo sempre più forte, anche agli occhi di osservatori solitamente prudenti».
Sempre dal centrodestra – ma dal Parlamento europeo – è il deputato del Pdl Sergio Berlato a schierarsi apertamente contro la guerra: «Mi auguro che la coalizione di potenze occidentali con a capo l’amministrazione di Barack Obama desista dall’intenzione di intervenire militarmente in Siria, perché questo porterebbe a una spirale di conflitti non calcolabili e dalle conseguenze certamente catastrofiche per le popolazioni civili coinvolte, peraltro mettendo a repentaglio anche la sicurezza collettiva e la legalità in Europa». Berlato anzi, a proposito di Siria, ha rilanciato il tema sovranista: «Il nostro ruolo deve essere quello di difesa della sovranità delle nazioni e dei popoli, e Nashar Assad è il leader di un governo laico e legittimo di un Paese che da tempo sta cercando di combattere e arginare fronde qaediste supportate dalle potenze occidentali ed è ostile al fondamentalismo islamico». L’augurio insomma è quello di non incorrere «negli stessi errori del passato, quando  Bush jr, con documentazioni poi rivelatesi inattendibili, sferrò un attacco all’Iraq di Saddam Hussein».
Sul fronte pacifista è Emergency – la storica organizzazione umanitaria di Gino Strada – a stigmatizzare l’eventuale ingresso del nostro Paese fra gli interventisti:
«L’Italia rifiuti l’intervento armato e si impegni invece per chiedere alla comunità degli Stati l’immediato intervento diplomatico, l’unica soluzione ammissibile secondo il diritto internazionale, l’unica in grado di costruire un processo di pace che abbia come primo obiettivo la tutela della popolazione siriana, già vittima della guerra civile».Stupisce, invece, il silenzio della sinistra radicale sull’argomento: nessuna manifestazione, nessun appello, nessun “allarme” lanciato dai movimenti che per anni hanno riempito le piazze contro “interventi” del genere. Di routine, infatti, vi è stata la dichiarazione di Sel che ha spiegato di essere «contraria ad un intervento armato, per quanto limitato o chirurgico che sia», a maggior ragione «al di fuori della cornice di legittimità fornita dalle Nazioni Unite, che rischia di far precipitare l’intera regione in una tragica spirale di violenza». Insomma, se dovesse dire di sì l’Onu anche il partito di Vendola e Boldrini accetterebbe l’intervento. Eh già, finiti i tempi in cui la sinistra italiana brandiva “senza se e senza ma” la Costituzione, quella che «ripudia la guerra…».

martedì 27 agosto 2013

L’evento. Ad Atreju arriva Giovanni Lindo Ferretti: “Niente di eclatante, a parte l’esistere”


da barbadillo.it
Ricominciare l’anno politico con una “preghiera”, quella delle nuove generazioni che vogliono scacciare demoni, andando oltre pregiudizi e steccati ideologici è possibile. A dimostrarcelo sono i ragazzi di Atreju, che incontrano Giovanni Lindo Ferretti in occasione del consueto appuntamento d’intrattenimento, approfondimento e spettacoli arrivato alla quindicesima edizione. Il dibattito col cantautore emiliano – poliedrico esponente della scena indipendente italiana (leader storico dei Cccp, poi Csi e infine dei Prg) – avverrà mercoledì 11 settembre, al Parco del Celio a Roma.
«La Libertà un doveroso pericolo in verità» questo l’epitaffio con cui terminava, grido da punkettone, la canzoneOrfani e vedove dei Per Grazia Ricevuta, era il 2004. A distanza di quasi dieci anni di vita vissuta, l’autore è finalmente libero. Libero di poter affermare la sua verità di fronte ad ogni platea, persino di ricevere ed accettare l’invito dei giovani militanti del partito Fratelli d’Italia, nato per scommessa sul futuro dalle macerie del centrodestra italiano.
Che Giovanni Lindo Ferretti non fosse icona esclusiva dei collettivi universitari e delle generazioni eredi più o meno convinte del Sessantotto, non è certo la novità dell’estate. A ben vedere, la frattura con quegli ambienti si era delineata già da tempo, all’epoca della guerra di Jugoslavia «e nessuno fece nulla», quando dichiarò i suoi non più voti alla sinistra. Anche nella vita privata dell’artista avvengono cambiamenti significativi: la pacificazione familiare e il ritorno a casa, il rapporto con la fede cattolica e la scoperta delle tradizioni di montagna. Elementi che non hanno giocato un ruolo secondario nel suo nuovo modo di pensare e fare musica.
Tracciata la spessa linea di demarcazione Giovanni Lindo Ferretti nel 2006 che dichiara il suo voto per la lista di centrodestra “Aborto? No grazie” e poi per la Lega Nord. Per alcuni furono dichiarazioni traumatizzanti, per altri naturali tappe di una coraggiosa ricerca interiore che non fanno però dell’artista l’alfiere di una certa destra conservatrice o liberale. Affinché non si cada ancora nell’errore di volerlo ridurre in un pensiero valido per l’uno e non per l’altro, occorre sempre tenere a mente la vocazione alla libertà ed il disprezzo per le etichette che sono cifra della sua unicità nel panorama musicale contemporaneo.
Nel dibattito ad Atreju – in linea con il tema dell’edizione, la “Terza guerra”, ossia la grande finanza contro i popoli – saranno toccati diversi temi tra cui quelli sulla modernità progressista regnante, il relativismo culturale, la famiglia come centro di rilancio della società, la fede e il senso di tutto questo nell’era tecnologica.

In Germania arriva il terzo sesso...



da Rai News 24
 
Uomo e donna. Presto, in Germania, concetti superati: la definizione del sesso sara' facoltativa e nell'atto di nascita, ove fosse 'indeterminato', se ne potra' omettere la precisazione e lasciar vuota la casella. Accanto ai classici 'm' o 'f' potrà eventualmente figurare una 'x' per indicare il genere 'intersessuale'.
 
Lo prevede una legge varata dal governo tedesco a maggio, che entrera' in vigore il primo novembre e che fa della Germania il primo paese europeo a decidere un tale cambio paradigmatico. Finora l'Australia era il solo paese al mondo ad avere introdotto una normativa del genere.
 
La legge è passata in sordina e a richiamarvi l'attenzione è stata la Suddeutsche Zeitung (SZ) in un articolo venerdi', ripreso ora dal settimanale Focus, che ne sottolinea la portata storica per la societa'. E' una ''rivoluzione giuridica'', finora la legge parlava ''solo di uomini e donne, e basta'': ora, scrive, ''c'e' anche un 'sesso indeterminato', la cosa potrebbe creare dei problemi in alcune situazioni''.
 
A richiamare l'attenzione del quotidiano è stato un articolo pubblicato della Rivista per il diritto di Famiglia (FamRZ) che parla della nuova legge e della nuova figura del ''sesso indeterminato''. L'individuo 'intersessuale', classificato cosi' alla nascita, potra' successivamente decidere se registrarsi come 'm' o 'f', oppure anche rimanere tutta la vita senza una specificazione del sesso.
 
I giuristi parlano di una nuova figura, ''uno status specifico'': non dicono ''terzo genere'' ma di fatto, scrive il quotidiano liberal di Monaco, ''di questo si tratta''. Fin qui tutto bene ma i problemi cominciano con i documenti: passaporti, carte di identita', visti, ecc. che non prevedono altri codici oltre a 'f' e 'm'. La FamRZ propone di introdurre per i documenti personali la 'x', da affiancare al sesso maschile e al femminile, per indicare il genere 'intersessuale'.
 
Con la nuova legge il legislatore tedesco ha reagito a una sentenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto come espressione dei diritti della personalita' la distinzione fra il sesso ''percepito e vissuto''. Il nuovo diritto, precisa la SZ, riguarda la ''intersessualita''', diversa dalla "transessualità". I transessuali sono persone con un sesso definito, maschi o femmine, che si sentono pero' appartenere all'altro sesso e come tali voglio essere riconosciute.
 
Gli intersessuali sono invece persone che non hanno precise connotazioni fisiche sessuali e sono comunemente definiti 'ermafroditi'. Citando l'esperto Wolf Sieberichs, la SZ scrive che con la nuova legge potrebbero pero' insorgere problemi di vario genere: ad esempio per le unioni dello stesso sesso, previste appunto solo per persone dello stesso sesso: che significa questo?, si domanda.
 
Che le persone con sesso indeterminato potranno stringere un'unione solo con persone di genere altrettanto indeterminato? Tutti aspetti questi che tocchera' al Parlamento o alla Corte costituzionale chiarire: è necessaria una ''ampia riforma'', ha annunciato al giornale il ministro della Giustizia, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, del partito liberale (Fdp). Ma non finisce qui: la rivoluzione giuridica porterebbe con sè anche un rivoluzionamento semantico del linguaggio.
 
''La dualita' linguistica della nostra societa' è finita'', d'ora innanzi si puo' rinunciare - propone Siebrichs - ai titoli di genere: in una lettera o un certificato non bisogna per forza indicare prima del nome 'Signore' o 'Signora', se ne potrebbe benissimo fare a meno se l'interessato è d'accordo.

mercoledì 7 agosto 2013

Atreju 2013


Abbiamo scelto di non combattere guerre se non in suoli diversi dal nostro 
e permettendo agli altri di utilizzare il nostro per bombardare gli altri.
Ed è per questo che la vera terza guerra si combatte contro i poteri forti, 
le oligarchie finanziarie che calpestano la sovranità, 
che spacciano per reale il virtuale, che mischiano le carte per confondere le idee ma, come disse 
Chesterton "Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi"
All'Armi!

martedì 6 agosto 2013

L'ordine scellerato della sinistra: dimenticare le vittime delle Foibe


da ilgiornaleditalia.org
Nella Roma di Marino si punta a cancellare il segno dell'esilio giuliano-dalmata. Storace: 'Spettacolo squallido, ennesimo schiaffo alla Storia del nostro Paese'
Cancellare la Casa del Ricordo. O quanto meno renderla marginale, farla ricadere in quel tunnel della storia dalla quale era stata tratta fuori a fatica, dopo decenni. Un macabro parallelo con quella fine che tanti italiani hanno conosciuto, nel profondo di una foiba. E' la storia che arriva dal Municipio I di Roma 
"La Roma di Ignazio Marino si  e’ esibita  con uno squallido spettacolo nel municipio più importante; infatti, la  bocciatura da parte della maggioranza che sostiene la  presidente Alfonsi  dell’emendamento che prevedeva di inserire nelle politiche del  Municipio  I  delle collaborazioni con istituzioni storiche, come la Casa della Memoria e la Casa del Ricordo,  e’ l’ennesimo  schiaffo alla storia del nostro Paese.  
Dimenticare  le vittime delle foibe non  può più rappresentare oggi  solo il becero cinismo che ha contraddistinto la storia della sinistra italiana,  ma bensì un atto barbaro di disumana gravità che va condannato senza esitazioni.
Oggi, con la decisione del Municipio I,  ritorna  l’oblio sul sangue versato…"
E' quanto dichiara in una nota Francesco Storace, segretario nazionale de La Destra 
"La Roma di Ignazio Marino si  e’ esibita  con uno squallido spettacolo nel municipio più importante; infatti, la  bocciatura da parte della maggioranza che sostiene la  presidente Alfonsi  dell’emendamento che prevedeva di inserire nelle politiche del  Municipio  I  delle collaborazioni con istituzioni storiche, come la Casa della Memoria e la Casa del Ricordo,  e’ l’ennesimo  schiaffo alla storia del nostro Paese.  Dimenticare  le vittime delle foibe non  può più rappresentare oggi  solo il becero cinismo che ha contraddistinto la storia della sinistra italiana,  ma bensì un atto barbaro di disumana gravità che va condannato senza esitazioni.Oggi, con la decisione del Municipio I,  ritorna  l’oblio sul sangue versato…", dichiara in una nota Francesco Storace, segretario nazionale de La Destra 
Sergio Marchi, capogruppo de La Destra nel parlamentino del centro storico, ricostruisce la vicenda: "La maggioranza di centro sinistra, o più esattamente di sinistra centro vista la presenza nel governo locale di Sel e Lista civica per Marino insieme al Pd, ha presentato al consiglio del primo Municipio, o come si chiama ora Municipio centro storico, le proprie linee programmatiche. Un libro dei sogni, con alcune ‘perle’ come la pedonalizzazione forzata dei Fori imperiali, rispetto al quale abbiamo espresso convintamente il nostro voto contrario. Qualche emendamento dei tanti presentati dall’opposizione è stato pure accolto, ma proprio qui è intervenuto un fatto grave, che denunciamo dalle colonne del Giornale d’Italia e rispetto al quale chiediamo allo stesso Sindaco di porre prontamente rimedio. Nel programma di consiliatura che ci è stato dato, nelle politiche culturali veniva citata la valorizzazione della Casa della Memoria, mentre nessun cenno si faceva alla Casa del Ricordo, struttura presente e funzionante proprio nel territorio del primo Municipio, dedicata al dramma troppo spesso dimenticato degli Italiani caduti vittime nelle Foibe per mano delle truppe comuniste del maresciallo Tito. Ripetiamo per l’ennesima volta che non si tratta di fare confronti o paragoni tra drammi tra di loro non confrontabili, ma di ricostruire il più possibile una memoria storica condivisa per creare finalmente una coscienza nazionale che superi le barriere ideologiche di un interminabile dopoguerra. Proprio grazie al Segretario de La Destra Francesco Storace, all’epoca alla guida della Regione Lazio, venne introdotta la Giornata del Ricordo, che si celebra il 10 Febbraio; ora quella giornata è tutelata da una Legge nazionale, votata con una larga maggioranza trasversale dal Parlamento italiano. La Destra insieme alle altre forze di centrodestra presenti in Municipio, Fratelli d’Italia e PDL, ha sottoscritto un emendamento per rimediare alla omissione della maggioranza, ed inserire anche la Casa del Ricordo tra le strutture da valorizzare nell’ambito del territorio, e più in generale del circuito culturale cittadino. Risultato? Il Pd si astiene, ma guarda caso Sel e la Lista civica per Marino votano contro, insieme al Movimento Cinque stelle, e l’emendamento è bocciato. Una brutta pagina per la democrazia, e un segno che una certa sinistra ideologica è dura da sconfiggere. Iniziamo male, e ricordiamo a tutti che chi governa oggi a Roma rappresenta il 65 per cento dei votanti al ballottaggio, quindi non più del 25 per cento dei Romani. Su temi così delicati, è presunzione grave pensare di poter decidere per tutti, con il rischio di riaprire ferite che vogliamo per sempre chiuse. Chiediamo alla sinistra più responsabile e democratica di rimediare all’errore, se di errore si tratta. Siete ancora in tempo. Se no, l’errore diventerà una scelta politica, e nessuno ci potrà chiedere di rinunciare a lottare con tutte le nostre forze per difendere la memoria di tutti gli Italiani, e dunque per la nostra libertà", conclude Marchi.