domenica 11 settembre 2016

Ahmad Massud, l’eroe afghano massacrato dai terroristi due giorni prima dell’11 settembre


da corriere.it

Quindici anni fa moriva assassinato sulle montagne del Panjshir il leggendario leader che combattè prima i sovietici e poi i talebani. La sua figura resta ancora oggi un punto di riferimento per chi sogna un Afghanistan libero

Una visione profetica

«I governi europei non capiscono che io non combatto solo per il mio Panjshir, ma per bloccare l’espansione dell’integralismo islamico scatenato a Teheran da Khomeini. Ve ne accorgerete!». Si direbbero profetiche le parole del condottiero afghano ucciso in un agguato il 9 settembre del 2001, a soli due giorni di distanza dal terribile attacco all’America che sconvolse il mondo e mutò per sempre gli equilibri internazionali. E certo Massud aveva visto da vicino la possibile deriva dell’integralismo islamico con l’avvento dei talebani nel suo amato Afghanistan, la patria già profondamente divisa da contrasti etnici e spezzata dall’invasione sovietica, il Paese senza una guida né disegno unitario, bisognoso di una leadership forte, che solo un condottiero come lui, «Leone del Panjshir», avrebbe potuto offrire. Proprio lui, nato nel 1953 in un villaggio nel Nord del Paese da una famiglia sunnita di etnia tagika, studente del prestigioso Lycée Esteqlal di Kabul e poi del politecnico cittadino, attivista dei Giovani musulmani fedeli al professor Burhaddin Rabbani, primo germe dell’opposizione all’influenza sovietica che iniziava a serpeggiare nel Paese. Negli Anni ’70 la scelta di diventare combattente, guidato nella sua battaglia dal sogno di vedere il proprio Paese libero, sovrano e indipendente, nel rispetto delle antiche tradizioni culturali e spirituali della sua terra e, naturalmente, secondo i precetti dell’Islam. Un uomo integro, che amava la poesia e gli scacchi, un leader carismatico seguitissimo dal proprio popolo e oggi amaramente rimpianto, un musulmano osservante ma lontano dal fondamentalismo, uno stratega militare molto diverso dai tanti signori della guerra che tra gli Anni ’70 e 2000 hanno popolato l’Afghanistan, e proprio per questo amato e protetto dai propri soldati, a cui diceva: «Siete miei soldati, comportatevi con onore. Trattate la gente con cortesia. Non tollero né violenze né stupri, né rapine. Sapete quel che vi aspetta in caso contrario» La sua morte è stata oscurata dall’immane tragedia delle Twin Towers, ma molti osservatori hanno visto nella quasi contemporaneità dei due eventi ben più di una semplice coincidenza, ascrivendoli entrambi alla macchina terroristica di Al Qaeda e a un piano comune per destabilizzare gli equilibri internazionali e di quella specifica area «calda» del mondo. Testimone diretto dell’azione e della vita del «Leone del Panjshir», e col tempo suo amico personale, è stato l’inviato speciale del «Corriere della Sera» Ettore Mo, che ricorda così il loro primo incontro e quella figura così leggendaria da ricordare gli eroi letterari del passato: «Al tempo del nostro primo incontro, nell’81, l’ex studente universitario fuori corso aveva appena 26 anni ma era già leggenda: che le epiche battaglie dei mujaheddin contro gli “sciuravi” — i russi — avrebbero via via ingigantito. Ricordo un giovane piuttosto schivo e taciturno, un volto pallido affilato, gli occhi grandi e scuri, quasi sempre offuscati da un velo di malinconia. Niente d’altero o d’autoritario nella sua persona, sapeva imporsi grazie alla sua forza interiore, impartiva ordini quasi senza parlare, gli bastavano gli occhi e un gesto sbrigativo nella mano per dire ai suoi ragazzi cosa fare, dove andare». 

Massud giovane rivoluzionario

Per capire cosa abbia significato Ahmad Shah Massud in Afghanistan e sullo scacchiere internazionale, bisogna fare un passo indietro nella storia del Paese e tornare al tempo della divisione del mondo nei due blocchi antagonisti occidentale e sovietico, con l’Urss che — anno dopo anno — espandeva la propria area d’influenza verso ovest e verso sud. Nella Kabul degli Anni ’70 Massud e un’intera generazione di studenti legati alle proprie tradizioni religiose e culturali sentono come una minaccia alla propria identità nazionale la pressione sovietica, e trovano nell’Islam e nella carismatica guida del professor Burhanuddin Rabbani il collante di una germinale resistenza a Mosca e un’alternativa a governi fantoccio come quello di Mohammed Daud Khan. Ma devono fare i conti anzitutto con la debolezza più antica del Paese, ovvero una pericolosa e fortissima frammentazione tra etnie differenti, che colpirà persino il fronte rivoluzionario dei Giovani Musulmani di cui fa parte Massud, spaccandolo in fazioni violentemente nemiche: da un lato i moderati fedeli a Rabbani, dall’altro gli estremisti guidati da Gulbuddin Hekmatyar, futuro dell’organizzazione fondamentalista islamica Hezbi Islami col sostegno del Pakistan. Il colpo di stato dell’aprile 1978 farà drammaticamente precipitare gli eventi, cacciando il regime repubblicano di Daud in favore di un governo filo-sovietico presieduto da Taraki, che farà entrare definitivamente l’Afghanistan nell’alveo di Mosca, mentre i ribelli organizzano la resistenza dalla base di Peshawar, drammaticamente divisi tra loro. Massud, dal canto suo, sceglierà di tornare al natio Panjshir, e da lì organizzerà una personale resistenza contro l’invasore russo. Dalla cronaca di «Corriere della Sera» del 1985, la descrizione dell’Afghanistan sotto controllo sovietico: «L’attività militare è solo un aspetto del coinvolgimento sovietico in Afghanistan, anche se il più vistoso. Ciò che avviene in sordina è la lenta ma continua penetrazione dei russi nei settori vitali dell’amministrazione e della burocrazia afghane: un processo che avrebbe già parzialmente cambiato il volto del Paese. I mass media subiscono il rigoroso controllo dei sovietici: l’università di Kabul, cittadella islamica, e le scuole in genere hanno dovuto accettare il nuovo indirizzo, che non sempre riesce a convivere con i dogmi della fede; la lingua russa sta per diventare obbligatoria e la pianificazione economica viene tracciata sotto la supervisione di esperti moscoviti»

L'Afganistan in capo a Mosca

Negli anni seguenti, dal 1979 al 1989, i mujaheddin di Massud, arroccati nelle montagne del nord del Paese, combatteranno le truppe sovietiche fino al loro definitivo ritiro nel 1989, con l’appoggio delle popolazioni locali e sotto lo sguardo incuriosito dei media internazionali, stupiti dai notevoli risultati militari di questo gruppo di guerriglieri, apparentemente improvvisato e senza mezzi, capace di resistere — e rispondere — a ben dieci offensive dei sovietici. Ettore Mo ci dà una descrizione della difficile — e impari — lotta tra mujaheddin e forze sovietiche: «La guerra russo-afghana è stata soprattutto, per chi abbia avuto il privilegio di seguirla assiduamente anno dopo anno, una gran fatica, uno sforzo fisico tremendo. [...] Ricordo un’escursione nel Panjshir, nell’estate dell’84, alla ricerca del leggendario comandante Massud, che alcune notizie davano per prigioniero dei russi o addirittura per morto: ventidue giorni di marcia per raggiungerlo e quasi altrettanti per rientrare in Pakistan. [...] Lassù nel Panjshir, il grande comandante stava benone. Altro che prigioniero o ferito a morte. Neanche un graffio sul suo bel volto asciutto, affilato. Aveva appena respinto la settima offensiva nella vallata, che i sovietici avevano troppo incautamente battezzato “Addio Massud”

L'illusione della pace a Kabul 

Cacciati i sovietici da Kabul e stipulati i cosiddetti Peshawar Accords tra i vari gruppi afghani protagoniste della resistenza, si impone il fronte guidato dal professor Rabbani, e Massud, per gli indubbi meriti militari, viene nominato ministro della Difesa. La sfida di dare un’unione politica al Paese si scontrerà da subito con le storiche divisioni interne tra le fazioni vincitrici dello scontro con i sovietici, e Massud dovrà vedersela in primis con le forze estremiste di Gulbuddin Hekmatyar, in una guerra a due, che assume nel tempo i tratti di un vero e proprio duello per la leadership, e che vede Massud forte di un enorme sostegno popolare e l’avversario sostenuto militarmente ed economicamente dal potente Pakistan. Annota Ettore Mo: «Nell’inverno del 1983 Massud aveva accusato Gulbuddin Hekmatyar, il super falco della resistenza di avergli tagliato i rifornimenti che venivano dal nord, favorendo i piani dell’Armata Rossa e affamando i suoi 10 mila mujaheddin. In realtà l’avversione che Hekmatyar ha sempre nutrito per il celebre comandante tagiko — secondo lui ingiustamente mitizzato dai mass media — aveva talvolta ostacolato il nostro cammino verso il Panjshir

Nutrito di odio

E ancora: «Nei dodici, tredici anni di guerra, Hekmatyar si è nutrito esclusivamente di odio, ha pasteggiato a odio dal mattino alla sera, tra le cinque preghiere quotidiane. Il suo piatto speciale era Massud Ahmad Shah, un tagiko, Gulbuddin era un pashtun di Kunduz, rampollo di una ricca famiglia di proprietari terrieri»

Un nuovo nemico: i talebani 

Nel clima di divisione interna e con le difficoltà oggettive di dieci durissimi anni di guerra alle spalle, l’Afghanistan fatica a diventare una compagine politica unitaria e democratica, e il vuoto governativo e di leadership diventa in pochi anni il terreno fertile per la nuova minaccia talebana, che gode dell’appoggio del vicino Pakistan, e secondo alcuni anche del finanziamento di attori internazionali contrari a un Afghanistan indipendente e sovrano. La resistenza ai talebani è serrata, ma non impedisce che nel settembre del 1996 questi guerriglieri dell’integralismo islamico prendano possesso di Kabul, instaurando la cosiddetta Repubblica islamica Afghana, fondata su una rigidissima interpretazione del Corano, che tocca soprattutto le libertà delle donne, private di ogni diritto politico e civile, interdette dall’istruzione e dalla vita sociale, e calpesta la tradizione culturale del Paese e i suoi simboli artistici come i famosi Buddha di Bamiyan, distrutti sotto gli occhi attoniti del mondo occidentale. Costretto alla fuga da Kabul come il Presidente Rabbani, Massud denuncerà ad alta voce la barbarie talebana, il sostegno del governo pachistano, e assisterà inerme alla vendetta dei nuovi padroni di Kabul, in primis contro il primo ministro Najibullah, prelevato con la forza dal palazzo dell’Onu, torturato, evirato e infine ucciso con un proiettile alla testa, per esser poi impalato sulla pubblica piazza come monito per la popolazione afghana. Un’escalation anti-democratica tale da far capire a Massud che è necessario il ritorno alla guerriglia utilizzata contro i sovietici, riorganizzando le sue forze dalla sua vecchia base nel Panjshir, come spiega a Ettore Mo nel 1996: «La mia è stata una ritirata strategica, come ce ne sono state tante nella storia. Ho messo in salvo i miei uomini e il mio arsenale. E ho evitato di esporre al massacro la popolazione locale. La vera sconfitta l’hanno subito loro — i talebani — perdendo l’appoggio popolare»

L'Alleanza del Nord

Stessi metodi per un avversario diverso, con l’appoggio — questa volta — delle forze occidentali riunite nella missione Enduring Freedom, non più indifferenti allo scacchiere afghano dopo i tragici fatti dell’11 settembre. Da allora fino al 9 di settembre del 2001, Massud o Leone del Panjshir, come verrà soprannominato, sarà alla testa dell’Alleanza del Nord in funzione anti-talebana, segnando successi militari che spiazzano le forze integraliste guidate da mullah Omar, come riporta ancora Ettore Mo: «In una sola giornata, con un duplice attacco, 1800 mujaheddin hanno spinto fuori dalla città — Teleqan — gli 8 mila studenti guerrieri di Omar inseguendoli poi lungo la strada berso Kunduz, a ovest. Più di cento talebani uccisi e 150 prigionieri»

La morte dell'eroe 

Pochi mesi prima dell’agguato che gli costerà la vita, Massud ammette che la situazione del Paese è drammatica e la guerra contro i talebani è a un punto di stallo, mentre le sue armate di mujaheddin faticano a portare avanti la resistenza senza il rinforzo delle potenze occidentali. In un’intervista a Ettore Mo dell’aprile 2001, al consueto piglio battagliero del Leone si sostituisce una profonda amarezza: «A tu per tu, mi lascia capire che la situazione nel territorio da lui controllato — che è sostanzialmente il Panjshir — è drammatica. Nella zona c’è un milione di profughi, le difficoltà sono state amplificate dalla carestia e da un clima perfido, manca il cibo, manca tutto. È stato di grande aiuto l’ospedale instaurato dal chirurgo milanese Gino Strada. [...] “Ciò che posso dire è che la nostra gente ha ormai capito chi sono veramente i Talebani, ed è solidale con noi. Credo che si siano resi conto, finalmente, che dietro i Talebani c’è un Paese straniero, il Pakistan”

L'attentato

È il 9 settembre del 2001, Massud è ormai una personalità di rilievo internazionale e non pochi media si interessano alla sua lotta di liberazione dalle valli del Panjshir; quel giorno il leggendario comandante riceve la visita di due sedicenti giornalisti tunisini, che dicono di volerlo intervistare per un’emittente televisiva del Marocco interessata alle gesta dell’Alleanza del Nord: nella telecamera che portano con sé è nascosta una bomba, che non lascerà scampo al Leone del Panjshir. Nell’esplosione morirà anche uno dei due attentatori, mentre l’altro sarà ucciso durante la fuga dalle guardie del corpo di Massud. Si scoprirà poi che i due tunisini sono in realtà terroristi reclutati a Bruxelles dal capo dell’organizzazione salafita Ansar Al Sharia, anche se altri osservatori li fanno risalire direttamente ad Al Qaeda. Due giorni dopo, quando la notizia della morte viene resa pubblica, passa in sordina perché il mondo è scosso dal più grande attentato terroristico della storia, proprio nel cuore degli Stati Uniti, e qualcuno azzarda subito che la tempistica dei due tragici eventi sia ben più che una coincidenza, quasi che la fine di Massud sia stato un sibillino avvertimento. Incompreso o inascoltato. Ettore Mo, più volte faccia a faccia con Massud, lo ricorderà con queste parole dalle pagine del Corriere: «Non so se quest’arida montagnola coperta di sabbia e cotta dal sole diventerà mai un luogo di culto per le popolazioni islamiche dell’Asia Centrale: certamente, la natura del territorio non favorisce peregrinazioni e raduni di massa. Ma per gli afghani di questa e di altre regioni, la tomba di Ahmad Shah Massoud resterà un simbolo imperituro della storia e della tragedia di un popolo o semplicemente il sarcofago-santuario dell’eroe che già all’inizio degli anni Ottanta chiamavano il Leone del Panjshir»

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